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Il duomo romanico-gotico di Udine ha un cuore in puro stile settecentesco

di Francesco Lamendola - 18/02/2008

 

 

 

Non è certo un caso eccezionale, nell'architettura sacra italiana (e non solo italiana), tuttavia è uno degli esempi più eclatanti di come il lento lavorio della storia possa alterare la struttura originaria di un edificio sacro. Infatti, c'è una sorpresa in serbo per chi, dopo aver ammirato la splendida facciata e le strutture esterne del Duomo di Udine, in un tipico esempio di stile romanico-gotico, varca il portone d'ingresso e si immerge nella penombra delle tre ampie navate. L'interno del maggior tempio friulano, infatti, ha conservato l'originario aspetto medioevale solo, nei grandiosi pilastri, nelle cappelle laterali e nel battistero, ove è ospitata l'arca marmorea del Beato Bertrando: tutto il resto, invece - dai dipinti e gli altari delle cappelle laterali, all'altar maggiore, ai magnifici dossali dei due cori lignei del presbiterio - parla inequivocabilmente il leggero e aggraziato linguaggio artistico del XVIII secolo. Tanto che il visitatore, il quale vi giunga per la prima volta, potrà essere quasi in dubbio se si  trovi di fronte a un unico edificio, o a due edifici distinti: uno esterno ed uno interno. Pare impossibile, infatti, che, solo varcando una porta, si possa passare con tanta naturalezza da una civiltà artistica a un'altra, da uno stile a un altro, da un'atmosfera a un'altra; eppure è così.

Fu il Patriarca Bertoldo di Andechs (1218-1251) a edificare la maggiore chiesa udinese, inizialmente dedicata a S. Girolamo e poi a S. Odorco, in seguito al trasferimento del capitolo di san Odorico al Tagliamento. Prima, la chiesa cittadina era quella di S. Maria di Castello, che sorgeva (e sorge tuttora) sul colle della città, a fianco del Castello patriarcale. La chiesa di S. Odorico venne ampliata e crebbe d'importanza sotto il patriarcato di Gregorio di Montelongo (1251-1269), che voleva fare di Udine il centro del suo Stato, che era nominalmente ad Aquileia e, di fatto, a Cividale (Forum Iullii), già capitale dell'antico ducato longobardo.

Ma fu il più famoso dei Patriarchi friulani, il francese Bertrando di San Genesio (1334-1350), le cui reliquie riposano ancor oggi nel tempio,  che procedette a un radicale ampliamento e rifacimento della chiesa, dedicandola  a S. Maria Maggiore e dandole l'aspetto esterno che mostra ancor oggi, sul modello delle costruzioni cistercensi della Borgogna, a cominciare dalla più famosa di tutte: l'abbazia di Citeaux. Infatti, la struttura architettonica complessiva rivela una unitarietà di concezione, una purezza di forme gotiche e una coerenza stilistica che fanno subito pensare a un progetto unitario, realizzato con piglio vigoroso in breve volgere d'anni. Non si notano quelle incongruenze, quelle sovrapposizioni di linee e di forme, che tradiscono un lento procedere e un susseguirsi di disegni e di maestranze differenti. La consacrazione ebbe luogo nell'anno 1335, anche se i lavori continuarono a lungo, prima per la costruzione delle cappelle laterali, indi per l'erezione del possente campanile.

Si tratta di una costruzione tipicamente trecentesca, con facciata in cotto a tre spioventi, portale mediano fiancheggiato da monofore e sormontato da un protiro pensile. Quest'ultimo è stato aggiunto nel 1926; va detto, infatti, che l'intera facciata è stata restaurata nei primi anni del XX secolo. Nella lunetta del portale mediano sono scolpite le scene dei tre momenti-cardine della religione cristiana: la Natività, la Crocifissione e la Resurrezione.

A fianco, il possente campanile ottagonale è rimasto incompiuto (misura appena 48 metri) e presenta, perciò, una struttura piuttosto tozza che, tuttavia, ben si armonizza con il corpo centrale dell'edificio sacro. Fu eretto fra il 1441 e il 1450 da Bartolomeo delle Cisterne, su progetto di  Cristoforo da Milano, sopra l'antico Battistero.

