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A proposito di Cyrano: Intervista a Massimo Fini

di Fiorenza Licitra - 18/09/2005

Fonte: Arianna Editrice

 

Massimo Fini è Cyrano, è la traduzione teatrale del pensiero che Massimo Fini, giornalista, scrittore, saggista e anche, a modo suo, filosofo, viene elaborando da una ventina d’anni. Si trovano qui, sintetizzati tutti i temi cari all’autore: l’attacco radicale all’attuale modello di sviluppo che promettendo continuamente un futuro orgiastico, mai raggiunto e irragiungibile, ci ha messo in realtà al servizio dell’economia e della tecnologia; l’interpretazione di liberalismo e marxismo come due facce della stessa medaglia, due parti della Rivoluzione industriale, apparentemente avversari, nella sostanza complici; l’impossibilità per le classiche categorie politiche della destra e della sinistra, vecchie ormai di due secoli, di mettere in discussione la Modernità, perché da essa sono nate e in essa si sono affermate, e quindi di comprendere e di gestire le esigenze più autentiche e profonde dell’uomo d’oggi che sconta una paurosa perdita di identità, di dignità e di senso; la denuncia della democrazia come pura finzione al servizio delle oligarchie del potere; la totalitaria e totalizzante pretesa dell’Occidente, proprio mentre attraversa la più grave crisi della sua storia, di esportare comunque, anche con la violenza, il proprio vuoto di valori e la propria nevrosi. Quando Massimo Fini scriveva queste cose vent’anni fa nessuno lo prendeva sul serio. Oggi, il pubblico di tutte le età e di ogni estrazione sociale, non solo lo segue attentamente ma è partecipe e quasi sempre anche solidale.

 

So che Cyrano era inizialmente un progetto nato in televisione, poi invece per cause maggiori è stato portato in teatro. Si sa che il teatro è si luogo di visione, come può esserlo del resto anche la televisione, ma è anche luogo “d’udito”, d’ascolto, quindi di partecipazione. Un luogo che  pur abbracciando un numero di persone indubbiamente inferiore rispetto al palco televisivo, tocca però molte più coscienze…

-“Ciò che noi abbiamo portato a teatro non ha praticamente quasi nulla a che vedere con ciò che voleva fare Edoardo Fiorillo in televisione, ossia uno spettacolo di costume in cui si sarebbero trattati tutta una serie di temi che vanno dalla vecchiaia alla morte, all’incapacità moderna di accettare questi nuclei tragici dell’esistenza,

svolti però sempre secondo un modello giornalistico in cui io avrei dovuto tirare le fila secondo appunto un mio pensiero un po’ fuori dagli schemi.

Sta di fatto che in seguito questo progetto è stato bloccato, ma proprio grazie a ciò a Fiorillo è venuta in mente di portare in teatro un’altra cosa, e cioè il Fini-pensiero.

Ora, arrivando al tuo discorso, ciò che diversifica il teatro dalla televisione è appunto questo rapporto diretto, intimo col pubblico che partecipa ad un evento non seriale e dalla parte degli attori che ogni sera si propongono in modo nuovo, e degli stessi spettatori che cambiano non solo di sera in sera, ma di in luogo in luogo con differenze fortissime. E appunto questo che crea un rapporto molto più stretto e quindi anche una trasmissione infinitamente più forte rispetto alla televisione che è il limite del mezzo. Anche uno scimmione può premere un bottone e vedere qualche immagine in televisione, mentre la parola scritta come quella parlata richiede un’attenzione attiva da parte di chi la scrive, di chi la dice a chi la legge o l’ascolta; ecco, in teatro questo è enfatizzato al massimo, pur scontando poi il limite di essere penalizzato come pubblico.

Della passività dell’uomo moderno è cosa chiara oramai l’alienazione rispetto alla natura, al luogo che lo circonda, ma paradossalmente la stessa alienazione la subisce anche rispetto a quegli stessi strumenti che tanto osanneggia e di cui non solo ne fa un larghissimo uso, ma ne crea un vero e proprio status symbol. Questo a differenza anche dell’uomo dell’ancien regime il quale utilizzando di certo altri strumenti sapeva però com’erano fatti, ne conosceva bene la meccanica e le dinamiche; dunque vi era un’interazione reale tra uomo e oggetto che oggi è assente…

Gli strumenti di cui si avvale oggi l’uomo sono di per sé alienanti. Il problema di questa società è proprio l’alienazione non soltanto tra te e il luogo, tra te e gli altri, ma proprio tra te e te stesso e quelli che sono i tuoi nuclei profondi, che gli strumenti della tecnica non fanno che enfatizzare e addirittura creare. 

