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Cari architetti, siete nichilisti. Ritorni il gusto delle proporzioni

di Leonardo Servadio - 11/06/2008

 


 

L’
edificio di Richard Meier per l’Ara Pacis? «In nessun particolare della nuova copertura si trova la vita, e dunque ci indebolisce l’anima». Le 'nuvole' di Fuksas all’Eur? «Una forma molto strana», legata alle «idee astratte e assolute del modernismo». Cresce la critica agli 'archistar' e si diffonde la richiesta di «un’architettura che risponda ai bisogni materiali e spirituali dell’essere umano»: così Nikos A.
  Salingaros, matematico greco­statunitense nato in Australia che in questi giorni sta girando l’Italia
per promuovere il suo

 Antiarchitettura e demolizione. La fine dell’architettura modernista

 (Libreria Editrice Fiorentina, 226 pagine, 22,00 euro). Oggi Salingaros è a Firenze, per un convegno dalle 15 alle 19 presso il salone superiore di San Michele in Orto. «Il punto - insiste il professore che, oltre a insegnare matematica a San Antonio ( Texas) lavora nella ricerca architettonica ed è parte dell’International
network for traditional building, architecture and urbanism
(Intbau - Rete internazionale per la costruzione, l’architettura e l’urbanismo tradizionale) - è che bisogna riallacciare su basi scientifiche il discorso del progettare organico che è stato interrotto col modernismo nel XX secolo».
  «La 'vita' architettonica è una qualità matematica misurabile: una complessità ordinata che aiuta a connettere forme, spazi e superfici col nostro sistema percettivo. E
parlo di qualcosa di più di una superficiale connessione visiva.
  Ogni forma evoca una risposta dell’anima, originata in parte dal sistema neuronale percettivo (occhio, orecchio, ecc.) e in parte dal sistema cerebrale (memoria, concezione innata del mondo, ecc.). Tutto si connette nell’essere umano». Se il modernismo ha cercato la semplificazione in vista della serializzazione industriale, che porta all’appiattimento su forme lontane dalla vita, oggi la ricerca va verso uno nuova sintesi tra fisica, biologia e le conoscenze umanistiche.
  Il volume di Salingaros sembra più di un’opera teorica: accoglie i con­tributi
di molti, e tutti sparano a ze­ro sulle mode che hanno segnato le città negli ultimi decenni. Un mani­­festo, e uno strumento di battaglia: «Gli architetti oggi sono addestrati a distruggere - scrive nella prefazio­ne James Steven Curl, storico, auto­re di The Oxford Dictionary of Ar­chitecture - viene fatto loro il lavag­gio del cervello sì da trasformarli in assassini di organismi viventi come le città e da non avere più nessun sentimento per le antiche costru­zioni… Questo libro è un contrat­tacco da tanto tempo dovuto e atte­so ».
Daniele Vannetiello lamenta che gli studenti di architettura siano con­dizionati «a selezionare nella perce­zione solo ciò che si impone sull’e­dificio tradizionale come oggetto e­straneo » e necessitano un periodo di rieducazione prima di riuscire a comprenderlo. James Kalb denun­cia che il decostruttivismo (la moda che domina in questi ultimi anni e che vuole in Derrida il suo profeta) «sembra un tentativo di scompagi­nare gli aspetti fondamentali della vita umana…. una guerra virale contro ogni possibile ordine intel­lettuale e perciò un crimine contro l’umanità».
 
Salingaros sostiene che tutto il No­vecento sia attraversato dalla cor­rente nichilista che porta, in tutti i campi del sapere, al disordine e alla frantumazione dell’essere, per e­stirparlo alla coerenza che gli è in­trinseca. «Così in campo musicale abbiamo la dodecafonia e la seria­lità invece dell’armonia. La scom­posizione caotica e casuale invece della complessa geometria della vi­ta ». La stessa matematica frattale è spesso intesa dagli architetti in questo senso, mentre invece si trat-
ta di un complesso sistema di orga­nizzazione autosimile che mira a ri­produrre la logica del vivente.
  «Per la concezione della città - dice Salingaros - propongo una trama che nasca dal sovrapporsi delle di­verse reti (di comunicazione, infra­strutturale, dei diversi sistemi di trasporto, ecc.). Che non sia il frutto di un disegno astratto, ma sia fatta dall’uomo e per l’uomo».
  Può Brasilia avvicinarsi a questo concetto? «No. È una città concepi­ta per l’automobile e come spazio espositivo per le sue architetture moderniste. Le sue distanze sono troppo vaste per favorire chi si muove a piedi e così manca uno degli aspetti fondamentali della connessione, mentre è pro­prio la connessione quel che deve informare la città.
  La Brasilia autentica non è quella delle grandi architet­ture, ma quella delle favelas sorte spontanee attorno al nucleo disegnato negli anni ’50 e ’60. Il problema è che si tende a esibire questo e nascondere quelle».
  Perché l’architettura mo­dernista ha dato luogo a u­na «specie di religione. Se si critica l’eccessivo uso del vetro o dell’acciaio o il for­malismo degli 'archistar', spesso gli architetti reagiscono come se si insultasse una divinità. Bisogna in­vece ritornare al gusto delle pro­porzioni e dell’ornamento, e all’uso di materiali e soluzioni caratteristi­ci del luogo. Negli Stati Uniti è sorta la corrente del 'New Urbanism' che va in questa direzione. Confido che si diffonda anche in Europa: che siano mutuati anche questi movimenti virtuosi e non solo quel­li nefasti come lo 'stile internazio­nale' alla Philip Johnson».

 Boccia l’Ara Pacis di Meier e le 'nuvole' di Fuksas all’Eur.
  «Se si critica l’eccessivo uso del vetro o dell’acciaio degli 'archistar', reagiscono come se fossero divinità. Bisogna invece ritornare al gusto delle proporzioni, rispettando il senso dei luoghi»