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L’altra economia di Serge Latouche

di Angelo Marino - 09/01/2006

Fonte: filosofiatv.org

 

La piovosa serata di venerdì 7 ottobre 2005 ha offerto ai trevigiani un’opportunità forse irripetibile: quella di poter vedere e ascoltare Serge Latouche, uno dei massimi esponenti a livello mondiale del movimento per la decrescita economica, che ha accettato l’invito di alcune Associazioni del Volontariato trevigiano - tra cui l’Associazione Eco-filosofica - a tenere una conferenza nella Sala Longhin di Casa Toniolo. Il prof. Ferruccio Bresolin, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha dato un sostanziale contributo alla riuscita dell’incontro sviluppando, subito dopo la relazione di Latouche, una sua linea di pensiero dialettica ma non oppositiva a quella dell’economista francese.

Il prof. Latouche, professore emerito di Economia all’Università Paris XI, è autore di numerosi saggi (tra cui, L’occidentalizzazione del mondo, 1992; Il pianeta dei naufraghi, 1993; La megamacchina, 1995; I profeti sconfessati, 1995; La sfida di Minerva, 2000; La fine del sogno occidentale, 2002), nei quali espone a severa critica la logica dello sviluppo occidentale e i fondamenti dell’economia neoclassica che lo sostengono.

In quest’incontro l’economista francese ha messo a fuoco la natura dissipativa del modello economico occidentale, mostrandone l’insostenibilità ecologica e sociale. L’enorme divario tra il modo di essere dei sistemi viventi e il modo con cui funziona l’attuale sistema economico è apparso in piena evidenza sin dalle prime battute del suo intervento. Egli ha molto insistito sulla improrogabile necessità di abbandonare definitivamente l’ideologia e la pratica della crescita senza freni: è inimmaginabile che una crescita al ritmo attuale, che fagocita quantità enormi e sempre crescenti di materia e di energia, possa continuare all’infinito; né è condivisibile la tesi degli economisti neoclassici, secondo cui il passaggio dalla vecchia alla new-economy - dallo sfruttamento intensivo delle risorse naturali alla dematerializzazione della produzione - risolverebbe il problema. Si sta invece assistendo al fenomeno opposto: da quando sono state introdotte le produzioni “leggere” della società on line, il consumo delle risorse naturali è cresciuto in maniera esponenziale rispetto al passato.

Non c’è alcun dubbio che i danni all’ambiente sono da mettere in relazione all’azione dell’uomo. A destare le maggiori preoccupazioni è l’accelerazione del riscaldamento climatico, da cui dipende la sopravvivenza nostra e di  ogni altra forma di vita sul nostro pianeta: il Centro nazionale oceanico e atmosferico americano ha annunciato che settembre di quest’anno è stato il mese più caldo mai registrato sul pianeta. Non siamo altrettanto informati dai mass media di un altro fenomeno non meno allarmante: l’estinzione in massa di un gran numero di specie viventi, sia animali che vegetali. I paleontologi hanno compilato la cosiddetta “lista rossa”, dove sono elencate le specie estinte e quelle minacciate di estinzione. Si tratta di un fenomeno iniziato alcune migliaia di anni fa (forse trentamila), ma che ha subìto un’improvvisa accelerazione negli ultimi decenni, raggiungendo la sua “onda di piena” proprio in questi ultimi anni. Si calcola che ogni giorno scompaiano 100 specie viventi dal nostro pianeta.

E’ paradossale che “il grande disegno” di globalizzare il mondo, fondato sulla logica della produzione finalizzata al solo profitto, parta proprio dai paesi dell’Occidente maggiormente indiziati di essere proprio loro i responsabili di questo degrado. In questa prospettiva, il rischio più grave è proprio l’occidentalizzazione del mondo. Non stupisce che siano i “paesi civili” i più fervidi promotori della globalizzazione, veicolandola come afflato universalistico e missione umanitaria tesa ad estendere al resto del mondo l’eredità nobile del nostro illuminismo: i diritti umani e i valori della democrazia. La controffensiva dei no global e dei movimenti della decrescita nasce proprio dalla consapevolezza che questo “grande disegno” persegue scopi prettamente utilitaristici: il suo obiettivo non è la salvaguardia del pianeta né la diffusione della democrazia né, tanto meno, la creazione di società virtuose ed ecocompatibili, ma quello di massimizzare i profitti allargando le basi immaginarie della società di mercato e soggiogando a questa logica anche i paesi del terzo mondo. In questo contesto, chiamare in causa l’illuminismo avrebbe senso solo per denunciarne il fallimento: per mostrare come la razionalità illuminista sia stata amputata della sua componente emancipatrice e ridotta alla sola e unica razionalità economica.