Noi siamo molto lontani da noi stessi e da ciò che ci circonda proprio per questi strumenti che dovrebbero facilitare la comunicazione e che invece ne sono emblematici muri.

C’è un bellissimo film americano, Elois, che racconta la storia di quattro persone, due uomini e due donne, i quali si conoscono, due di loro si amano e hanno anche un figlio insieme senza però vedersi mai. Ecco, questo sintetizza un po’ la dimensione disumana in cui viviamo.

 L’alienazione riguarda di certo anche la perdita d’identità dovuta anche a una perdita dei ruoli non soltanto all’interno di un sistema sociale, ma prima ancora all’interno della famiglia e tra uomo e donna…

A mio parere, il maschio è un bambino che vuole giocare e se non ha il ruolo non esiste come uomo; questo a differenza della femmina che è un essere vitale perché dà la vita e ha il ruolo incorporato in sé. Per il maschio il ruolo, che un tempo era possibile perché glielo dava la comunità, la guerra in difesa del proprio territorio, i nazionalismi, oggi è stato perso. Questo ha naturalmente messo in crisi anche lei  che si appiattisce virilizzandosi e perde non solo un interlocutore, ma perde proprio la figura di confronto col maschio visto tutto al più, ammesso che la donna conservi un po’ della sua tenerezza materna, come appunto un bambino.

Il ruolo maschile di un tempo che pur essendo nei limiti una forzatura, serviva però a

mantenere insieme queste due opposte ma complementari figure quali l’uomo e la donna. Oggi troviamo con sconvolgente frequenza un maschio demolizzato che in quanto tale scompare, e questo è sicuramente anche la causa poi di una società del tutto femminea.

Credo che sia importante sottolineare una delle caratteristiche peculiari  delle comunità che sono di certo più piccole, più strette anche, ma determinanti per la collocazione dell’uomo nel suo ruolo, nei suoi rapporti ,nel suo ritrovarsi in se stesso e nel riconoscersi perché è a sua volta riconosciuto all’interno del luogo in cui vive e in cui non è ancora anonimo e sperduto come invece lo è nella società attuale…

Certamente, nella comunità tu hai un’identità che è quella che lei ti riconosce, ma alla fine è la stessa identità che tu riconosci a te stesso, perché non si può bluffare nemmeno di fronte a se stessi in un cerchio piccolo. Inoltre quelle erano società che riuscivano, a loro modo, a dare a tutti una loro parte nella rappresentazione della vita;

quella di oggi è esattamente una società contraria in cui regna l’incertezza, dove la gente non si riconosce non sapendo mai chi ha di fronte e dove tu stesso non sai chi sei. Manca un rapporto reale con la gente, un rapporto sempre mediato da infiniti strumenti, come dicevamo prima, in cui alla fine ognuno si crea un’identità fittizia per gli altri, il più delle volte appiattita.

A proposito di appiattimento, all’inizio del dialogo di Cyrano si parla di come “l’industrialismo, vestito di democrazia, tutto appiattisce e omologa, anche gli antagonismi e gli antagonisti più recalcitranti come i New Global”…

Questa è una società per intelligenza non del manovratore che non c’è, come nel caso di Bin Laden che abbatte le torri gemelle, ma è un meccanismo che ingloba in sé anche tutto ciò che gli si oppone. Basti pensare all’esigenza di spiritualità nell’uomo che in pochissimo tempo è diventata New Age, cioè un’altra forma di produzione.

I New Global nati come No Global sono a breve termine divenuti un altro sistema di esportare, in modo più umanizzato secondo loro, l’occidente ovunque.

Abbiamo a che fare purtroppo proprio con l’incapacità ormai mentale, anche quando si contrappone, di concepire l’altro da sé. Montaigne in tal senso fa un bellissimo discorso riguardo ai cannibali e di come noi li guardiamo sconcertati, ma aggiunge anche che i cannibali guardano noi nello stesso modo. Qui l’autore cerca di far capire di come sia ingenuo, bambinesco, ma soprattutto di un totalitarismo spaventoso, pensare che il proprio modo di vedere le cose sia l’unico valido e che gli altri debbano nonostante dei vissuti, delle tradizioni, delle culture opposte, adeguarsi.

Neanche i totalitarismi più acclamati e dichiarati hanno pensato in maniera così totalitaria; ad esempio Hitler voleva eliminare la razza ebraica e ammetteva per questo che fosse diverso; a differenza  della nostra democrazia, che paradossalmente nasce come difesa delle minoranze, la quale va in Afghanistan e pretende che il popolo diventi democratico quando la leadership, il comando è sempre stato conquistato col valore guerriero, con azioni fatte,con un carisma che, come dice Max Weber, non ha nulla a che fare con la democrazia.

