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de Benoist: La libertà dei popoli è nell’autonomia

di Alessandro Ortenzi - 15/01/2006

Fonte: Alain de Benoist

 

Nel numero 253 abbiamo pubblicato un dossier sulle fantasiose ricostruzioni che alcuni organi di stampa italiani hanno fatto delle idee e delle intenzioni "politiche" di Alain de Benoist. Un solo tassello della polemica mancava: l’intervista che il

pensatore francese ha rilasciato mesi fa al quotidiano leghista "La Padania", citata da Rosalba Pileggi sul "Manifesto" come

una delle pietre dello scandalo. La offriamo ora ai lettori perché ne prendano cognizione e giudichino della fondatezza delle

accuse delle accuse di xenofobia mosse all’autore. Aggiungiamo poi un altro documento: la traduzione di un’altra intervista di

de Benoist, rilasciata al periodico francese "Jeune Résistance" (numero datato inverno 2001), che chiarisce altri aspetti della

riflessione del direttore di "Krisis" sulla politica. Una lettura interessante anche in chiave retrospettiva, visti i riferimenti alle

elezioni francesi, all’epoca ancora lontane.

 

La libertà dei popoli è nell’autonomia

Parla Alain de Benoist, intellettuale "scomodo" della Nuova destra francese la Ue è iper-centralista.

Parigi o Roma, oggi si chiamano Bruxelles

Alain de Benoist, è uno stimato intellettuale transalpino, direttore di numerose pubblicazioni culturali e

capofila della cosiddetta "Nuova Destra", movimento identitario e tradizionalista che, già alla fine degli

anni 70, prese le distanze dalla destra nostalgica e reazionaria d’Oltralpe.

Al recente Congresso Federale della Lega Nord i dirigenti del Movimento, e soprattutto il Segretario

Federale Bossi, hanno espresso forti critiche al modello europeo che sta prendendo forma. Qual è la sua

opinione sullo stato attuale del processo?

«Una concezione europea è assolutamente necessaria, a patto che non sia statalista però. Attualmente

l’Europa è prigioniera di una contraddizione: ovunque si proclama di voler superare gli Stati, ma poiché le

classi politiche sono ultra-stataliste sia a Bruxelles sia nei singoli Stati, si finisce per privare l’Unione

Europea dei mezzi politici necessari a superare gli Stati stessi».

Ma dotando l’Ue di questi mezzi non si rischia di consegnarsi nelle mani di una casta di burocrati nemici

della libertà dei singoli popoli e delle identità?

«A questo rischio si può ovviare scegliendo il modello più appropriato. Esso deve essere rigorosamente

federalista, e inoltre deve partire dalle autonomie. Attualmente, invece, l’Ue propone soltanto di esportare

il giacobinismo su scala europea. Vogliono solo sostituire Bruxelles a Roma e Parigi. Noi non abbiamo

nulla da guadagnare nel cambiare dei burocrati giacobini romani o parigini con altri di Bruxelles, o nel

trasferirli dalle vecchie capitali a Bruxelles. Attualmente, siamo giunti al paradosso che l’Europa è

presente dove dovrebbe essere assente, cioè nella vita dei popoli che hanno bisogno di autonomia, ed è

invece assente dove dovrebbe essere presente, cioè sulla scena internazionale come soggetto politico forte

e indipendente».

La ricetta giusta potrebbe essere sintetizzata nella formula Europa dei popoli contro Europa delle

banche?

«Certamente, ma occorre essere più precisi. Europa dei popoli, cioè Europa della sovranità popolare dal

basso, su questo non ho dubbi. Tuttavia, Europa delle banche non significa molto. Le banche sono solo

uno strumento. Lo strumento che diventa egemone quando prevalgono la logica del mercato e, ancor più,

la logica del mercato finanziario: il peggio è ciò che c’è dietro le banche. Cioè una visione del mondo

dove tutto ha un prezzo ma niente ha più valore; una logica che oggi inaridisce ogni ideale e in più dirige

quasi ogni movimento sociale».

Bisogna dar forza ai valori creati dai popoli contro quelli dei disanimati mercati finanziari, dunque. Ma

come dovrebbero organizzarsi i popoli d’Europa?

«Lo ripeto, l’organizzazione deve partire dalla base e deve essere impostata su quattro pilastri: Identità,

Volontarietà, Autonomia e Partecipazione. L’Autorità, infine, deve fluire dalla base verso l’alto. Per

difendersi i popoli d’Europa devono proprio ripartire dalla base, dalla democrazia diretta. In fondo, anche

gli Stati nazionali sono burocrazie come quella di Bruxelles: per questo nessuno Stato contrasta veramente

Bruxelles. È quindi necessario estendere la partecipazione e interessare la gente alla vita politica ovunque

sia possibile».

