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La strage delle api

di Andrea Rossi - 11/04/2008

 

 

 

Diceva Albert Einstein – ma qualcuno dubita che la frase sia sua – che «se le api dovessero scomparire, all’uomo resterebbero soltanto quattro anni di vita».

Se così fosse non ci resta molto. Perché le api stanno morendo, vittime si una strage che dura da oltre un anno e nelle regioni più colpite – Piemonte e Lombardia - secondo le associazioni di apicoltori si è già portata via almeno il trenta per cento degli insetti.

Quasi 200 milioni di esemplari in provincia di Torino. Un miliardo in tutta la regione, la terza in Italia per numero di alveari (oltre 100 mila) e per miele prodotto (1.500 tonnellate l’anno).
La carneficina è cominciata nel 2007. Livelli altissimi di mortalità, proprio in questa stagione, in coincidenza con la semina del mais. «Sembrava assurdo – racconta Ulderica Grassone, un’apicultrice torinese -. Invece è accaduto di nuovo, e con maggior virulenza: tappeti di api morte davanti agli alveari».

Inspiegabile, finché da una serie di analisi è emerso il verdetto temuto: «In tutti gli insetti morti si annidavano tracce di neonicotinoidi, sostanze presenti nei concianti, quei prodotti chimici usati in agricoltura per proteggere i semi dai parassiti». «Se c’erano dubbi, la corrispondenza tra tutte queste morti e la semina conferma i nostri timori – aggiunge Giancarlo Naldi, presidente dell’Osservatorio sulla produzione del miele -. Anche perché la strage si è verificata soltanto nel Nord-Ovest, dove si fa ampio uso di certi fitofarmaci».

Sembra una storia di agricoltura contro agricoltura, se non fosse che rischiano di rimetterci tutti. A cominciare dalle api, sterminate dalla semina del mais. «I neonicotinoidi filtrano nella linfa e vi restano per tutta la vita della pianta – spiega Francesco Panello, presidente dell’Unaapi, associazione piemontese di produttori -. Si annidano nel polline. Nel nettare. E uccidono le api. Intere famiglie si sono spopolate. Milioni di api battitrici, quelle che vagano in cerca del nettare, sono morte». È come se un’epidemia si fosse abbattuta sugli alveari. «Le api avvelenate potrebbero aver infettato anche le altre – dice Ulderica Grassone -. Le famiglie che si salveranno dall’avvelenamento rischiano di essere come un malato guarito da un tumore: deboli, fragili, vulnerabili».

I produttori già stimano i danni. Lo sterminio potrebbe provocare un crollo nella produzione di miele anche del trenta per cento rispetto a un 2007 già a tinte fosche. In provincia di Torino ci sono un migliaio di apicoltori; 130 sono professionali, e rischiano di rimetterci oltre un milione di euro nell’immediato. «Abbiamo trascorso l’inverno a fare nomadismo (il tipo di allevamento che si basa sullo spostamento degli alveari per utilizzare diverse zone nettarifere): non per produrre miele ma per scappare dai veleni. E nonostante tutto molti hanno subito danni enormi», racconta Panella.

Non saranno gli unici. «I danni, per l’agricoltura, saranno notevoli – prevede Paola Ferrazzi, che insegna Entomologia forestale, ambientale e apidologia alla facoltà di Agraria, a Torino -. L’ape è l’unico insetto che può impollinare nei frutteti, resi sterili dai trattamenti chimici. Le coltivazioni di frutta saranno le prime a risentire di questa morìa. Senza dimenticare molte piante spontanee».

Un’altra certezza riguarda noi: «Le api sono un rilevatore ambientale. Forniscono la misura dell’inquinamento del territorio». Se muoiono in massa c’è poco da stare allegri.