Il futuro dei paesi a tecnologia avanzata - e di quelli che si avviano a diventarlo - è legato alla capacità di rompere la spirale perversa che attualmente li attanaglia, di scardinare le due forze che si sostengono e si alimentano a vicenda: da una parte un apparato che produce a ritmi forsennati e dall’altra una società “mai sazia”. Invertire la tendenza, sostituendo all’attuale economia di mercato un’economia solidale e dal volto umano, è questione di vita o di morte per la società, per l’ambiente e per lo stesso apparato produttivo; ma è un’impresa disperata se affidata ai potenti della politica o della finanza o delle  tecnocrazie internazionali, attenti solo ai bilanci in attivo e ai flussi del libero mercato. Occorre uscire dalla logica della crescita illimitata e considerare il consumismo come una dipendenza dalla quale dobbiamo al più presto liberarci. Il cuore del problema è quindi dentro di noi consumatori, secondo Latouche: nella nostra capacità di affrancare il sistema dei valori dal sistema economico-produttivo e di cancellare dal nostro immaginario la radicata convinzione che la nostra felicità dipende dalla quantità di beni che abbiamo a nostra disposizione.

Da qui la necessità di una netta inversione di tendenza, di una vera rivoluzione culturale, che Latouche condensa nella parola d’ordine “decolonizzare l’immaginario”: essa è la tappa necessaria per passare dalla condizione di sudditi di un sistema energivoro e distruttivo alla condizione di protagonisti del cambiamento. Sottrarsi alla tirannia della mega-macchina vuol dire per Latouche rimettere in discussione l’intero sistema dei nostri valori, trasformare il nostro pensiero, prendere a modello le “economie solidali”, promuovere una “decrescita conviviale”: tutte formule che presuppongono un’assunzione di responsabilità, l’abbandono definitivo di quell’immaginario mentale ed emozionale sul quale l’uomo occidentale ha strutturato il suo io.

Non dobbiamo illuderci, sostiene Latouche, che l’acquisizione di un nuovo immaginario sia un’operazione rapida e facile. L’economicismo è un fenomeno onnipervasivo, un’ideologia trasversale e planetaria assai difficile da contenere e neutralizzare. E’ illusorio, oltre che irresponsabile, credere di poterla abbattere con un attacco frontale (come s’è fatto con il comunismo in Unione Sovietica), perché non ha una regia visibile, non poggia su una struttura gerarchica e centralizzata, anche se esistono mega-apparati politico-finanziari riconoscibili che impiegano enormi capitali per mantenerla in vita, soprattutto attraverso la pubblicità.

L’economicismo ha radici antiche e profonde nella cultura occidentale, ma è diventata l’ideologia e la pratica dominanti con l’avvento della modernità, quando l’uomo occidentale ha definitivamente consumato il suo distacco dalla natura, riducendola a semplice oggetto e mettendo a punto tecniche atte a manipolarla ed a sfruttarla illimitatamente. La difficoltà di arginare questo fenomeno nasce anche dalla sua dilatazione geografica: il miraggio del benessere economico sta catturando l’immaginario anche dei paesi del Sud del mondo, che guardano all’Occidente come alla Terra Promessa e aspirano a stili di vita simili a quelli del Nord. Anche nei paesi in cui il capitalismo è venuto meno ed ha preso il sopravvento il socialismo, l’economicismo non è stato minimamente scalfito; al contrario, è andato sempre più configurandosi come ideologia dominante e incontrastata.

