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L'inganno della crescita ininterrotta

di Mauro Trotta - 12/01/2006

Fonte: Il Manifesto

 
UNA CRITICA serrata all'idea di uno sviluppo senza fine alla base del neoliberismo e sotto il segno della cultura e della razionalità occidentale. La proposta di un'alternativa possibile in forme di decrescita condivisa e localismo, senza tentazioni di ritorno al passato. «Come sopravvivere allo sviluppo» di Serge Latouche 

Se si vuole contrastare lo stato di cose esistenti, la critica e l'attacco vanno portati al concetto fondamentale su cui poggia il neoliberismo, l'idea di uno sviluppo ininterrotto: è questo che si propone di fare Serge Latouche con il suo ultimo libro Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell'immaginario economico alla costruzione di una società alternativa (Bollati Boringhieri, pp. 105, ? 9,50). Richiamandosi alle teorie del «doposviluppo», nate negli anni Sessanta dalla riflessione sul fallimento delle politiche di sviluppo e tenute finora ai margini del dibattito, lo studioso francese intende da un lato mostrare come l'idea stessa di sviluppo sia all'origine dei mali della società, dall'altro dimostrare come non sia possibile superare l'attuale situazione grazie a uno sviluppo «buono», diverso, alternativo o sostenibile. Il problema, allora, è quello di trovare soluzioni innovative che, come spiega lo stesso Latouche, non possono coincidere con il mero ritorno al passato.

Innanzitutto, però, è necessario fare della «sovversione cognitiva», decostruire, cioè, l'idea di sviluppo, mettendone a nudo i presupposti economici in modo da poter analizzare criticamente e ridiscutere i concetti a esso collegati quali povertà, crescita, bisogni fondamentali, tenore di vita. Se, infatti, è chiaro a chiunque che lo sviluppo, per quanto teoricamente riproducibile, non è universalizzabile - «la finitezza del pianeta renderebbe il tentativo di generalizzazione del modello di vita americano impossibile ed esplosivo» - l'idea di una crescita continua e inarrestabile fa parte ormai del nostro modo di pensare. Sembra che l'incremento di un punto o di mezzo punto del pil sia la cosa più importante. Del resto, viviamo in un mondo totalmente dominato dalla visione economica e l'attuale globalizzazione non è nient'altro che «la fase suprema dello sviluppo realmente esistente» ovvero «un processo che porta a mercificare i rapporti tra gli uomini e tra gli uomini e la natura». Un processo, poi, indissolubilmente legato alla cultura e alla razionalità occidentale, completamente assente, spesso, nel modo di pensare di altre culture. Basti pensare, ad esempio, che il termine «sviluppo» non esiste nelle lingue africane, tanto che per poterlo tradurre si è dovuto ricorrere a metafore a dir poco fantasiose: si spazia da un termine che indica al contempo crescere e morire alla derivazione di un verbo che significa camminare, spostarsi senza una direzione precisa, fino ad arrivare a espressioni davvero significative come «la voce del capo» o «il sogno del bianco».

Una linea continua e praticamente ininterrotta unisce, secondo Latouche, il vecchio colonialismo all'attuale mondializzazione, una linea che basandosi sul concetto di sviluppo mira a omologare il mondo intero sotto l'egida del capitalismo occidentale. Diventa allora controproducente pensare di opporsi e combattere tale situazione con le stesse armi e la stessa visione delle cose dell'avversario, basata appunto sull'impostura sviluppista. Occorrerebbe fare come August Bebel, socialista e amico di Karl Marx, il quale, quando al Reichstag la borghesia lo applaudiva, si domandava quale idiozia avesse potuto dire. Invece, gli antimondialisti che invocano una crescita sostenibile sembrano non sorprendersi nemmeno «vedendo che il presidente Chirac crea un ministero con quel nome, che Michel Camdessus, ex presidente del Fondo monetario internazionale, firma un manifesto per lo sviluppo sostenibile che circola tra le celebrità e che i più grandi inquinatori del pianeta come British Petroleum, Total-Elf-Fina, Suez, Vivendi, ma anche Monsanto, Novartis, Nestlé, Rhone-Poulenc ecc., sono i più grandi difensori dello sviluppo sostenibile».
Insomma, per il professore emerito di scienze economiche dell'università Paris-Sud, lo sviluppo è sviluppo e basta, parlare di sviluppo sociale, umano, sostenibile o alternativo è soltanto una mistificazione. Ed è proprio nell'analisi e nella critica affilata di questi concetti - o meglio, nella visione di Serge Latouche, pseudo-concetti - che il libro riesce a sprigionare appieno la propria vis polemica, assumendo i toni di un pamphlet. Così, se per sviluppo sostenibile si intende «l'offerta di beni e servizi a prezzi concorrenziali, che soddisfano i bisogni umani e apportano qualità di vita, riducendo al tempo stesso progressivamente l'impatto ecologico e l'intensità del prelievo delle risorse naturali», occorre notare che «la diminuzione dell'intensità del prelievo delle risorse è innegabile, ma sfortunatamente è più che compensata dall'aumento generale della produzione e di conseguenza il salasso di risorse e l'inquinamento continuano ad aumentare». E a proposito dello sviluppo alternativo, Latouche sottolinea come, prendendo sul serio l'aggettivo qualificativo, ci sarebbe bisogno di un'altra tecnologia, un'altra economia, un'altra razionalità, un'altra visione della scienza e così via. Insomma, bisognerebbe «cambiare tutto dello sviluppo, al punto che non ne resterebbe più nulla... È dunque di un'alternativa allo sviluppo che si tratta, molto più che di un altro sviluppo».