La partecipazione tipica della cultura liberale, quindi?

«No, questa non deve essere la visione liberale: questa prevede infatti solo l’incoraggiamento privato di

ognuno, che si interessa così della politica solo a titolo personale. Al contrario, è necessario sviluppare la

dimensione pubblica del Sociale. Ma soprattutto lo Stato non deve essere il monopolizzatore della vita

sociale. Solo così essa potrà essere davvero autentica, specchio fedele della vita di un popolo, ed efficace

strumento di sovranità».

I burocrati di Bruxelles e le forze politiche e culturali che li sostengono amano definire le forze

autonomiste, tra le quali la Lega Nord, con termini come "populista", se non razzista o peggio. Cosa ne

pensa?

«I movimenti autonomisti sono un fenomeno complesso e nuovo. Assistiamo a un rinnovamento della vita

associativa e questo è un bene. Però il termine populista è semplicistico, e non serve a definire un mondo

molto diversificato. Alcuni movimenti "populisti "sono ultra-liberali, altri sono federalisti. Alcuni sono

addirittura di stampo giacobino, come quello di Le Pen in Francia, che non è nemmeno autonomista.

Populista insomma non vuol dire molto: è un termine che indica uno stile, non una dottrina. Che, inoltre,

non è quella indipendentista. Personalmente, sono autonomista e non indipendentista. Specialmente oggi

quando nemmeno gli Stati sono più indipendenti. Per questo auspico un modello confederale».

In un momento nel quale l’Occidente si autoproclama in un conflitto di civiltà, con gli Stati Uniti alla

testa, si potrebbe pensare di importare quel modello federale in Europa. Qual è la sua opinione?

«Gli Stati Uniti adottarono un modello federale, ma lo hanno tradito. In particolare, lo hanno tradito

durante il cosiddetto "New Deal" di Roosevelt, negli anni ’30. Questo fenomeno, tra l’altro, ebbe caratteri

di grande similitudine col Fascismo che trionfava in Europa. Inoltre, bisogna tener presente un aspetto

biblico e calvinista, tutto sommato inadatto all’Europa. A parte tutto questo, delle vere autonomie ci

furono effettivamente, anche se già con la "guerra di secessione" si cominciò a negarle. Personalmente,

non credo nell’antiamericanismo maniacale. Penso che vi sia tuttora maggior libertà di espressione in

America che in Europa; e quel che resta del sistema federale non è malvagio. Il problema è che gli Stati

Uniti sono l’unica potenza esistente e purtroppo hanno unificato il mondo secondo la logica del mercato,

cosa che nuoce a tutti. Sono necessarie altre potenze che li contrastino».

Quale modello federale si può allora suggerire?

«Forse, miglior fonte di ispirazione può essere il modello federale tedesco, con i reali poteri assegnati ai

diversi Länder, realmente autonomi rispetto al centro. La crisi economica della Germania, i problemi non

completamente risolti della riunificazione e i debiti che vengono ancora oggi fatti pagare per la storia

recente, non devono far dimenticare che la Germania è la colonna vertebrale dell’Europa; e ai tedeschi

spetta il compito di spingere l’Europa all’indipendenza, lungo un asse che per ragioni di semplicità

geometrica definirei Parigi-Berlino-Mosca, attorno al quale ruotino le libertà individuali di tutti i popoli

europei. Libertà dai giacobini all’interno, e dagli Stati Uniti all’esterno».

Occidente e islam: è veramente uno scontro di civiltà?

«Non credo che sia il modo migliore di porre i termini. Né occidente, né islam sono concetti omogenei,

poiché sono attraversati da grandi contraddizioni. Così come Europa e Stati Uniti hanno interessi

divergenti e rappresentano modelli diversi, così il miliardo e duecento milioni di musulmani non sono

unitari, non hanno un centro come punto di riferimento, le correnti culturali sono diverse e lo sono anche

le interpretazioni del Corano. Anche se bin Laden si auto proclama voce dell’islam, le truppe afghane che

lo combattono sono musulmane. L’Iran sciita è da sempre nemico dei talebani. Chi conferisce a bin Laden

un ruolo che non ha, cerca uno scontro che non ci sarebbe. Gli Stati Uniti indicano in bin Laden la voce

dell’Islam, i musulmani no».