Noi non facciamo altro che esportare la nostra sozzura, la nostra impotenza sessuale, la nostra nevrosi nonché le nostre ossessioni che noi chiamiamo cooperazione, modernità.

E’una sorta di Santa Inquisizione democratica?

Assolutamente si. All’epoca delle cannoniere c’era chi bombardava altri popoli e se qualcuno per contro risposta gli tirava giù le torri gemelle dell’epoca questi non poteva prendersela. Noi bombardiamo in tutti i sensi queste altre popolazioni pretendendo di fare il loro bene e in questo vi è proprio una Santa Inquisizione che mette i cunei nei piedi torturando, ma con la pretesa di salvare l’anima. Questo è l’intollerabile dell’Occidente, oggi; è questa sorta di buona coscienza per cui un’Emma Bonino è molto più pericolosa di un Bush che è palesemente in mala fede,

mentre lei ci crede veramente che torturare per il bene sia giusto.

Questa buona fede è la stessa bontà sanguinaria di S. Caterina da Siena, è la terribile bontà delle buone intenzioni. Insomma, il nemico che si presenta come tale è meno insidioso rispetto a quest’enorme dama di S. Vincenzo che non ammazza perché odia, ma fatalmente perché ama.

Questi discorsi che noi stiamo facendo sono meno di nicchia di quanto sembri, in realtà sono molto più estesi solo che non trovano sbocco ne’ in politica né nella pubblicistica.

Probabilmente questa mancanza di sbocco è sintomatica anche di una mancanza di riflessione, la stessa che non c’è stata come ha detto bene Terzani, rispondendo alla sign.ra Fallaci, per l’evento delle Torri gemelle o come dice una delle attrici  durante lo spettacolo del Cyrano, la stessa mancanza di riflessione a proposito della catastrofe dello Tsunami che si capovolge nella fretta di far tornare le cose esattamente com’erano prima, senza retrocedere di un passo e soprattutto senza chiedersi il perché di questi eventi…

Il portare le cose alla normalità nel più breve tempo possibile è sicuramente tipico di un mondo che non vuole riflettere su quello che accade.

Io non sono affatto dalla parte di Bin Laden dal momento in cui lo vedo come un’ombra dell’Occidente, un po’ come l’altra faccia della medaglia  occidentale, anche se Bin Laden, ammesso che esista, lo trovo molto più simpatico di Bush. Ora il punto è che se c’è qualcuno che trova ventiquattro persone disposte a morire per cause di questo genere, non si può pensare che siano semplicemente dei pazzi, ma bisogna appunto chiedersi cosa si è sbagliato quando succedono cose del genere.

Un’altra cosa più importante ancora è la vuotaggine dei valori del nostro mondo: da una parte ci sono i KamiKaze i quali hanno valori fortissimi, giusti o sbagliati che siano, e dall’altra parte ci siamo noi che passiamo una settimana di strazio per diciassette soldati morti o per le varie Simone. Questo sta ad indicare che non c’è nessun valore che sia degno del sacrificio di una vita. I valori poi altro non sono che le credenze, le illusioni, i sogni degli uomini senza i quali non si riesce a vivere.

In noi dimora ormai il sogno di passare dalla Bmw alla Porche, ma è un sogno che dura pochissimo e che prima di tutto non dà il senso alla vita; un senso che  abbiamo praticamente perso sostituendolo con un meccanismo efficiente, ma privo di sacralità.

Le religioni possono essere tutte fasulle, però hanno permesso a milioni di persone di vivere. Questo sistemuccio non dà neanche questo né d’altro canto crea un super-uomo nietzscheano in grado di affrontare da solo l’angoscia dell’esistenza e di assumere su di sé la responsabilità delle proprie azioni.

Da questo siamo lontani anni luce e nello stesso tempo però abbiamo tolto il mistero all’uomo senza risolverlo e pretendendo tuttavia secondo un idiota principio illuminista il diritto alla felicità.

Il bonum honestum è stato soppiantato  dal bonum utile divulgato probabilmente da  quello stesso insano principio del diritto alla felicità  che a lungo andare ha escluso ogni forma di sacrificio, di disciplina in favore di un comodo utile immediato…

Il principio di utilità scalza di per sé tutti i valori proprio perché se il principio è l’utilità allora vale tutto.