Sulla cima del campanile avrebbe dovuto svettare la statua della Vergine annunziata, facendo così da pendant all'Arcangelo Gabriele che  si libra, singolare statua segnavento, sul campanile della vicina Santa Maria di castello, e che costituisce il simbolo della città di Udine. Sul basamento del campanile sono poste due notevoli sculture di un maestro tedesco del XIV secolo, che raffigurano, ancora, l'arcangelo Gabriele e l'Annunziata.

Scrive Carlo Someda de Marco (Guida del Duomo di Udine, Udine, Tipografia. G. B. Doretti, 1960, pp. 24-27:

 

"Un guaio ha subito l'estetica del monumento nel 1953 quando, per esigenza della sistemazione del piano stradale, è stato abbassato il mantello della piazza antistante la facciata con la conseguenza di dover creare una gradinata, che nell'intento avrebbe dovuto recare decoro alla costruzione: ma fece difetto lo studio del problema del collegare il vecchio con il nuovo cosicché ne risultò che i gradini oggi figurano quasi addossati a caso innanzi al vetusto muro. I muri poi greggi rimasti scoperti dal nuovo livello del terreno furono rivestiti da una zoccolatura in lastre  di pietra verticali che  contrastano vivacemente  con ogni buona regola costruttiva."

 

E tuttavia, nonostante tali inconvenienti, si può affermare che l'estetica dell'insieme non ha sofferto troppo di questi recenti interventi e che il disegno complessivo della facciata conserva la solennità e dignità che possedeva in origine: tale era stata la purezza di concezione che aveva presieduto al progetto originario di essa.

Il grandioso interno a croce latina, a tre navate divise da pilastri, è, come dicevamo all'inizio, di fattura squisitamente barocca; inoltre, le cappelle laterali (realizzate fra l'inizio del 1400 e il 1500) sono intercomunicanti, sicché la loro fuga prospettiva simula una quarta e una quinta navata, che conferiscono ancora più ampiezza all'insieme. La luce piove discreta dai tre grandi oculi della facciata e dalle finestre laterali, avvolgendo le superfici in una atmosfera sognante e rarefatta, che favorisce la concentrazione e, tuttavia, consente di ammirare agevolmente ogni particolare dell'interno.

Questo adattamento delle originarie forme gotiche al gusto del XVIII secolo è dovuto al fatto che, nel 1706, le autorità cittadine avevano deciso la riforma del coro; ma, ben presto, ci si rese conto che ciò sarebbe stato impossibile, senza por mano a una riforma di tutto l'interno dell'edificio, perché, diversamente, il nuovo coro avrebbe contrastato irrimediabilmente con il resto della chiesa. Si trattava, pertanto, di procedere a un radicale rifacimento (e non, si badi, a un semplice ampliamento) di tutta la struttura gotica dell'interno: lavoro gigantesco e audacissimo, da far tremar le vene e i polsi a qualunque architetto.

Si decise di affidare l'opera al valente Domenico Rossi di Venezia (11678-1742), il quale eseguì un progetto e lo sottopose all'esame di due stimate autorità super partes: il pittore Luca Carlevaris e l'architetto Giuseppe Pozzo. Entrambi espressero un giudizio estremamente favorevole, e i lavori furono iniziati, con piglio energico, nel 1713.

Scrive ancora il Someda de Marco (Op. cit., p. 19):

 

"Il Rossi pose mano alla riforma della fabbrica vincendo tutte le enormi difficoltà che gli si presentavano date dalla trasformazione di un organismo di stile gotico in quello dell'arte barocca che imperava in quel tempo.

"Cambiò egli la struttura del vasto edificio sviluppando architettonicamente le cappelle laterali alle navi dandoci l'illusione di trovarci in una chiesa di cinque navate.

"Rivestì gli antichi pilastri, abbassò il soffitto della nave centrale, alzò quello delle navi laterali, fece sparire ogni linea che potesse ricordare l'arte gotica: concatenò le membrature con il vasto presbiterio chiudendo in chiave con il coro la larga articolazione architettonica che non è più del barocco ma è ormai di linguaggio del settecento veneto.

"Si creò così un ambiente ove non si sono masse inerti ma tutto coerenza di linee e senso di misura che derivano da una geniale visione prospettica spaziale."

