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L'eredità di Suharto

di Marina Forti - 17/06/2008

 

Sono passati esattamente dieci anni. Quando il presidente Suharto ha pronunciato la famosa frase «I quit», me ne vado, e ha dato le dimissioni dopo 32 anni di potere assoluto, per l'Indonesia era come assistere alla caduta di una divinità. Era il 21 maggio del 1998, ma il decennale è passato inosservato: anche perché l'ex presidente è morto lo scorso gennaio nel suo letto senza mai essere processato né per le malversazioni e i casi di corruzione di cui era stato imputato, né tantomeno per la violenta repressione che ha caratterizzato il suo regime - su cui pure la Commissione nazionale per i diritti umani ha avviato alcune inchieste, nessuna arrivata a conclusione.
Del resto il bilancio di questi dieci anni di «transizione democratica» è così fragile che ben pochi in indonesia hanno voglia di fare bilanci del passato regime.
Fanno eccezione alcune organizzazioni per la democrazia e i diritti umani. E tra questi, fa eccezione Down to Earth, bollettino on-line della «Campagna per la giustizia ecologica in Indonesia», che nel suo numero di maggio analizza l'eredità di Suharto. E' un utile promemoria. Per trasformare un paese rurale, povero e popoloso in una «tigre» dell'Asia, il «padre dello sviluppo» (così si faceva chiamare) ha applicato fermamente le ricette del libero mercato (salvo farle funzionare solo per la sua famiglia e i suoi clientes).
A pagarne il prezzo, scrive Down to Earth, sono state le foreste, le risorse naturali e le popolazioni rurali e indigene del paese. In effetti lo «sviluppo» è cominciato con grandi concessioni minerarie (tra tutte citiamo Freeport McMoran, che nel '65 ha avuto diritti esclusivi sulla più grande miniera a cielo aperto di rame e oro a Papua occidentale, di cui ancora gode: ne ha tratto miliardi di dollari in profitti di cui solo una minima parte è andata in royalties allo stato indonesiano; ha inquinato la zona in modo irrecuperabile, e ha contribuito alla repressione delle popolazioni di Papua tra l'altro finanziando polizia ed esercito). Dopo le miniere, le foreste: tra il 1965 e il '97 l'Indonesia ha perso tra 40 e 50 milioni di ettari di foresta tropicale, causa un misto di sfruttamento selvaggio del legname commerciabile, espansione di grandi piantagioni, miniere, progetti di infrastrutture e urbanizzazione. Oltre al danno ambientale, è stato un disastro per milioni di persone che dipendono dalla terra. Forse il più grande disastro sociale e ambientale però è stato il programma di «trasmigrasi»: tra il 1969 e il '99 circa 4 milioni e mezzo di persone dalle isole più sovraffollate - Java, Madura e Bali - sono state risistemate nelle «isole esterne» dell'arcipelago, per lo più Kalimantan (il Borneo indonesiano) o Papua, con il massiccio sostegno finanziario della Banca mondiale. In teoria, la trasmigrazione serviva a dare uno sfogo alla pressione demografica, ridurre la povertà e sviluppare l'agricoltura. La realtà è un fallimento: spesso i progetti di colonizzazione agricola sono andati a rotoli perché le terre non erano adatte o perché non c'erano infrastrutture e mercati, e i trasmigranti sono finiti semplicemente a fare da manodopera per imprese di deforestazione o piantagioni. Intanto però sono nati infiniti conflitti con le popolazioni autoctone, a cui erano state sottratte la terra e le foreste senza alcuna considerazione per i diritti consuetudinari. Le popolazioni locali si sono trovate sempre più emarginate e impoverite - e questo ha anche acutizzato il senso di ingiustizia e alimentato rivendicazioni separatiste, da Papua a Aceh.
Un bilancio disastroso. Il problema è, conclude Down to Earth, che l'economia indonesiana resta basata sull'export e sullo sfruttamento intensivo delle sue risorse naturali, le miniere, la deforestazione, le piantagioni intensive. Il modello di «sviluppo» di Suharto è ancora vivo.