In quest’incontro Latouche ha posto l’accento sulla soluzione pedagogica del problema: la società alternativa affidata al fascino dell’utopia conviviale. Da qui la necessità di agire, non direttamente sulle tecniche di produzione e sui consumi, ma indirettamente sul nostro modello di crescita e sul nostro modus vivendi, in una parola sulla nostra cultura: appunto, “decolonizzando il nostro immaginario”. Non si esce dalla spirale “più consumo, più produzione” semplicemente restringendo i consumi e la produzione: non c’è nulla di peggio, secondo Latouche, di una società della crescita senza crescita (laddove per crescita è da intendersi tutt’altra cosa della pura crescita economica).

Da quanto detto sopra appare chiaro come il pensiero di Latouche trascenda gli schemi ortodossi dell’economia classica. Le sue analisi puntano ad evidenziare verità che non hanno nulla a che vedere con i dati del Pil, con i flussi di tendenza e, in generale, con i “programmi di ricerca” dell’economia ufficiale sotto le diverse bandiere del liberismo, del protezionismo o del postmodernismo. Il suo concetto di economia è quello di una scienza aperta, umanizzata, organicamente collegata alle altre scienze umane: lo status di “scienza che pensa” può essere rivendicato dall’economia solo se si fa carico delle ricadute dei suoi modelli e metodi esplicativi sui suoi naturali destinatari, che sono la società e l’ambiente; “scienza che pensa” è solo quell’economia che abbandona l’orizzonte asettico e impersonale della ricerca pura - o della ricerca asservita agli interessi di mercato - e attraversa i confini delle varie discipline, i comparti tradizionalmente separati dell’etica, della politica, della sociologia e dell’antropologia.

Serge Latouche è tra i pionieri di questa nuova concezione dell’economia: in quanto individua un continuum tra le scienze umane, al centro delle quali colloca l’economia - non perchè scienza privilegiata, ma perché dalla soluzione dei problemi che essa pone dipende il futuro del nostro pianeta -, e in quanto mira a ridefinire le regole del gioco e a “ri-fondare” l’intera società secondo un modello alternativo a quello mercantilista e produttivista.

Per tutte queste ragioni Latouche è da considerare un economista anomalo o piuttosto un “economista informale”, come informali sono le economie delle popolazioni tribali, che egli prende a suo modello ideale - e che possono costituire la base per un mondo nuovo -, ma che gli economisti puri non prendono in alcuna considerazione. Nell’ottica di Latouche sono proprio queste economie di autosufficienza (se riusciranno a sottrarsi alle spire della globalizzazione) ad avere un futuro, proprio perché necessitano di pochissime risorse per mantenersi vitali.

 

Una piccola digressione. Riprendendo la metafora della “forbice”, precedentemente utilizzata da Latouche per indicare il divario tra paesi ricchi e paesi poveri, uno del pubblico faceva notare al relatore che questo divario si sta estendendo a macchia d’olio all’interno delle stesse società consumistiche: quantomeno in Italia, c’è già una decrescita in atto, meglio un impoverimento progressivo, non dell’intera società, ma di una parte crescente della popolazione, che prima viveva in una dignitosa povertà e che adesso “non sa come sbarcare il lunario”. Sintomo e concausa di questa decrescita, non voluta né auspicata da nessuno, è lo smantellamento di molte imprese poco redditizie e la loro dislocazione in zone del mondo dove la manodopera costa poco: fatto assai grave, perché chiude ogni prospettiva di crescita o di decrescita condivisa, perché aumenta la disoccupazione e perchè accentua gli squilibri e le tensioni sociali. La rabbiosa impotenza delle fasce sociali colpite da questo fenomeno - messo in atto da un capitalismo irresponsabile - è acuìta dalla consapevolezza che la ricchezza materiale non si è dissolta nel nulla, come si vorrebbe far credere, ma è semplicemente “passata di mano”, si è delocalizzata socialmente.

L’interlocutore faceva notare al prof. Latouche che, in queste condizioni, è improponibile per l’Italia, a meno di non essere irridenti e beffardi, qualsivoglia forma di “decrescita conviviale”. In una società come la nostra, sempre più divisa sul piano dei diritti e della giustizia distributiva (pensioni di 5.000 euro l’anno a fronte di retribuzioni che superano i 500.000 euro l’anno, per restare nell’ambito della pubblica amministrazione), la proposta della “decrescita conviviale” è più un invito alla rassegnazione che una via d’uscita.

