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Tra i vicoli senza luce di Shatila Vite sospese di rifugiati palestinesi

di Sergio Romano - 19/06/2008

 

 

 

Le cause remote della guerra civile libanese furono i precari equilibri fra le diciotto comunità religiose installate da secoli in una stretta lingua di terra fra il Mediterraneo e la valle della Bekaa. Ma le cause vicine, quelle che dettero fuoco alla miccia nella primavera del 1975, furono l'arrivo nel Paese di parecchie migliaia di militanti palestinesi, cacciati dalla Giordania di re Hussein. In Libano, accolti in campi di fortuna, vivevano già altri palestinesi, fuggiaschi del 1948 e del 1967. Ma i nuovi arrivati avevano le armi, un'organizzazione militare e soprattutto l'intenzione di trasformare il Libano in una base strategica per le loro operazioni contro Israele. Erano quindi, virtualmente, uno Stato nello Stato.

 

Non vi fu un colpo di pistola, come a Sarajevo, nell'estate del 1914. Ve ne furono molti, con la loro inevitabile coda di rabbia, lutti e vendette, sino al 13 aprile 1975 quando un autobus carico di palestinesi cadde sotto il fuoco incrociato delle Falangi cristiane a Beirut mentre attraversava il quartiere di Ain Al Rumanneh. I morti furono 27, i feriti 19: i primi di una sporca guerra che fece probabilmente quasi duecentomila vittime. La partenza delle milizie di Arafat, all'inizio degli anni Ottanta, non impedì che la guerra, ormai alimentata dalle interferenze straniere, continuasse sino al 1990. Ma la memoria del conflitto, nella coscienza dei libanesi, resta indissolubilmente legata al ricordo dei palestinesi che «invasero» a più riprese il territorio nazionale.

 

Ve ne sono circa duecentocinquantamila, divisi fra una dozzina di campi che vengono amministrati da un'agenzia dell'Onu (Unrwa, United Nations Relief and Works Agency). Sono molto meno dei seicentomila che vivono in Siria e di quelli (più di un milione e mezzo) che vivono in Giordania, ma hanno meno diritti dei loro connazionali dispersi nella regione. Non possono acquisire la cittadinanza libanese. Non possono esercitare le libere professioni. Possono tutt'al più svolgere piccoli lavori manuali soprattutto in nero. Per cercare di comprendere quali siano le loro condizioni di vita ho visitato Shatila, il più famigerato dei campi, quello che fu teatro degli orrendi massacri del 1982. Richard Cook, direttore dell'Unrwa per il Libano mi indica il campo dalle finestre del suo ufficio e più tardi, lungo il percorso, il luogo dove, secondo i cronisti dell'epoca, le forze armate israeliane installarono i riflettori che avrebbero illuminato Shatila durante il micidiale raid delle milizie cristiane.

 

Mentre ci infiliamo in minuscoli vicoli, sgambettando fra pozze d'acqua e occasionali pezzi di selciato, Cook mi spiega che il campo dovrebbe alloggiare tremila persone e comporsi di casupole o baracche di un solo piano. Ma nessuno poté evitare che le casupole, con il passare degli anni, venissero costruite in cemento, che i piani divenissero cinque o sei e che il numero degli abitanti, sullo stesso spazio fornito a suo tempo dalle autorità palestinesi, salisse a circa 12.000. La parola «campo», del resto, è ormai del tutto impropria. Shatila è la caricatura grottesca di una città. Ha vie incredibilmente strette, piccolissimi slarghi, negozi angusti. Affacciandomi su una finestra a pian terreno vedo un muratore: sta alzando un muretto all'interno di una stanza che non supera i tre metri quadrati. Le case sono troppo vicine l'una all'altra perché i raggi del sole possano entrare a Shatila. La piccola fetta di cielo che s'intravede fra i tetti è quasi completamente nascosta da un fitto reticolato di cavi elettrici volanti e da bombole del gas, appoggiate su un terrazzino di fortuna. L'acqua si prende dagli idranti collegati alle tubature di Beirut, ma non è potabile. Dimenticavo: questi minigrattacieli non hanno fondamenta.