 

Potremmo, a questo punto, soffermarci a riflettere sui pregi e sui limiti di un tal genere di operazioni architettoniche, le quali, per quanto condotte con somma perizia e con vivissimo senso dell'arte, come è il nostro caso, alterano e snaturano in modo radicale la struttura originaria di un determinato edificio. È certo, infatti, che, agli occhi dei contemporanei, siffatte riforme provocano, almeno inizialmente, disorientamento e sconcerto; e la stessa considerazione vale per gli spazi architettonici urbani: nel caso di Udine, ad esempio, la copertura delle numerose rogge cittadine, realizzata negli anni Cinquanta del secolo scorso, che permise bensì di allargare le strade, adeguandole alle esigenze del traffico automobilistico, ma provocò anche la scomparsa di un elemento estremamente caratteristico dell'ambiente cittadino.

Tuttavia, è facile osservare che un edificio, quanto più è antico, tanto più è soggetto alla necessità di periodiche ristrutturazioni (e ciò vale, a maggior ragione, per gli spazi urbani); e che, se la riforma del Rossi alterò drasticamente le forme dell'interno del Duomo, qualcosa di analogo era già stato fatto, secoli prima, allorché la primitiva chiesa di S. Odorico era stata trasformata nella chiesa di Santa Maria Maggiore.

In architettura, i cambiamenti sono inevitabili e necessari, specialmente se si tratta di edifici fruiti dalla comunità anche per motivi pratici; si pensi, per fare un esempio di attualità, alle discussioni che stanno accompagnando, proprio in questi giorni, il progetto di realizzare una tranvia nel centro storico di Firenze. Altro discorso vale per i ruderi di un passato ridotto a pura archeologia, come il Colosseo o il Foro Romano; o per gli edifici pubblici trasformati in semplici musei; come, nel caso di Udine, l'antica chiesa di San Francesco. Solo la scultura e, più ancora, la pittura godono il privilegio di una relativa stabilità (restauri a parte), perché i loro prodotti sono unicamente da contemplare e non da vivere; e l'occhio, si sa, non consuma la pietra né la tela (tutt'al più, i lampi  delle macchine fotografiche o, nel caso delle sculture poste all'aria aperta, gli agenti atmosferici e… i piccioni); mentre la frequentazione quotidiana di folle numerose "consuma" lentamente anche l'edificio più robusto; per non parlare dei problemi statici, della deperibilità dei materiali, degli eventuali smottamenti del terreno, dei terremoti, e così via.

Ciò detto, chiudiamo questa parentesi e riprendiamo la visita al Duomo di Udine.

 

Entriamo dal portone della facciata che guarda a sud-ovest (altri due portoni laterali si aprono sul lato a nord-ovest e su quello a sud-est, di fronte all'Oratorio della Purità). L'accentuata verticalità dell'interno, non del tutto smorzata dalla riforma settecentesca; l'ampiezza delle navate laterali e la loro altezza, di poco inferiore a quella della navata centrale;  la possanza dei pilastri che sorreggono le arcate: tutto parla un linguaggio maestoso e solenne. E sempre più ci sentiamo ammirati dalla straordinaria bravura dell'architetto Domenico Rossi che, in pieno Settecento, ebbe l'incarico di ristrutturare l'interno del tempio, senza poter alterare l'originario impianto gotico; e vi riuscì con tale maestria che, come si è detto, il visitatore non avverte un brusco e traumatico passaggio da uno stile all'altro, bensì quasi uno scivolare naturale e armonioso del più antico nel più recente.

La prima cappella laterale che incontriamo, entrando, alla nostra sinistra, è quella dedicata a San Marco e ospita, fra l'altro, la pregevolissima pala dell'altare raffigurante San Marco e santi, opera di Giovanni Martini; sull'altare, opera dell'architetto Giorgio Massari, la Madonna della salute (rifacimento pittorico del XIX secolo); e, alla parete, due dipinti di Maffeo da Verona: lo Sposalizio della Vergine ed il Transito di san Giuseppe.

La seconda cappella a sinistra è dedicata a san Giuseppe; le opera più notevoli in essa contenute sono la pala dell'altare, dell'artista friulano noto come Pellegrino da San Daniele (ma il cui nome originario, in realtà, era Martino da Udine), raffigurante, appunto, San Giuseppe col bambino Gesù, su un grandioso sfondo di architetture rinascimentali; e la sontuosa, ricchissima volta, adornata con stucchi e dipinti, opera di Andrea Urbani. 