Mentre assistiamo ad una massiccia immigrazione islamica in Europa, come ci si può tutelare?

«L’immigrazione è un problema diverso da quello della guerra in corso. L’unico modo praticabile ed

efficace per gestirla è una politica di cooperazione con i paesi di origine. Purtroppo l’immigrazione è

ineluttabile. Tuttavia è necessario ridimensionarla e restringerla comunque, e questo lo si può fare solo

cooperando attivamente con i paesi di origine».

Questo per chi non è ancora venuto, ma con chi è già in Europa quali soluzioni adottare?

«L’unico modo di affrontare l’immigrazione islamica è quello di non praticare alcuna assimilazione. E’

necessario che vivano in comunità loro, omogenee al loro interno. Io penso che non vi sia un pericolo

islamico; o meglio che non sia quello principale. L’identità europea è molto più minacciata dalla logica

del capitalismo che dall’Islam. Infatti le multinazionali americane controllano le politiche economiche, i

paesi islamici no. Io vedo ogni giorno film americani, libri, giornali, musica, vestiti, modi di dire e di

pensare. Non vedo nessun film islamico, nessuno stile di vita islamico presente 24 ore al giorno in

televisione. L’uno è un pericolo possibile, l’altro è in atto. I mercati finanziari incidono sulla nostra vita

ogni giorno di più in tutto il mondo. E non sono islamici».

(a cura di Alessandro Ortenzi)

(«La Padania»,13 marzo 2002)

Un pensiero che non ha preso una ruga

Alain de Benoist è difficile da classificare. Non ama le etichette e il suo pensiero prende spesso in

contropiede coloro che vi cercano un manifesto politico dogmatico. Sfortunatamente per loro e

fortunatamente per noi, non c’è. Sebbene sia ampiamente boicottato da una Francia mediatica

definitivamente blindata, il suo contributo ai dibattiti di idee ha impresso un segno notevole sulla sua

epoca. Da Vu de droite, uscito nel 1977 e da poco ripubblicato, a Dernière Année, l’insieme della sua

opera non ha preso una ruga. La lucidità attraversa tutti i suoi libri, ciascuno dei quali è una boccata di

ossigeno in questo universo asfissiante. Gli abbiamo perciò chiesto il suo punto di vista sull’attualità

molto turbolenta di questo inizio di millennio.

Nel 1989, dopo la caduta del Muro di Berlino, Lei ha dichiarato che il sistema capitalista si trovava ad

occupare da solo la scena e poteva essere giudicato per quello che è. I recenti eventi dell’11 settembre

non sono stati l’occasione giusta per rianimare quella bipolarità che era andata perduta, designando un

nuovo male assoluto?

Tutti i sistemi cercano di far dimenticare le proprie tare denunciando quelle degli altri. Anche Hannah

Arendt aveva fatto notare che una delle caratteristiche dei sistemi totalitari è la designazione di un nemico

che viene rappresentato come l’incarnazione del male assoluto. Dopo il crollo dell’apparato sovietico, è

evidente che l’Occidente liberale aveva bisogno di un nuovo "impero del male" per giustificarsi. L’idea

generale è che l’avversario del male assoluto non può che essere assolutamente buono. Il modo in cui il

presidente George W. Bush, all’indomani degli attentati di New York e Washington, si è affrettato a

dividere il mondo in due campi ("chiunque non è con noi è contro di noi") è, da questo punto di vista,

rivelatore. Il parallelismo fra l’appello alla jihad e la retorico della "crociata" lo è altrettanto. Ciò detto, il

pericolo rappresentato dalla crescita di un iperterrorismo globale non toglie niente ai difetti del sistema

capitalista liberale, e ovviamente non impedisce di analizzarlo per quello che è.

C’è chi vede negli attentati di New York il preludio allo "scontro delle civiltà" preannunciato da Samuel

Huntington. Lei che ne pensa?

Lo "scontro delle civiltà" è una formula semplice che affascina le menti semplici, che vi proiettano le loro

ossessioni e i loro desideri inconfessati. Samuel Huntington aveva avuto il merito nel 1996, in un’epoca

nella quale il suo compatriota Francis Fukuyama riteneva di poter annunciare la "fine della storia", di

ricordare l’esistenza di aree di civiltà distinte, di cui si deve tenere conto. Ha avuto il torto di trattare tali

culture come entità omogenee, suscettibili di trasformarsi improvvisamente in attori delle relazioni

internazionali. Gli "scontri" culturali sono sempre esistiti. Da ciò a tracciare degli scenari apocalittici, ci

corre una certa distanza.

