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Eurobarometro

di Giuseppe Giaccio - 22/01/2006

Fonte: Giuseppe Giaccio

Il sondaggio di Eurobarometro, condotto su un campione di 7500 cittadini Ue, che indica in Israele e negli Stati Uniti i paesi che mettono maggiormente in pericolo la pace mondiale, ci sembra interessante non tanto per il risultato che ne è venuto fuori, quanto per le reazioni suscitate. Non è infatti sorprendente che stati che ricorrono sistematicamente allo strumento militare come mezzo di risoluzione di controversie politiche, espellendo un popolo dalla propria terra per poi riempirla di soldati e coloni (Israele nei confronti dei palestinesi), o che addirittura si inventano di sana pianta pretesti per aggredire altri paesi, impadronirsi delle loro ricchezze e usarne i territori come basi della loro politica imperialistica (gli Stati Uniti contro l’Afghanistan, l’Iraq e la Serbia), o che teorizzano il loro unilateralismo, ossia il loro diritto di fare ciò che vogliono in nome della legge del più forte (ancora gli Stati Uniti), vengano poi additati come nemici della pace. A sorprendere, semmai, è che gli Usa figurino, in questa poco invidiabile classifica, al secondo posto (insieme a Iran e Corea del Nord), distanziati di ben 6 punti da Israele, quando avrebbero tutti i sinistri requisiti per, quantomeno, occupare la prima piazza ex aequo. Non ci sorprende nemmeno che il dato relativo all’Italia sia sensibilmente diverso da quello europeo. I 500 cittadini italiani intervistati hanno infatti collocato Israele e Stati Uniti in posizioni più defilate, rispettivamente al 5 e 6 posto, dietro Iran, Afghanistan, Iraq e Pakistan. La grancassa filostatunitense e filoisraeliana suonata dalla quasi totalità dei mezzi di informazione nostrani, unita all’obbedienza cieca, pronta e assoluta ai dettami di Washington del governo Berlusconi (un’obbedienza del tutto simile a quella dei comunisti “trinariciuti” alla Guareschi), non poteva, evidentemente, non produrre qualche effetto. Questo risultato non va, peraltro, enfatizzato perché, come suol dirsi, una rondine non fa primavera. Se più sondaggi dello stesso tipo, condotti a distanza di tempo, dessero risultati analoghi, allora saremmo autorizzati a pensare al consolidarsi, nell’opinione pubblica europea, di una posizione negativa sulla politica dei governi israeliano e statunitense (il che, ovviamente, non ha niente a che fare con lo spauracchio dell’antisemitismo, subito agitato da interessate interpretazioni catastrofiste). E la tesi formulata da Robert Kagan in Paradiso e potere (Mondadori), nonché, in un diverso contesto analitico, da Emmanuel Todd in Dopo l’Impero (Tropea), per i quali gli interessi dell’Europa e degli Usa divergono sempre di più, acquisterebbe una plausibilità maggiore di quanta non ne abbia oggi, in un’Europa in cui, oltre a quello guidato da Berlusconi, vi sono almeno altri due governi di docili yes-men (quelli di Aznar e di Blair). Dopo il pandemonio scatenato dal primo sondaggio, è comunque lecito dubitare che ne saranno commissionati altri.          