La terza cappella a sinistra è dedicata alla Madonna della Divina Provvidenza. L'altare è di Giorgio Massari, mentre i bassorilievi raffiguranti San Nicolò e San Girolamo sono dovuti alla mano del valente scultore veneziano Giuseppe Torretto (o Torretti, 1682-1743).

La quarta e ultima cappella di sinistra è denominata delle Reliquie, perché, dopo la soppressione del patriarcato di Aquileia, vi furono traslate, nel 1754, parte delle reliquie conservate in quella antica basilica. Sulla destra dell'altare vi è un bel crocifisso di Maestro Bartolomeo, che risente di un duplice influsso stilistico: toscano e germanico (per la precisione, renano). L'altare è abbellito, fra l'altro, da due rilievi del Torretto: l'Annunciazione e la Visita di Maria a Santa Elisabetta, dalle linee particolarmente vivaci e quasi tintorettiane nel loro sciolto dinamismo. Le due statue laterali, di San Gregorio e San Quirino, sono opera di Giovanni Bonazza. Il catino della cappella (che è rientrante, rispetto alle prime tre) è opera, assai suggestiva, di Pietro Antonio Novelli. Infine, il trittico del Sacro cuore di Gesù, di Santa Teresa del Bambin Gesù e della Beata Elena Valentinis è opera dell'artista udinese Fred Pittino, che lo dipinse nel 1940, per volontà dell'arciprete monsignor Achille Benedetti.

Passiamo ora sul lato destro della chiesa e iniziamo dalla prima cappella laterale, denominata della Trinità. Sull'altare è collocata la splendida pala di Giovanni Battista Tiepolo raffigurante la Trinità, una delle opere più giustamente celebri del grande maestro veneziano, dipinta nel 1738. Al centro, il crocifisso, sullo sfondo di un cielo tempestoso, senza alcuna figura di santi ai piedi della croce e due soli angioletti, stilizzati, che si librano in aria, uno a destra e uno a sinistra; in alto Dio Padre, che si affaccia alla sommità della croce, come per accogliere e abbracciare l'anima del Figlio morente; al centro, presso la scritta I.N.R.I., la Colomba dello Spirito Santo. È un'opera dalla concezione compositiva  straordinariamente semplice ed efficace, tutta avvolta in una atmosfera disadorna e antiretorica, resa più drammatica dalle vibranti tonalità del rosso. Il volto del Cristo in agonia è uno dei più intensi e sofferti e, al tempo stesso, uno dei più umani che siano stati raffigurati nella storia dell'arte moderna. Alla parete, due dipinti di Pomponio Amalteo: la  Resurrezione di Lazzaro e la Probatica piscina.

La seconda cappella di destra è quella dei santi Ermacora e Fortunato, patroni della città di Udine. Sopra l'altare settecentesco, voluto dal cardinale Delfino (1734-1762), ultimo patriarca di Aquileia, si trova la pala raffigurante i  Santi Ermacora e Fortunato, sempre di Giovanni Battista Tiepolo, anch'essa estremamente sobria nella composizione e caratterizzata dalla leggendaria leggerezza di tocco e vaporosità di forme, per le quali è celebre il maestro veneziano; l'opera è stata realizzata nel 1737. Straordinario, poi, è l'effetto prospettico e scenografico della volta, opera di Andrea Urbani, con un angelo recante la corona per i santi martiri, che sembra letteralmente planare giù da una apertura sul cielo azzurro, lungo una chiostra di false architetture.

La terza cappella di destra è dedicata ai santi Giovanni Battista ed Eustachio.  L'altare, di squisita fattura, semplice ed elegante al tempo stesso, è impreziosito da una pala di Francesco Salvatore Fontebasso e rappresenta i due santi dedicatari, Giovanni Battista ed Eustachio: piace per la solidità e l'originalità dell'impianto compositivo, per l'armonioso classicismo dei volumi e, soprattutto, per il gioioso cromatismo che la trasfigura. Anche la volta di questa cappella è opera di Andrea Urbani, che vi dispiega la consueta bravura, al limite del virtuosismo.