 

Basterebbe una sola scossa di terremoto per trasformare Shatila in una tomba collettiva. Grazie all'Unrwa le condizioni sanitarie, paradossalmente, sono migliori dell'immaginabile. L'agenzia raccoglie la spazzatura al mattino, distribuisce bottiglioni d'acqua potabile, assicura l'insegnamento scolastico e una certa assistenza sanitaria, aiuta le famiglie più bisognose e organizza corsi di family planning per controllare nei limiti del possibile l'aumento della natalità. Cook mi spiega che le malattie infettive (tifo, colera, antrace) sono rare e che il rischio delle epidemie è modesto. Ma l'aria cattiva, l'umidità, la mancanza di luce e la cattiva alimentazione rendono gli abitanti di Shatila molto più vulnerabili alle malattie «ordinarie», dal diabete al cancro, dalla tubercolosi all'Aids. I bambini sono belli, vivaci, curiosi e, a giudicare dai risultati scolastici, eccezionalmente intelligenti. Ma gli adulti che ammazzano il tempo fumando neghittosamente il narghilé all'angolo di una casa sono quegli stessi bambini venti o trent'anni dopo. La stretta al cuore con cui il visitatore esce da Shatila è il pensiero del loro futuro.

 

È possibile gestire indefinitamente l'orrore con i criteri dell'ordinaria amministrazione? Ne ho parlato a lungo con due persone che dedicano a questo problema buona parte delle loro giornate: Abbas Zaki, rappresentante a Beirut dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e l'ambasciatore Khalil Makkawi, presidente del Comitato di dialogo israelo-libanese. Zaki sa che il Libano non ha dimenticato il ruolo dei palestinesi nella guerra civile e non può ignorare che la loro integrazione nella società nazionale sconvolgerebbe il delicato equilibrio cristiano-sunnita-sciita. E sa infine che la questione palestinese si è bruscamente riaperta nel 2007 quando poche centinaia di militanti di una misteriosa organizzazione islamista, Fatah Al Islam, si sono impadroniti del campo di Nahr el Bared, nel nord del Libano, hanno rapinato una banca, hanno ucciso 179 soldati libanesi e ne hanno brutalmente massacrati trenta. In quei mesi cruciali, mentre il generale Michel Suleiman, oggi presidente della Repubblica, bombardava il campo di Nahr el Bared, Zaki ha temuto di ricadere nel vortice degli anni in cui i suoi connazionali erano considerati una minaccia all'integrità e alla stabilità del Paese.

 

Per esorcizzare il passato ha diffuso nel gennaio del 2008 una dichiarazione in cui è detto tra l'altro che i palestinesi in Libano debbono sottomettersi all'autorità dello Stato e che l'Olp s'impegna a rispettarne la sovranità. Ma è preoccupato. Nelle vicenda di Fatal Al Islam, il rappresentante dell'Olp vede interferenze straniere, forse siriane, e la mano di chi vorrebbe seminare zizzania nella regione. Nei confusi negoziati diplomatici delle ultime settimane fra Israele e la Siria, invece, vede il rischio che la questione palestinese finisca su un binario morto. E non può dimenticare, suppongo, che i campi sono focolai di rabbia, vivai di possibili reclutamenti. Sui muri di Shatila non ho visto le fotografie di Arafat e Mahmoud Abbas. Ho visto quelle dei «martiri » che combattono contro Israele nella Striscia di Gaza. Khalil Makkawi è un vecchio diplomatico, esperto, affabile, intelligente, già rappresentante del suo Paese a Roma e vice presidente dell'Assemblea delle Nazioni Unite. È copresidente con Zaki del Comitato per il dialogo libano- palestinese da quando il governo di Fouad Siniora, nel 2006, volle dimostrare che il Libano non aveva dimenticato i suoi sventurati «ospiti». Ma la sua maggiore preoccupazione in questo momento è il loro presente, non il loro futuro. Mi ha mostrato i progetti per la ricostruzione del campo di Nahr Al Bahr, spiegati sulle pareti del suo ufficio come nello studio di un architetto, e mi ha parlato della conferenza dei donatori che avrebbe dovuto tenersi a Vienna qualche giorno dopo per trovare il denaro necessario alla ricostruzione. Non basta. Si rende conto che occorre dare ai palestinesi il permesso di lavorare e non esclude che il parlamento libanese, più tardi, possa autorizzarli con una legge speciale all'esercizio delle professioni. Ma per il momento anche Khalil Makkawi, come il direttore dell'Unrwa, deve limitarsi ad amministrare l'esistente e a correggere per quanto possibile gli aspetti più inumani della vicenda. I rifugiati palestinesi in Libano sono la più piccola delle tre comunità insediate nella regione. Ma la natura del Libano rende la loro integrazione molto più difficile di quanto sia quella dei palestinesi in Siria e in Giordania. Dimenticando per un momento le obiettive difficoltà politiche, l'osservatore straniero non può fare a meno di ricordare che i coloni israeliani nei territori occupati sono oggi circa 400.000 mila. Se si è trovato lo spazio per i loro insediamenti perché non potrebbe esservi spazio, un giorno, anche per i 250.000 palestinesi del Libano? Separare la loro sorte da quella dei compatrioti più stabilmente alloggiati in altri Paesi potrebbero essere un segnale di buon senso, oltre che di umanità.