La casa gialla. Paul Gauguin e Vincent Van Gogh
di Stenio Solinas - 09/04/2008
C
le nove settimane
in cui Van
Gogh e Gauguin
vissero fianco a
fianco ad Arles?
Un disastro
eppure un trionfo, la follia a braccetto
del genio, la gioia di creare e la
nevrosi di fallire... Si conclusero con
il primo che rincorreva il secondo
con un rasoio, con il secondo che
saggiamente se ne andava a dormire
in albergo, con l’orecchio di Van
Gogh tagliata dalla sua stessa mano e
offerto come dono a una prostituta
locale... Di lì il ricovero in clinica, un
mesto saluto, un non più rivedersi.
Vincent morirà due anni dopo, nel
1890, dopo essersi sparato un colpo
di pistola al petto, in quella Provenza
che lo aveva così tanto segnato, Paul
gli sopravviverà per un decennio e
poco più, in un’isola delle Marchesi
dove la sua fuga dalla civiltà lo aveva
portato, trentasette anni l’uno, cinquantacinque
l’altro.
Adesso Martin Gaylord affronta in
La Casa Gialla
(excelsior 1881, 357pagine) quel sodalizio e il suo significato
e presenta al lettore un emozionante
viaggio alle radici della
creatività che è anche una singolare e
documentata biografia parallela. Il
risultato è struggente dal punto di
vista umano e stupefacente sotto il
profilo artistico, perché quelle nove
settimane, appena due mesi, insomma,
cambiarono anche il corso della
storia dell’arte e ciò che di Van Gogh
e di Gauguin oggi ammiriamo nei
più importanti musei del mondo,
furono in buona parte dipinti lì e
andarono a riempire le stanze e le
pareti della modesta dimora che fungeva
da casa e da studio: tele, intuizioni
e sperimentazioni a cui credevano
solo i diretti interessati e qualche
spirito più avvertito o semplicemente
più amico. Perché Van Gogh
dovette in pratica morire prima di
divenire famoso, e Gauguin fu raggiunto
dalla fama in un angolo dell’Oceano
Pacifico dove essere famosi
non significava niente.
Con pochi anni di distanza l’uno dall’altro,
piccoli di statura, ma robusti,
Vincent e Paul, esclusa l’arte, avevano
poco in comune. Gauguin si portava
sulle spalle un’esperienza giovanile
da marinaio, era sposato e padre
di figli, anche se viveva e si comportava
da scapolo, amava ritrarsi nei
panni del Jean Valjan dei Miserabili
di Victor Hugo, un uomo in fuga,
braccato dall’ autorità, messo al bando,
martire e santo... “Una creatura
vergine dagli istinti selvaggi” lo
descriverà l’amico e in questa descrizione
c’era dell’intuizione, ma anche
il riflesso di ciò che Gauguin voleva
che di sé filtrasse, l’antiborghese
spregiatore dei costumi del suo tempo,
la sanità fisica che è un tutt’uno
con la fisicità del vivere. “Forte come un
toro, pigro come un serpente” era il suo motto...
Nell’autoritratto che Van Gogh inviò al suo
futuro coinquilino, come segno distintivo del
percorso che insieme avrebbero potuto compiere,
invece dell’evaso tanto caro a Gauguin
c’è una sorta di recluso, di prigioniero,
di monaco e di detenuto... Era così che Van
Gogh si sentiva, il figlio di un pastore protestante
che aveva abbandonato il proprio
padre e con esso il proprio dio, l’artista che
teneva il mondo lontano da lui per paura che
il mondo si impadronisse di lui, l’asceta di
una nuova religione, quella dell’arte, che
usava i colori al posto delle preghiere...
Eppure, e può sembrare un paradosso, quest’uomo
in fuga dal mondo aveva esordito
nel commercio che aveva appena sedici anni,
era stato predicatore, mestiere abbandonato
perché in pubblico la voce gli moriva in gola,
aveva convissuto con una donna incinta di
un altro uomo, dall’Olanda era andato in
Inghilterra, dall’Inghilterra in Francia, conosceva
le lingue, era un lettore accanito, un
grafomane impenitente...
Quando i due si incontrarono, Van Gogh
viveva ad Arles da quasi un
anno. In quell’arco di tempo e
nelle nove settimane di convivenza,
dipinse qualcosa come
duecento quadri, quasi un terzo
di quelli che Gauguin produrrà
in tutta la sua vita, e molti di
questi erano capolavori. La
maggior parte si trovava nella
Casa Gialla, un po’ dappertutto:
attaccati alle pareti, appesi
entro cornici, ammucchiati in
magazzino. Il 23 ottobre del
1888, il giorno in cui fisicamente
Paul entrò nella vita di
Vincent, la novità più straordinaria
furono proprio quelle
tele: pochissimi erano in grado,
quanto Gauguin, di comprendere
che cosa l’altro avesse realizzato,
e nessun altro aveva
migliori motivi per ammirarlo,
assimilarlo, magari contrastarlo.
Eppure per Vincent, il maestro
era l’altro, più maturo, più sicuro.
Era Vincent che si era battuto
perché dalla Bretagna il collega
si trasferisse in Provenza,
che aveva messo di mezzo il
fratello Theo perché in qualche
modo garantisse economicamente
il successo del cambiamento
geografico. Ciò che Van
Gogh voleva era lavorare fianco
a fianco, a pochi metri di
distanza, vicino a un fratello
spirituale, su soggetti paralleli.