La quarta e ultima cappella di destra, forse la più splendida di tutte, è quella del Santissimo Sacramento. Tutto l'insieme è straordinariamente armonioso, raffinato, sapientemente scenografico,  secondo il gusto del moderato barocco veneto settecentesco, che non risulta mai pesante o eccessivo. Gli affreschi del Tiepolo, alle pareti e sul catino; la pala di Pomponio Amalteo con Gesù che scaccia i mercanti dal Tempio; l'altare con le belle sculture di Giuseppe Torretto, e cioé due angeli ai lati, e i bassorilievi raffiguranti la Consegna delle chiavi a San Pietro e la Cena di Emmaus, questi ultimi veramente splendidi nella loro sobria e commossa essenzialità; il bassorilievo con Gesù morente ai piedi della croce sulla porticina del tabernacolo, in rame sbalzato, fiancheggiata da due angeli in preghiera: tutte queste meraviglie fanno da cornice alla gemma preziosa di questa cappella, ossia la pala dell'altare con la Resurrezione di Giovanni Battista Tiepolo, capolavoro assoluto dell'artista.

Si tratta di un'opera di modeste dimensioni (m. 1,28 x 0,66) e di cui non si conosce la data esatta di composizione, che dovrebbe essere di poco anteriore alla consacrazione dell'altare, avvenuta nel 1754.  È uno dei dipinti più freschi, vivi e perfetti di questo grandissimo artista, sia per la purezza della linea e il senso del movimento, con un Cristo vittorioso che si libra al di sopra del sepolcro scoperchiato, sia per lo straordinario senso del colore, che gli conferisce un fascino assolutamente unico e straordinario.

Se, poi, ci volgiamo ad osservare i principali monumenti della navata centrale, dobbiamo in primo luogo ammirare la grande ed elegantissima acquasantiera in pietra, scolpita dall'artista lombardo  Bernardino da Bissone, nel 1497. Indi, alziamo lo sguardo al di sopra del portone d'ingresso, verso il ligneo monumento equestre del conte Daniele Antonini, dagli echi donatelliani e verrocchieschi, opera, probabilmente, dello scultore Girolamo Paliario (attivo tra la fine del Cinquecento e il 1622). Questo monumento fu voluto dal Senato della Repubblica di Venezia a ricordo del geniale patrizio Daniele Antonini, matematico e letterato, nato nel 1589 e ucciso da una cannonata austriaca, a soli ventisette anni, sotto le mura di Gradisca (durante la guerra omonima), nel 1616. Infine osserviamo, a destra dell'ingresso del lato di sud-est, il bel monumento a Zaccaria Bricito (il benemerito arcivescovo di Udine che salvò la città, nel 1848, dal bombardamento austriaco), di Luigi Minisini, del 1858.

Ma l'opera di gran lunga più notevole ed elegante di tutta l'aula è, senza dubbio, il pulpito in legno del XVIII secolo, poggiante su pilastri marmorei, che si trova addossato al pilastro fra la cappella dei Santi Battista ed Eustachio e quella del Santissimo; poiché la parte lignea è dipinta, anch'essa, in finto marmo, sembra che tutto l'insieme sia marmoreo. Ignoriamo il nome dell'artista che, nel 1737, eseguì questo piccolo capolavoro; ma i notevoli bassorilievi sui tre lati del corpo centrale, raffiguranti la Predica di Sant'Ermacora, Sant'Ermacora battezza le vergini aquileiesi e la Decollazione dei Santi Ermacora e Fortunato fanno pensare alla mano di un allievo particolarmente dotato di Giuseppe Torretto, che probabilmente lavorò su disegni o, almeno, su indicazioni del maestro.

In alto sulle pareti, sopra i due portali laterali, spiccano i due grandiosi organi. Quello di sinistra (in cornu  epistulae) è opera di Pietro Nachini, del 1745; quello di destra (in cornu evangelii) fu realizzato di Vincenzo De Columbi di Casale Monferrato, nel 1549, e poi rifatto da Francesco Dacci nel 1758. Le portelle originarie del primo, di Andrea Bellunello, sono andate perdute; le attuali figurazioni del parapetto sono di Giovanni Antonio Pordenone e rappresentano scene della vita di Sant'Ermacora. Le portelle dell'organo in cornu evangelii erano dipinte da Pellegrino da San Daniele, ma ora si trovano presso i Musei Civici; attualmente rimangono i dipinti di Francesco Floreani e Giovanni Battista Grassi, del 1556.