Si dovrebbe peraltro cominciare con l’interrogarsi sul senso della parola "civiltà". La civiltà occidentale

oggi non è altro che un indice economico: il termine designa tutte le società sviluppate in cui regnano la

legge del mercato e la logica della merce. Questa civiltà si ritiene superiore e "universale", ovvero votata a

sostituirsi alle altre culture dell’umanità, reputate retrograde e arcaiche. Non vi è alcun dubbio che, per il

tramite del tema dello "scontro delle civiltà", il sistema capitalista liberale tende a darsi una nuova

legittimità, a far dimenticare i danni che produce e a disarmare le critiche delle quali è oggetto. Lo scopo è

condurre tutti quanti a fare blocco attorno a un sistema in cui la ricchezza di meno di trecento individui è

uguale al reddito cumulato di due miliardi e mezzo di essere umani, un mondo di divertimento

programmato, nel quale però ognuno deve imparare a diffidare degli altri in nome di un’esasperata logica

concorrenziale. Tutti i Bin Laden del pianeta cadono a pennello per giustificare un simile intento. Gli

ingenui si accoderanno a questo atteggiamento, che agita la minaccia del fondamentalismo islamico solo

per giustificare l’integralismo del profitto, la cui parola d’ordine resta più che mai In Go(l)d we trust.

Sarebbe più saggio constatare che la causa principale di un eventuale "scontro delle civiltà" rimane

l’estensione a livello planetario di un sistema occidentale che tende a sopprimere dappertutto le identità

collettive e a realizzare l’uniformità.

Da qualche anno, Lei annuncia la fine della modernità e l’avvento di una postmodernità. Quali sono gli

indizi che Le consentono di affermarlo?

Il tema della fine della modernità non è molto originale. Tutto mostra che un ciclo si chiude e che stiamo

entrando in un mondo nuovo. La modernità era lo Stato nazionale, la produzione industriale, la

mobilitazione delle masse, il tempo delle rivoluzioni. Troppo grande per rispondere alle aspettative

quotidiane dei cittadini, ma troppo piccolo per fronteggiare le sfide della globalizzazione, lo Stato

nazionale cede il suo margine di manovra rimpicciolirsi ogni giorno. Le regole dello scambio dei beni e

dei servizi non sono più quelle dell’economia energetica. Per la prima volta, gli umani trattano la materia

e gli oggetti che fabbricano attraverso la mediazione di codici e segnali, generando in tal modo

un’economia sempre più immateriale, sostenuta da tecnologie che sconvolgono i concetti classici di

spazio e tempo. L’informatica consente di produrre con sempre meno lavoro e tempo, lasciando

intravedere una mutazione completa della condizione di salariato. L’astensione e il ritiro dalle istituzioni

sovrastanti prendono il posto della mobilitazione all’interno dei partiti: la società ormai corre un rischio

più di implosione che di esplosione. Lontano sia dall’individualismo puro che dalla socializzazione

statale, il legame sociale si ricompone intorno a comunità e reti. Non è più il tempo dei rivoluzionari, ma

piuttosto quello dei dissidenti e dei ribelli. Si potrebbe proseguire a lungo questa enumerazione…

Lei mostra un certo fascino, o quantomeno un forte interesse, nei confronti delle biotecnologie. Ciò non è

in contraddizione con le Sue posizioni vicine agli ecologisti integrali?

Non ho mai confuso l’ecologismo con l’oscurantismo. Lo sbocciare delle biotecnologie, che è ancora agli

inizi, apre prospettive immense, nelle quali vi può essere il meglio e il peggio. Il problema è che l’uomo è

ormai in ritardo rispetto ai suoi nuovi poteri, come è testimoniato dalla ridicola agitazione dei comitati di

etica e dei politici attorno ad ogni ulteriore avanzata della scienza. Quando l’uomo è sul punto di riuscire

a modificarsi, l’"umanismo" non è più una risposta! Un altro problema, assai concreto, è lo scontro tra la

tecnoscienza e la logica del mercato. Le biotecnologie possono anche sfociare in una migliore conoscenza

di noi stessi, in un’eugenetica popolare liberamente desiderata, in nuove possibilità terapeutiche, oppure in

una forma inedita di reificazione della vita, di mercantilizzazione dei rapporti sociali. Quel che è sicuro è

che la biologia molecolare e le neuroscienze sono chiamate a trasformare la nostra vita quotidiana. Il vero

problema è capire in quale prospettiva si inscriveranno queste trasformazioni.