La morale nasce come salvaguardia degli uomini che altrimenti si scannerebbero tra di loro estinguendosi come specie; ecco, questa è l’utilità profonda dei valori morali.

Nietzsche poi annuncia la fine di quest’epoca e la morte di Dio nella coscienza degli uomini, proponendo di liberarsi da questi valori etero diretti e ricreando una propria tavola dei valori. Questo però non è successo, perché alla morale intesa come l’utile profondo per la salvaguardia della specie è succeduta una morale prettamente individuale che non soddisfa, che illude e che annienta… 

Questa morale che non soddisfa, che illude e che annienta è dovuta quindi proprio a quella mancanza di sacrificio e non solo, anche di accettazione del dolore come condizione imprescindibile della vita?

Da che mondo e mondo all’uomo è stato insegnato che non ci può essere felicità senza sacrificio. Eraclito sostiene la malattia renda dolce la salute. 

Negli ultimi tempi invece non abbiamo fatto altro che cercare di abbattere il dolore e insieme quello che è il suo valore pedagogico e proprio felicitario. E’ la follia della società moderna.

 Porterò un esempio orrendo, ma utile, che ha a che fare col principio di profonda saggezza della sega cinese. C’è un uomo occidentale che ha dei problemi sessuali per cui al momento culminante non riesce a godere; così si rivolge prima al medico della mutua, poi a quello personale fino ad arrivare sotto consiglio del primo medico in Cina presso il limite di un villaggio da un certo santone. Questo illuminato dopo aver ascoltato l’uomo lo porta in una radura dove c’è un tronco tagliato e dice all’uomo di sbottonarsi i pantaloni, di poggiare il membro su questo tronco e di iniziare a darsi dei colpi con una pietra. L’uomo allora domanda sorpreso quando dovrebbe godere se questa è la cura al suo problema; il santone risponde :-“Quando sbagli il colpo.”

Credo che questo aneddoto sia abbastanza eloquente…

Io capisco bene tutti i meccanismi e anche le ragioni che hanno portato a cambiare questo mondo, non riesco però a capire dove si collochi quest’inizio di idiozia collettiva…prima non erano così idioti! Basti pensare a Bacon che fu l’iniziatore della rivoluzione scientifica, eppure lui stesso sosteneva che la natura si potesse comandare solo obbedendo ad essa. Da Popper in poi questo è il migliore dei mondi possibili, ma per dire questo basterebbe la mia domestica che però essendo più intelligente di Popper non lo dice; ma in fondo questo non è un filosofo liberale, è una domestica liberale!

A proposito di “liberalismo”, si dice che nell’arte la massima creatività sia data dalla massima libertà possibile. Secondo te questa massima libertà possibile può essere una delle condizioni portanti per il decadimento dell’arte come perdita di senso e non più quindi come acquisto di senso?

La storia ci dimostra che quasi sempre l’arte nasce non dalla libertà, ma dalla costrizione. Questo è uno dei grandi miti del ’68 che credeva nella creatività al potere, ma si è visto poi cosa ha prodotto questa generazione: nulla, né nel cinema né nel teatro né nelle arti figurative!

Anche qui ritorniamo alla creatività del dolore, e come esempio calzante troviamo Leopardi il quale non sarebbe esistito senza il dolore di Leopardi.

Non sussiste arte senza sofferenza; l’arte, la sensibilità, l’intelligenza dell’uomo nascono tutte dalla sofferenza. Questo non vuol essere un elogio cattolico e cristiano del dolore, ma non si può dimenticare, come dice Freud, il suo aspetto e pedagogico e creativo.

Le società precedenti educavano gli uomini al fatto che prima di tutto la vita era fatica e dolore, e gli uomini  allora erano come allenati ad affrontare questi nuclei tragici dell’esistenza contrariamente a noi che siamo completamente disarmati e impotenti come uomini diminuiti.

 

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Massimo Fini, scrittore e giornalista, scrive per "Il Giorno", "La Nazione", "Il Resto del Carlino" e "Il Gazzettino". È autore di Il conformista (1990) e di due fortunate biografie storiche: Nerone, duemila anni di calunnie (1993), Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta (1996). Per Marsilio ha pubblicato Di[zion]ario erotico. Manuale contro la donna a favore della femmina (2000), Nietzsche. L’apolide dell’esistenza (2003), la trilogia di saggi storico-fiosofici La Ragione aveva Torto? (1985, 2005), Elogio della guerra (1989, 2003), Il denaro "Sterco del demonio" (1998, 20034), riproposti in edizione tascabile, Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità (2002 e 2004) e Sudditi. Manifesto contro la Democrazia (2004).