Siamo giunti così al presbiterio, la parte più imponente del duomo e quella ove le trasformazioni apportate dell'architetto Domenico Rossi sono state più profonde e radicali. Il presbiterio non è molto sopraelevato rispetto all'aula, poiché vi si accede mediante tre soli gradini; ma è stato realizzato con tale ampiezza di concezione e con così vivo senso scenografico, che sembra dominare d molto lo spazio sottostante.

La cosa che maggiormente balza all'occhio, in quanto tutte le linee prospettiche delle navate corrono verso di essa, è il grandioso altare maggiore, sotto il quale si adagia la statua del Patriarca Bertrando  (che fu assassinato, come è noto, da un gruppo di feudatari ribelli, presso il fiume Richinvelda, vicino a  Spilimbergo, nel 1350).

Ai lati dell'altare, su due pilastri, le dure meravigliose statue, piene di forza e di movimento, dell'arcangelo Gabriele (sulla sinistra) e della Vergina annunziata (sulla destra), il cui silenzioso, mistico colloquio riempie tutto lo spazio circostante e crea una straordinaria suggestione in colui che si avvicina dalla navata centrale o da quelle laterali, misurando con un solo  colpo d'occhio la tenue luminosità del presbiterio.

Scrive efficacemente Giuseppe Bergamini in Udine e la sua provincia (Roma, Gruppo editoriale L'Espresso, 1980, p. 22):

 

"La parte che più ha risentito della riforma settecentesca è il presbiterio dominato dal monumentale complesso dell'altar maggiore del Torretti (1718) che perfettamente si inserisce nello scenografico ambiente. L'altare si presenta come un insieme architettonico costituito dall'urna in cui giace la figura del beato Bertrando nell'atto di risvegliarsi dal sonno della morte e da due pilastri quadrangolari che lo fiancheggiano e su cui poggiano le statue dell'arcangelo Gabriele e della Vergine; figure corpose dall'ampio panneggio dove elemento primario diventa la linea nervosa ed incisiva che crea una serie di piani sui quali scivola dolcemente la luce.

"Magniloquenti sono anche i due altari del Nome di Gesù e del Nome di Maria, con colonne tortili, progettati da Giuseppe Pozzo; i Mausolei Manin, con gruppi statuari di Giuseppe Torretti, Antonio Corradini, Pietro Baratta, Tommaso Bonazza."

 

I due altari laterali, del Nome di Gesù (a destra) e del Nome di Maria (a sinistra), sono opera dell'architetto Giuseppe  Pozzo, un laico carmelitano scalzo, attivo tra la fine del 1600 e la prima metà del 1700. Alle estremità dei bracci, i due colossali Monumenti Manin, che si innalzano vertiginosamente verso la cupola, riempiono il visitatore di ammirato stupore. Le statue, gli stucchi, la decorazione pittorica formano un complesso così suggestivo e solenne, e, al tempo stesso, così sapientemente dosato nel gioco dei pieni e dei vuoti, delle luci e delle ombre, quale raramente ci è dato ammirare nell'arte del XVIII secolo.

Scrive ancora il Someda De Marco (Op. cit., pp. 84-89):

 

"Il presbiterio con il coro rappresenta un vero trionfo artistico; l'architettura, le sculture, i dipinti, le decorazioni si completano a vicenda in una superba orchestrazione in tono maggiore.

"Domenico Rossi trova in Abondio Stazio (1675-1757) un valido collaboratore e magico stilizzatore dell'ornamentazione floreale: lo Stazio, esperto nei valori chiaroscurali, sa dare agli ornati grazia e grandiosità; stilizza fiori, foglie, gira con eleganti movimenti sagome e cartocci dai quali nascono conchiglie e s'aprono cieli ove spaziano le composizioni di Luigi [in realtà, Lodovico] Dorigny (1662-1742). A rendere più vivace l'estetica di questo insieme troviamo aggruppati angeli e putti librantisi nel vuoto a sostenere giocondamente festoni e drappi.