Qual è la Sua posizione nei confronti dei movimenti antiglobalisti di sinistra, e che reazioni Le ispirano le

soluzioni che essi propongono?

Provo per loro una grande simpatia di principio, pur ritenendo il discorso che fanno spesso confuso e i

mezzi che usano a volte discutibili. Certi loro aderenti criticano la libera circolazione dei capitali ma nel

contempo incoraggiano quella delle persone, il che vuol dire che non credono al ruolo della "mano

invisibile" sul piano economico ma continuano a crederci sul piano demografico o umano. Altri ancora

ieri sottoscrivevano un internazionalismo di cui ora scoprono che la logica del capitale è un vettore molto

più sicuro del socialismo. Nulla vieta di aiutarli a prendere coscienza delle loro contraddizioni.

Passando ad un altro argomento: l’esplosione della destra nazionale [francese, ndt] non ha fornito

occasione a nuove collocazioni politiche. A Suo avviso, che analisi va fatta di questo immobilismo

intellettuale, che porta spesso i sostenitori dell’"identità" a difendere le idee degli avversari? Che

riflessioni Le ispira la vita politica francese in generale?

Come stupirsi dell’immobilismo, intellettuale o di altro genere, di una famiglia politica che ha

nell’immobilismo la sua ragion d’essere? Non so cosa ci si potrebbe aspettare da una famiglia politica

che, da almeno mezzo secolo, ha costantemente coltivato una mentalità reazionaria e da stato d’assedio, è

sempre andata avanti con gli occhi fissi sul retrovisore e ha sempre ingaggiato lotte perse in partenza

(l’ultima in ordine di tempo è la mobilitazione contro l’euro a poche settimane dalla sua entrata in

vigore!). La destra nazionale oggi non è nemmeno più capace di dire quale tipo di istituzioni o di sistema

politico preferisce. La vera vita è altrove!

I sostenitori dell’identità hanno perfettamente ragione di pensare che questo concetto sia destinato ad

assumere un’importanza sempre maggiore. Devono però dire quale contenuto preciso contano di darle; in

mancanza di ciò, l’"identità" resterà una semplice parola-feticcio o uno slogan. L’identità non è

un’essenza ma una sostanza. Non è quel che non cambia mai, ma quel che ci consente di restare noi stessi

cambiando di continuo. Infine è una modalità di costruzione del proprio io che implica un rapporto

dialogico con gli altri. Non è dunque un concetto così semplice come sembra. La vita politica francese mi

ispira soprattutto noia. Già Montherlant diceva: "Il piano sociale non soddisfa lo spirito".

Che cosa pensa del processo di Matignon che riguarda l’autonomia della Corsica?

Sono favorevole a tutto ciò che permette di dare alle collettività e alle regioni più autonomia, cioè una

maggiore possibilità di decidere da sole sulle questioni che le riguardano. Sono ostile a qualunque forma

politica in cui l’autorità provenga esclusivamente dall’altro. A mio parere la vita politica deve essere

interamente ripensata a partire dalla base, secondo il principio di sussidiarietà. Ciò vuol dire: più vita

associativa, più democrazia diretta, più partecipazione di tutti alla vita pubblica. Parlare in nome del

popolo è bene, creare le condizioni che gli consentano di prendere direttamente la parola è ancora meglio.

Chevènement sembra avere il vento in poppa nei sondaggi. Qual è la Sua opinione su questo fenomeno?

L’ex ministro degli Interni è un uomo di forti convinzioni, fatto relativamente raro all’interno della classe

politica, ed è anche un uomo coraggioso. Offre a coloro che sono resi inquieti da certe attuali evoluzioni

un discorso "repubblicano" che ha qualcosa di rassicurante. Tuttavia, il suo giacobinismo e la sua ostilità

al federalismo europeo mi allontanano radicalmente dalle sue posizioni. La sua concezione "bodiniana"

della sovranità, condivisa da tutti i sovranisti di destra e di sinistra, si situa all’esatto opposto dello schema

politico al quale aderisco. La sua messa in opera, ricalcata sul modello dell’individuo autosufficiente,

fonte storica della centralizzazione (sia prerivoluzionaria che giacobina) non può che finire con il

rafforzare le attuali posizioni di dominio transnazionali. Come tutti i sovranisti, Chevènement non ha

capito che il mondo è cambiato.

La polemica, essenzialmente americana, tra i libertari e i comunitaristi è stata completamente taciuta in

Francia. Come spiega questo silenzio? Può fornirci un breve sunto di questo dibattito?