Le scandalizzate reazioni dell’establishment politico e mediatico ci paiono, per contro, degne di maggiore attenzione proprio perché segnalano la permanenza, la costanza di un pregiudizio favorevole a Israele sul quale è il caso di soffermarsi partendo dalla tesi, clamorosamente confermata dall’affaire-Eurobarometro, avanzata da Georges Corm in Oriente/Occidente. Il mito di una frattura, appena edito da Vallecchi, secondo cui presentare l’Occidente come una felice eccezione rispetto alle altre culture, in quanto noi occidentali saremmo stati capaci di uscire dall’universo del sacro, per diventare laici, razionali, secolarizzati e quindi adulti e maturi, è solo un argomento retorico privo di consistenza. Quando i nodi arrivano al pettine, ci mostriamo non meno sensibili alle pulsioni – ritenute “primitive” in un’ottica illuminista – del religioso o dell’irrazionale. D’altronde, già il fatto di isolarsi rispetto al contesto, al mondo circostante, attribuendosi la patente di civiltà “superiore” e un crisma di eccezionalità, è una classica operazione di sacralizzazione, come ha evidenziato René Girard nel suo La violenza e il sacro (Adelphi). Ci sono temi tabù su cui il ragionamento, la discussione, il dialogo, cioè gli atteggiamenti di cui l’Occidente si vanta e che esibisce orgogliosamente quali segni distintivi e prove della sua primogenitura laica (con tutti i diritti e i privilegi legati a tale condizione), si sciolgono come neve al sole per essere sostituiti dall’invettiva, dalla demonizzazione. Israele è uno di tali temi. Esso rappresenta – scrive Corm – il “nocciolo duro” dello “spazio sacro” occidentale in Medio Oriente, è “lo spazio sacro della psicologia collettiva occidentale” e quindi va difeso ad oltranza, qualunque cosa facciano i governi israeliani: “Esso incarna bene quella falsa apparenza di laicità […] dove, al riparo di uno scenario laico e democratico, il sacro perdura o si ricostruisce. Israele è parte integrante del moderno discorso narcisistico dell’Occidente su se stesso, cui l’Europa fa fatica a sfuggire”. L’Europa laica e illuminata vede, in definitiva, Israele attraverso occhiali teologici: “Le sofferenze estreme subite dalle comunità ebree d’Europa sotto il nazismo sono ipostatizzate nella creazione ‘miracolosa’ di uno Stato, finalmente protettore, dopo secoli di abbandono – proprio come la sofferenza dell’umanità ha indotto Dio, nella sua misericordia, a inviare Suo Figlio sulla terra”. Questi occhiali, nel caso degli americani, sono persino doppi, nel senso che sia la loro storia, sia quella degli israeliani, si presta ad essere interpretata alla luce della biblica storia della salvezza, con gli indiani e i palestinesi a fungere da cananei e i padri pellegrini o i sionisti nel ruolo dei pionieri civilizzatori.

Essendo Israele un oggetto tabù, è evidente che non tutti sono abilitati a maneggiarlo impunemente. Soltanto alcuni possono farlo con la certezza di non subirne danni, di non essere votati all’herem (per fortuna metaforico, essendo trascorsi i tempi di quello materiale): gli ebrei israeliani o della diaspora. A nessun goijm, a nessun gentile, è permesso dire, nei normali circuiti del dibattito democratico, anche solo la centesima parte delle cose che, ad esempio, afferma Norman G. Finkelstein, figlio di ebrei sopravvissuti alle drammatiche esperienze del ghetto di Varsavia e dei campi di concentramento, nel suo libro su L’industria dell’Olocausto (Rizzoli) e cioè che la politica dello Stato di Israele è “criminale” e che l’Olocausto è una costruzione ideologica che ha ben poco a che vedere con il fatto storico (per indicare il quale egli usa l’iniziale minuscola, olocausto); è “un’industria per estorcere denaro all’Europa in nome di vittime dell’Olocausto indigenti”, il che avrebbe, per Finkelstein, “ridotto lo statuto morale del loro martirio a quello del casinò di Montecarlo”.

Nessun gentile potrebbe ricondurre, come fa invece in Nascita di Israele (Baldini & Castoldi) lo stimato studioso delle destre rivoluzionarie europee e del fascismo, nonché docente di Scienze politiche all’Università ebraica di Gerusalemme, Zeev Sternhell, la fondazione dello Stato di Israele ad un crogiolo culturale e ideologico – il socialismo “costruttivista” e il nazionalismo organico – che ha parecchi punti di contatto con quello dei fascismi. Sternhell, insomma, non dice apertis verbis che i tanto incensati padri della patria israeliani sono fascisti, ma poco ci manca…