"I monumentali altari con i mausolei e i grandi dossali lignei fanno da colossale basamento alle fastose e festose volte ove gli spazi reali e i dipinti si fondono in un armonioso assieme di chiaroscuro di colori e di oro.

"In corrispondenza alla nave centrale si apre la cupola ovoidale, qui gli angeli si fondono con le nubi che salgono sopra la calotta a formare altre nubi sopra le quali schiere gloriose d'angeli osannanti salgono con esse, escono dal cupolino ove in un mare di luce stava dipinto il Padre Eterno.

"Questo complesso nella sua parte centrale è andato in parte distrutto dall'incendio provocato dal bombardamento aereo del 7 marzo 1945 [si faccia attenzione alla data: la guerra era quasi finita, ma i cosiddetti Alleati (di chi?) continuavano a imperversare con il terrore aereo sulle stremate città italiane del Nord]: in tale disastrosa occasione una ventina di spezzoni incendiari cadde sul duomo: per vero miracolo si è salvato questo interessante monumento.

"I dossali lignei predisposti per le sedi Patriarcale e Pretoria con i sedili del Capitolo e del Magistrato sono fra i migliori esempi che vanti la scultura lignea del settecento veneto."

 

Fino a qualche decennio fa si riteneva che questi meravigliosi bassorilievi in legno, raffiguranti storie dell'Antico Testamento, fossero opera di Francesco Picchi, mentre i putti e le parti decorative sarebbero stati eseguiti da Matteo Calderoli. Di questa opinione era anche il Someda de Marco, nell'opera citata; ma poi, alla luce di nuovi studi, egli (nel suo monumentale Il Duomo di Udine, del 1970), e con lui, via via, gli altri studiosi, giunsero alla conclusione che il Picchi e il Calderoli lavorarono su disegno, se non addirittura sotto la diretta supervisione, del bellunese Andrea Brustolon, che si deve considerare il vero autore dell'opera.

Si tratta di un complesso davvero imponente, che colpisce per la sicurezza del disegno, per l'eleganza della linea, per l'effetto prospettico realizzato mediante i primi, secondi e terzi piani, nonché per l'ampiezza della concezione architettonica e scenografica. Ciascuno dei due dossali è diviso in sei riquadri, separati da telamoni, le cui scene rimandano ai doveri e alle responsabilità che sono necessari ai rappresentanti del governo ecclesiastico e civile.

Sui dossali di destra (destinati al luogotenente della Serenissima e al suo seguito) , cominciando dal fondo, sono raffigurati la Madre del Verbo, sede della Sapienza; l'episodio di Giuditta e Oloferne; Lia e Rachele; Ester e Assuero; la Sapienza (o, forse, una Profetessa); la Follia che svia i sentimenti di Salomone. Sono tutte scene che vedono protagoniste delle figure femminili, perché la Sapienza, tema dominante del complesso, è una virtù muliebre. La fattura è mirabile e rivela una padronanza tecnica del legno assolutamente sbalorditiva. La cura dei particolari è estrema: nella scena della Sapienza, ad esempio, le arcate spezzate e le altre architetture dello sfondo sono cesellate, mattone per mattone, con una minuzia estremamente realistica.

Nelle scene di più ampio respiro, poi, come in Giuditta e Oloferne, un notevole effetto di profondità è creato dalla successione dei tre piani prospettici: il primo piano con la tenda aperta, Giuditta e la sua serva che escono recandola testa di Oloferne, il corpo decapitato sul giaciglio, e i soldati addormentati più vicini; in secondo piano i cavalli  impastoiati e altri soldati dormienti; in terzo piano la fuga, verso lo sfondo, degli altri padiglioni.

Nel dossale di sinistra, riservato al capitolo del duomo, sono raffigurati il Profeta Isaia; Mosé che fa scaturire l'acqua nel deserto; Davide che suona l'arpa; Mosé in preghiera e il roveto ardente; l'Arca dell'Alleanza trasportata a Gerusalemme; Elia svegliato dall'arcangelo. In questo dossale prevalgono, invece, le figure virili, quasi a fare da contrappunto a quello posto di fronte; il tema dominante delle scene è il patto fra Dio e il popolo dell'Antico Testamento.