Da sola la strategia pedagogica è dunque improponibile, prima ancora che inefficace, almeno per quanto riguarda l’Italia: “decolonizzare il nostro immaginario”, popolato com’è di vecchi fantasmi e di antichi sogni di rivalsa, significherebbe – per restare nella metafora - bonificare un territorio vastissimo, dove è impossibile stabilire in quale punto, quando e chi dovrebbe intervenire per primo (la scuola? i movimenti di opinione? i mass-media? le associazioni di volontariato?). La lentezza dei processi culturali, oltre tutto, è compatibile con i tempi lunghi della storia, non con l’attuale degrado dell’ambiente (e imbarbarimento della società) che necessita di interventi non procrastinabili. Si rischierebbe di spostare sine die un serio approccio al problema e di impantanarlo nel rituale palleggiamento delle responsabilità, come dimostra la cronaca di questi ultimi anni.   

Per queste ragioni, il “risanamento” non può non passare attraverso le maglie della politica. Se da un lato non possiamo condividere l’ottimismo degli economisti neoclassici sulla capacità autocorrettiva del sistema tecnologico, dall’altro non dobbiamo cullarci nella speranza che il miracolo possa compiersi da solo, semplicemente confidando sulla ragionevolezza, senso di responsabilità e autonoma capacità dell’uomo di modificare forma mentis e abitudini di vita; o puntando sulla “pedagogia delle catastrofi”, peraltro prevista dallo stesso Latouche, che non è una soluzione, perché a quel punto non c’è più nulla da fare. L’Italia poi, almeno da questo punto di vista, non è sicuramente da assumere a modello di paese virtuoso: non dobbiamo dimenticare infatti che essa, oltre ad essere la patria di Francesco d’Assisi, è anche la patria di Francesco Guicciardini, lo storico rinascimentale che esortava le persone di buon senso a badare innanzitutto al loro “particulare”.

 

Nel pensiero di Latouche strategia pedagogica e strategia politica non sono alternative, ma complementari. Nei suoi scritti egli rigetta l’idea del governo mondiale attraverso una forma di ecocrazia autoritaria (ecofascismo o ecototalitarismo): il risanamento non può avvenire con un attacco frontale al capitalismo. La via indicata dall’economista francese è quella del riformismo graduale, passando attraverso forme di “arbitraggio minimale” delle piccole comunità locali. Se è irrealistico pensare che si possa rovesciare frontalmente il dominio delle potenze economiche, puntando direttamente su una democrazia mondiale, la sola via praticabile rimane quella del dissenso locale, messo in atto attraverso un “numero sufficiente di comportamenti virtuosi” all’interno del villaggio planetario.

Nel suo saggio Giustizia senza limiti (Bollati Boringhieri, 2003) e, più recentemente, nell’articolo “Ecofascismo o ecodemocrazia”, apparso sul Monde diplomatique (n. II, nov. 2005), il percorso è individuato in una decelerazione progressiva della crescita materiale attraverso la rivitalizzazione di strutture storicamente collaudate, come la polis greca o attraverso la creazione di nuove forme di dissenso, come quelle attualmente messe in atto dagli zapatisti e dal sub-comandante Marcos. Lo scopo di questi movimenti non è quello “di creare nuove zone coltivabili e di costruire nuove vie di comunicazione strappandole ai terreni incolti e alle paludi, ma di bonificare e di ricostruire sistemi ambientali e territoriali devastati e contaminati dalla presenza umana e, così facendo, di creare una nuova geografia” (A. Magnaghi): non la via universalista, dunque, ma la via “pluriversalista”, perché rispettosa delle “polities sovrane dagli statuti molto diversi” e perché capace di dare vita a forme di democrazia ecologica locale. L’obiettivo resta sempre la realizzazione di una repubblica universale, ma “senza coinvolgere né governo né controllo né polizia mondiali”. E’ il suggerimento di Raimon Panikkar con la sua alternativa delle “bioregioni”, “vale a dire delle regioni naturali dove i greggi, le piante, gli animali, le acque e gli uomini formano un insieme unico e armonioso”.