Nessun gentile potrebbe scrivere sul New York Times (11 febbraio 2001) ciò che hanno scritto, in una lettera aperta intitolata Why Are We Against the Israeli Governement and Its Wars? (Perché siamo contro il governo israeliano e le sue guerre?), i rappresentanti dei rabbini ortodossi americani e canadesi, ossia che il sionismo è, dal punto di vista religioso, una vera e propria bestemmia, perché “duemila anni fa, al tempo della distruzione del Tempio, il Creatore proibì al popolo ebraico di esercitare la sua sovranità sulla Terra Santa prima del ritorno del Messia. Agli ebrei fu inoltre proibito di muovere guerre contro altri popoli durante il loro esilio”.

Nessun gentile potrebbe rendere pubbliche dichiarazioni come quella rilasciata, al The New York Review of Books dell’11 gennaio 2001, dall’ex direttore esecutivo dell’American Jewish Congress, Henry Siegman, a giudizio del quale “molti israeliani e molti ebrei della diaspora non sono stati in grado di riconoscere una semplice verità: che la fondazione dello stato ebraico ha avuto effetti catastrofici e traumatici per il popolo palestinese e che la resistenza palestinese alla propria dislocazione forzata è del tutto comprensibile. […] Ci possono essere delle differenze di giudizio su quale debba essere il punto critico di equilibrio tra i diritti dei palestinesi e le esigenze di sicurezza israeliane. Ma non può esserci disaccordo sul fatto che dare ai palestinesi la possibilità di vivere come un popolo libero nel proprio stato e compensare i profughi che più hanno sofferto per l’espulsione non è una questione che dipende dalla magnanimità o dall’altruismo israeliano, ma un obbligo sacro verso un popolo che ha subito un enorme torto, torto che si è ulteriormente aggravato con l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza dal 1967”.

Nessun gentile potrebbe ripetere, con l’ex ministro degli esteri israeliano Shlomo Ben-Ami, che non ci si deve stupire se ai palestinesi capita di non osservare gli impegni assunti, dal momento che è del tutto ovvio che gli oppressi cerchino, appena possibile, di sottrarsi alle regole imposte loro dagli oppressori per ottenere i propri diritti (cfr. Ha’aretz del 28 novembre 2000); o, con Ami Ayalon, ex capo dello Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano, che occorre ritirarsi con urgenza dai territori palestinesi occupati, “e ritirarsi davvero, dando ai palestinesi una continuità territoriale tra la Cisgiordania e Gaza, con un’apertura verso l’Egitto e la Giordania” (Le Monde del 22 dicembre 2001). Bettina Müller, curatrice della bella silloge da cui abbiamo tratto le dichiarazioni sopra riportate e che volentieri segnaliamo ai nostri lettori (Le ragioni del nemico. Voci ebraiche a favore della causa palestinese, Casagrande, Bellinzona 2002), attribuisce questa estrema schiettezza di esponenti non certo secondari dell’ebraismo e della società israeliana al fatto che di solito la critica interna “è molto più severa e schietta di quella esterna della comunità internazionale, frutto della ricerca di un’equidistanza tra i due fronti”. Questa ricerca è, tuttavia, completamente ingiustificabile sul piano logico, stante, come osserva Müller, “l’abissale disparità di potere politico, economico e militare, e quindi di responsabilità, delle parti in lotta” e può essere spiegata solo con il timore dei goijm di finire sulla lista dei “cattivi” antisemiti, di essere colpiti dall’anatema che pone chi lo subisce hors l’humanité.

Pierre-André Taguieff ha di recente denunciato una nuova ondata di giudeofobia che starebbe da qualche tempo invadendo l’Europa e i paesi islamici, ed ha espresso la convinzione che ad essa ci si può opporre unicamente “desacralizzando” i conflitti e “demistificandone” le ragioni, ritraducendo gli uni e le altre “nel linguaggio del politico” (cfr. La nouvelle judéophobie, Mille et une nuits). È un’esigenza che condividiamo, a patto, però, di compiere questa operazione nei due sensi, dal lato arabo-palestinese e da quello israeliano.