La via d'uscita proposta da Latouche non consiste in un impossibile ritorno al passato né si identifica con un unico modello: «Il doposviluppo è necessariamente plurale».
All'interno della molteplicità possibile, lo studioso francese propone due modi per l'alternativa: la decrescita conviviale e il localismo. La decrescita servirebbe non soltanto per preservare l'ambiente ma soprattutto per ristabilire un minimo di giustizia sociale. E non vorrebbe dire una riduzione del benessere: la gran parte delle culture considerava la felicità possibile grazie al soddisfacimento di una quantità giudiziosamente limitata di bisogni. Naturalmente occorrerebbe uscire da un tipo di società dominata dall'economia. Questo comporterebbe «una Aufhebung (rinuncia, abolizione, superamento) della proprietà privata dei mezzi di produzione e dell'accumulazione illimitata di capitale». La costruzione di una struttura sociale meno ingiusta comporterebbe non soltanto un consumo più limitato quantitativamente e più esigente qualitativamente, ma anche il recupero della convivialità, la ricerca di un benessere maggiore dal punto di vista qualitativo. Il presupposto è un'organizzazione sociale differente «nella quale viene messo in discussione il ruolo centrale del lavoro nella vita umana, in cui le relazioni sociali prevalgono sulla produzione e il consumo... in cui la vita contemplativa e l'attività disinteressata e ludica hanno il loro spazio». Inoltre, sarebbe assolutamente necessaria «una riduzione draconiana del tempo di lavoro imposto, per assicurare a tutti un lavoro soddisfacente e permettere un riequilibrio dei tempi di vita». Un primo passo potrebbe essere l'adozione di un programma in sei «R»: rivalutare, ovvero rivedere i valori fondamentali, cambiando ciò che va cambiato; ristrutturare l'apparato di produzione e i rapporti sociali sulla base di tale cambiamento dei valori; redistribuire le ricchezze; ridurre l'impatto sulla biosfera dei modi di produzione e consumo; riutilizzare invece di gettare i beni d'uso; riciclare i rifiuti insopprimibili.
Il localismo, invece, si basa sulla rivitalizzazione dell'humus locale. In pratica si tratta di partire da quella «società vernacolare» - espressione che Latouche preferisce a quella più usata di «economia informale» - in cui, piuttosto che autonomizzare l'economico, lo si dissolve, lo si incorpora nel sociale, come avviene ad esempio nelle reti complesse della cosiddetta «microeconomia» che strutturano le periferie popolari dell'Africa. Questa oeconomia si basa su di una logica diversa da quella mercantile, la logica del dono, all'interno della quale il legame sociale si fonda sullo scambio, ma un tipo di scambio in cui diviene centrale la reciprocità piuttosto che il mercato. Si tratta del «triplice obbligo di dare, di ricevere e di restituire, analizzato da Marcel Mauss», in cui «il legame sostituisce il bene».

Fenomeni di tal genere nascono e acquistano sempre più spazio anche all'interno dell'Occidente. Basti pensare a quelli che sono stati definiti neoagricoltori, neorurali, neoartigiani. O ancora a tutte quelle associazioni senza - o almeno non esclusivamente - scopo di lucro: cooperative autogestite, banche del tempo, comitati di quartiere, asili parentali, banche etiche, movimenti per il commercio equo e solidale, associazioni di consumatori. Queste esperienze, piuttosto che difendere la propria trincea all'interno del mercato mondiale, dovrebbero agire in modo militante per allargare e approfondire la propria nicchia ai margini dell'economia globalizzata. Si tratta, infatti, non di «preservare un'oasi nel deserto del mercato mondiale», ma di «estendere progressivamente "l'organismo" sano per far arretrare il deserto e fecondarlo».

Libro interessante e intelligente, ricco di spunti soprattutto nella parte di critica all'esistente, Come sopravvivere allo sviluppo rappresenta un'ottima introduzione alle teorie del doposviluppo e della decrescita. I suoi limiti consistono nel mancato approfondimento dei concetti alternativi proposti e in una certa involuzione del linguaggio, soprattutto nella parte propositiva, abbastanza sorprendente tenendo conto della secchezza, agilità e pregnanza della scrittura utilizzata da Serge Latouche nei suoi testi precedenti.