Questo sarebbe dovuto essere
la Casa Gialla: lo Studio del
Sud, il punto di partenza di una
nuova idea della forma e del
colore.
Caratterialmente, i due avevano
diversi punti in comune, eppure
c’era in questa eguaglianza una
totale diversità. La colse molto
bene Gauguin quando osservò
che l’amico era “un vero e proprio
vulcano”, rispetto a lui che
“si agitava internamente”...
Nello spazio ristretto di uno
studio di cinque metri, il contrasto
era ancor più stridente:
Van Gogh dipingeva velocemente
e con furia, Gauguin era
più pacato e contemplativo, l’olandese,
lasciava aperti i tubetti
dei colori, in disordine pennelli
e tavolozze, il francese aveva
imparato andando per mare
l’importanza dell’ordine.. Nei
giorni freddi, quando le finestre
rimanevano chiuse, l’odore di
colori a olio, di fumo di pipa e
di corpi sudati e mal lavati (non
c’era l’acqua calda, il bagno
era esterno) doveva rendere
l’atmosfera irrespirabile.
Dirà Theo Van Gogh, il fratello
mercante che faceva un po' da
protettore e da guida, che esisteva
“un Vincent amabile e un
Vincent insopportabile”. Come
tutte le persone abituate alla solitudine, il
parlare si trasformava in verbosità, il piacere
di esprimersi non sopportava l’essere contraddetto.
Più il contrasto di idee si acuiva e
più il parlare nevrotico veniva in superficie e
si accentuava addirittura se dall’altra parte
sopraggiungeva il silenzio. Ciò che per quelle
nove settimane rese possibile il rapporto fu
che il più giovane Van Gogh riconosceva al
più anziano, sia pure di pochi anni, Gauguin,
un magistero superiore, di vita e di arte, e
quanto a questi, l’essersi accorto da subito
della enorme grandezza del suo coinquilino,
faceva sì che molte punte polemiche venissero
smussate, molti giudizi
tranchant venisserolasciati cadere.
In un ritratto di Van Gogh fatto da Gauguin
c’è la chiave per capire la catastrofe che si
andava preparando. Si intitola “Van Gogh
che dipinge girasoli ad Arles”:
“Forse nonc’è molta somiglianza disse l’autore nel
regalarlo a Theo, che era anche il suo mercante
d’arte, “ma credo ci sia qualcosa del
suo carattere interiore”. “Ero davvero io,
molto stanco e carico di elettricità com’ero
allora”
commentò il diretto interessato inuna lettera e poi, stando alle memorie di
Gauguin, aggiunse:
“Sono io, ma sono iodopo che sono diventato matto”
.Come tutti quelli che soffrono di depressione
maniacale o disturbo bipolare, Van Gogh era
più o meno coscientemente consapevole del
suo stato, esaltazione e depressione si alternavano
e il lavoro, così come il bere, erano
una sorta di cura della prima fatta tuttavia
della malattia che la estrinsecava: curare
l’eccesso con l’eccesso, insomma... Il rendersene
conto allontanava lo spettro della follia,
ma non lo eliminava. Van Gogh sapeva che
prima o poi ci sarebbe scivolato dentro senza
accorgersene, e questo spiega quel commento
precedentemente riportato: In
Le Horle, unracconto di Maupassant che lui aveva letto,
erano descritte le esperienze di un uomo convinto
di essere perseguitato da un essere invisibile.
Per liberarsene, dava fuoco alla casa,
uccidendo così i domestici e solo allora il lettore
si rendeva conto che quel doppio invisibile
proveniva dall’interno dell’uomo, era
frutto della sua pazzia. Come scriverà all’amico
dal letto di ospedale:
“Nella mia febbrementale o nervosa, o nella mia pazzia - non
so come esprimerla o come definirla - i miei
pensieri navigano su molti mari. I miei sogni
hanno viaggiato fino dove arrivò Le Horle”.
Annunciato da più segni, il tracollo alla fine
arrivò. Van Gogh sapeva che prima o poi
Gauguin se ne sarebbe andato, e questo lo
atterriva: significava tornare solo, significava
il fallimento della sua sfida artistica e il
dover ammettere che non c’era nessuno che
pensasse con lui e per lui, che gli fosse di
conforto, di stimolo e di protezione. E però
questa paura era anche un desiderio, il voler
restare solo, il dover restare solo, consapevole
della propria unicità, del proprio disperato
valore.
“Fondamentalmente Gauguin e io ci capiamo,
e se siamo un po’ matti, che importanza
ha”
scriverà al fratello dopo che l’epilogoera giunto e lui si era autopunito mutilandosi.
Su questo gesto, il taglio di un orecchio,
sono scorsi fiumi di inchiostro di cui Martin
Gayford dà conto in modo sintetico e tuttavia
esauriente. In soggetti bipolari come Van
Gogh, l’associazione fra suggestioni e temi i
più disparati era una norma, e ciò che a una
mente normale appare incongruo in un soggetto
deviato risponde a una logica del tutto
coerente.
Qualche mese prima di morire Vincent ricevette
la visita di un vecchio amico, il pittore
Paul Signac. Di passaggio ad Arles, stava
andando a lavorare a Cassis, sulla costa
mediterranea. Era il segno che Van Gogh
aveva avuto ragione nel considerare il sud
della Francia come la nuova terra dell’arte.
D’ora in poi, con sempre maggior frequenza,
i pittori di Parigi avrebbero preso il volo,
come uccelli migratori: i Fauves, i cubisti,
Matisse, Picasso: avrebbero tutti seguito Vincent,
al Sud...