Se si può dire che vi sia una sfumatura di differenza fra i due dossali, anche a livello stilistico, questa consiste in una maggiore vivacità e in un maggior dinamismo del dossale di sinistra rispetto a quello di destra; il che non è necessariamente un elemento di superiorità. Infatti, nelle scene più affollate di personaggi, come quelle di Mosé che fa scaturire l'acqua dalla roccia o del Trasporto a Gerusalemme dell'arca dell'Alleanza, pur bellissime, si nota una maggiore dispersività e un linguaggio figurativo meno sobrio e meno incisivo. Anche l'atmosfera si direbbe meno rarefatta, ma ciò dipende, almeno in parte, dalla diversità dei soggetti, poiché nel dossale di sinistra prevalgono situazioni collettive e festose; in quello di destra, invece, situazioni di solitudine psicologica, se non fisica, e una maggiore tensione drammatica.

Alzando, poi, lo sguardo al di sopra dei dossali,  verso i due Mausolei in onore dei Manin, destinati a celebrare il buon governo della Serenissima, si rimane stupiti e ammirati per la profusione di statue allegoriche, come i begli angeli di Francesco Penso detto Cabianca; le virtù personificate dello Stato di Venezia: la Tranquillità della Repubblica e la sua Equità di Tommaso Bonazza, L'opulenza della Repubblica veneta e delle sue terre, la Forza militare della Repubblica e la sua amministrazione di Giuseppe Torretto; la Magnanimità della Repubblica con i popoli vinti e la Corrispondenza dei commerci della Repubblica del Torretto insieme a Pietro Baratta; la Fama di Abondio Stazio. Fra tutte, spicca però la Fede cristiana della Repubblica del virtuoso Antonio Corradini, un artista capace di rappresentare le figure velate come se non avesse a che fare con il marmo, ma con lo stucco o con la cera; un autentico mago dello scalpello, forse in possesso - come è stato da alcuni ipotizzato - di qualche misterioso segreto tecnico, che gli consentiva di raggiungere effetti di tale trasparenza, da lasciare senza parole.

Molte altre cose ci sarebbero da dire: sugli affreschi del Dorigny (1654-1742), che adornano le volte del presbiterio e del coro (e, in parte, rifatti dal Pittino dopo il bombardamento del 1945); sulla cappella di San Nicolò, dietro il coro, decorata dal più importante ciclo pittorico trecentesco dell'intero Friuli, opera di Vitale da Bologna; sull'urna marmorea del Beato Bertrando, sorretta da cinque leggiadre figure oranti, posta nel battistero (che si apre in fondo al presbiterio, a sinistra); sugli stalli intarsiati del coro; sulle sacrestie, anch'esse ricche di pitture, intagli, stucchi e arredi preziosi.

E, poi, moltissime cose ci sarebbero da dire sull'oratorio della Purità, posto di fronte al portale di sud-est: anch'esso ricchissimo di opere d'arte e specialmente di pitture di Giambattista e Giandomenico Tiepolo.

Ma è tempo di affrettarci a concludere, perché ci siamo trattenuti già più del previsto.

Una cosa è certa: nessuna parola potrà mai rendere adeguatamente l'incanto di un così nobile edificio sacro, carico d'arte e di storia; e neanche delle semplici riproduzioni fotografiche potrebbero riuscirvi. Persino un filmato a colori non potrebbe restituire tutto l'incanto dell'originale:  perché, oltre ad alterare inevitabilmente l'intensità della luce, che è la vera, impalpabile  protagonista dell'interno, l'occhio della telecamera costituirà sempre un diaframma destinato ad escludere la parte più intima del godimento estetico.

Non c'è che una cosa da fare, per apprezzare a pieno tutte le bellezze di un edificio come quello che abbiamo cercato di descrivere: prendere il treno e recarsi a visitarlo di persona. Solo così, passeggiando lungo le navate, sostando davanti alle cappelle o levando lo sguardo verso le volte affrescate, sarà possibile lasciarsi prendere dal ritmo, dall'armonia e dalla musica di questa grande preghiera costruita dalla fede degli uomini nel corso dei secoli; la quale, benché fatta di pietra e di marmo, appare più lieve di un sogno e più delicata di un sospiro.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

 

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