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Quell'integrazione fallita in un'economia globalizzata

di Joseph Halevi - 19/06/2008

 
Fin dai referendum sul trattato di Maastricht, approvato per un soffio dall'elettorato francese e bocciato da quello danese, la prova delle urne ha messo sistematicamente in crisi l'Europa istituzionale. Le bocciature dei trattati europei sono viste come un attaccamento anacronistico agli stati nazionali mentre, si dice, la globalizzazione li svuota di significato.
La realtà è ben diversa. Sul piano dell'integrazione economica l'Europa è pienamente inserita nel processo mondiale sia sul piano reale che su quello finanziario. La stessa Irlanda ne costituisce un esempio. Nella fase cumulativa gli aiuti da Bruxelles e la detassazione dei capitali hanno trasformato il paese in una base per multinazionali farmaceutiche ed elettroniche proiettate verso il mercato europeo ed oltre.
Oggi, dopo aver raggiunto i più alti livelli dell'Unione europea, Dublino è in fase decrescente, con perdite di aziende verso i paesi dell'est, tra i quali l'altrettanto piccola Estonia emerge come una base offshore dell'elettronica scandinava in diretta contrapposizione all'Irlanda. Nel frattempo poli di avanzata tecnologia globale come Grenoble in Francia si stanno svuotando per le rilocalizzazioni in Cina. È l'integrazione politica che è da tempo fallita in Europa impedendo quindi di affrontare la globalizzazione.

A differenza dell'integrazione economica che, dal Piano Marshall in poi, ha coinvolto l'intera Europa occidentale dalla Norvegia alla Grecia, il cuore dell'integrazione politica si basa su un nocciolo di paesi continentali. In particolare sulla Germania, sulla Francia e sull'Italia.
Questo nucleo, come vedremo non omogeneo, ha dovuto poi mediare con le esigenze di liberismo finanziario (quello aspramente criticato dalla Merkel per intenderci) provenienti dalla Gran Bretagna per la quale l'Europa è unicamente uno spazio per il libero traffico di capitali e servizi finanziari. La caratteristica principale del nucleo europeo è il neomercantilismo: cioè la dinamica economica e sociale di ciascun paese viene fatta dipendere dall'ottenimento di eccedenze nei conti esteri che, concretamente, non possono che realizzarsi in Europa stessa e, solo in parte, negli Usa. Con l'Asia è impossibile. Ne consegue che il neomercantilismo del nocciolo europeo è un gioco a somma zero. I due estremi neomercantilistici dell'Europa sono quello forte tedesco e quello debole italiano. La Scandinavia, l'Olanda e l'Austria gravitano su quello tedesco anche per le connessioni intersettoriali che esibiscono nei confronti dell'economia della Germania.

Questi paesi accumulano sistematicamente un surplus con il resto dell'Europa drenando domanda effettiva europea. Invece l'export italiano andava bene per l'insieme dell'economia nazionale solo grazie a sgambetti ed a lire ballerine. Finita la disponibilità di questi espedienti l'export dell'Italia può andar bene per le regioni della Lega e dell'ex Pci, nonché per il tessile della Napoli di Saviano, ma non fa sistema; non traina niente. Il colbertismo straccione di Tremonti e l'antieuropeismo della Lega nascono da questa debolezza.

In mezzo ai due neomercantilismi c'è la Francia, la quale vorrebbe essere industrialmente come la Germania ma non ce la fa, perché non ha la produzione dei macchinari tedeschi. Invece ha una componente di beni di consumo di tipo italiano solo che in questo campo è surclassata dalle regioni lego-rosse, nonché dalla Napoli di Saviano.

Le stesse regioni, ma non Napoli, fanno mangiare la polvere alla Francia, in termini di export, anche nel campo della meccanica e dei macchinari intermedi senza minimamente intaccare la supremazia tedesca sull'insieme del mercato dei macchinari. Un feroce critico thatcheriano del trattato di Maastricht, Bernard Connolly (The Rotten Heart of Europe. London: Faber and Faber, 1996) ebbe così a sintetizzare la mediazione che portò al trattato: le grandi industrie tedesche vogliono il potere di mercato in Europa mentre la Francia, non avendo il suo capitalismo la stessa capacità, vuole usare il suo superiore apparato statale per controllare le istituzioni europee e specificamente togliere alla Germania la supremazia del marco.
Condivido queste osservazioni. Ho studiato le centinaia di pagine della bocciata costituzione europea, da cui è scaturita la versione rimaneggiata di Lisbona. Essa è imperniata a difendere le esigenze dei due obiettivi egemonici in conflitto fra loro cercando poi, con infiniti ed anodini contorcimenti, di creare dei tasselli per le altre componenti. A mio avviso l'unico modo per affrontare la problematica europea è attraverso un'ottica federalistica. Ma a ciò si oppongono sia gli stati che una buona fetta delle imprese che concentrano potere economico e politico: possiamo pensare a Mediaset o alla Fiat senza l'appoggio dello Stato italiano?