Le teorie comunitariste hanno in un primo momento costituito una risposta a John Rawls, che nella sua

celebre Teoria della giustizia si era sforzato di rifondare la dottrina socialdemocratica. Si trattava, in

origine, di una discussione sulla priorità del giusto o del bene, discussione che si può considerare molto

astratta ma le cui conseguenze politiche sono immediate. Contro la concezione liberale della società,

secondo la quale lo Stato deve rimanere neutrale sui valori (la "vita buona" secondo Aristotele), i teorici

comunitaristi sostengono che l’uomo è sempre anteriore ai propri fini, che è almeno in parte costituito

dalla sua o dalle sue comunità di appartenenza e che una società che non tiene conto di ciò è destinata a

disgregarsi. Varie centinaia di opere sono state pubblicate sinora nel quadro di questo ampio e

appassionante dibattito. Con rare eccezioni, la Francia se ne è più o meno tenuta in disparte. Dal momento

che la pigrizia intellettuale e l’incultura si aggiungono ai diktat del pensiero unico, alcuni hanno ridotto le

tesi comunitariste a un "comunitarismo" ricostruito da cima a fondo oppure a polemiche riguardanti

l’immigrazione. Basta leggere Alasdair McIntyre o Michael Sandel per constatare che si tratta di tutt’altra

cosa.

Nei Suoi anni giovanili, Lei si è interessato ai movimenti di estrema sinistra e più in particolare alle

organizzazioni trotzkiste. Cosa pensa della loro importanza elettorale e sindacale (SUD, Arlette, FO, les

Motivés…) oggi?

La conversione del partito socialista alla logica del mercato e la socialdemocratizzazione del Partito

comunista hanno del tutto naturalmente aperto a sinistra uno spazio che gli ultimi "rivoluzionari" si

sforzano di occupare. Gli ex militanti del Maggio 68 hanno del resto preso d’assalto il mondo della

politica e dei media. Che fra di loro si trovino degli ex trotzkisti non ha niente di sorprendente. Il vero

problema è capire in che misura il loro passato ci informa su quel che sono diventati. Marx diceva, del

tutto a ragione, che non si ha il diritto di ridurre l’uomo a un determinato momento della sua storia. È

anche il mio parere – tanto più che non amo i processi alle intenzioni. Dopotutto Stéphane Courtois, il

principale artefice del Libro nero del comunismo, è lui pure un ex militante di estrema sinistra! Ciò

significa che io mi interesso più a ciò che le persone pensano oggi che a ciò che esse hanno potuto essere

un tempo.

L’immensa maggioranza degli ex sessantottini sono uomini che hanno abbandonato o tradito i propri

ideali, o perché non credevano più alla possibilità di un’alternativa al sistema attuale o per semplice

opportunismo. Dei loro impegni passati restano reti amicali, certi riferimenti culturali, un ossessivo

"antifascismo" residuale; insomma ciò che Edwy Plenel, maestro in materia, chiama uno "stato d’animo".

Il trotzkismo in quanto tale non mi sembra abbia dinanzi a sé un grande avvenire, e la tesi in base alla

quale Lionel Jospin sarebbe "sempre trotzkista" è, a mio parere, ridicola. Mi capita, in compenso, di

immaginare l’amarezza che devono aver provato i militanti di Action directe oggi in prigione quando

hanno visto la ex maoista Marylise Lebranchu diventare Guardasigilli…

Per finire: nel suo libro "Dernière Année" si scopre un Alain de Benoist ossessionato dalla morte. A un

certo punto, Lei scrive che c’è tuttavia di peggio della morte. A cosa pensa, più precisamente?

Viviamo in una società la quale ritiene che niente sia peggiore della morte. Quest’idea è del tutto nuova.

In passato, gli europei hanno sempre ritenuto che molte cose fossero peggiori della morte: il disonore o la

schiavitù, ad esempio, oppure tutto ciò che degrada l’immagine che ci creiamo di noi stessi. Un’idea di

questo tipo resta fortunatamente presente nella maggior parte delle società del Terzo mondo. Quanto a me,

non sono assolutamente ossessionato dalla morte. Se essa continua ad essere per me un pensiero sempre

presente, è solo perché credo che soltanto la chiara consapevolezza della nostra finitezza dia un senso alla

nostra esistenza. L’uomo è l’unico essere che si sappia destinato alla morte. Attorno a questo pensiero,

tutto il resto si ordina.