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Se ora l’Asia esporta inflazione

di Federico Rampini - 26/06/2008

 
 

 

Pechino rincara benzina e gasolio del 18% per i suoi automobilisti. I salari dell’industria tessile a Canton sono maggiorati fino al 20% in un anno. In India l’indice dei prezzi è balzato all’ 11%, un massimo da 13 anni, e per tentare di frenare il carovita la banca centrale è costretta ad alzare i tassi per ben due volte in un mese. Anche la banca centrale del Brasile lancia l’allarme inflazione.  

 

Sono notizie che sembrano giungere da lontano, in realtà hanno un impatto immediato sugli italiani.

 

C’è un nesso con la crisi dei consumi nel nostro paese. La globalizzazione gira al contrario. Per anni l’integrazione fra l’Occidente e le nazioni emergenti aveva migliorato il potere d’acquisto dei consumatori. Era il famoso "prezzo cinese" delle catene di ipermercati Wal-Mart: in America ha consentito alle famiglie meno abbienti di riempirsi la casa di lettori-cd, televisori ultrapiatti, cellulari e computer made in China. A prezzi sempre più bassi. Nei settori dove in casa nostra c’è una vera concorrenza anche i consumatori italiani hanno avuto dei benefici. Oggi il quadro si capovolge. Cina, India, Brasile, Russia, Arabia: le nuove potenze del XXI secolo stanno alzando i prezzi di ogni bene che esportano. La globalizzazione diventa una fabbrica d’inflazione.

 

Dietro questo capovolgimento non c’è un complotto ai nostri danni. La Cina e l’India sono vittime di questa congiuntura almeno quanto noi. La penuria di materie prime si abbatte su di loro come un vincolo stringente. Quando il colosso dell’acciaio cinese Baosteel è costretto ad accettare dai suoi fornitori australiani un raddoppio del prezzo dei minerali ferrosi, è chiaro che il potere contrattuale della Repubblica Popolare hai suoi limiti: la legge dell’offerta e della domanda si applica anche ai cinesi con una forza implacabile. La siderurgia cinese e indiana-ormai dominanti nel mondo - dovranno rifarsi sui loro clienti. S’innesca una catena di aumenti dei prezzi che coinvolge i settori industriali utilizzatori di acciaio, dall’automobile all’edilizia ai cantieri navali. Lo choc petrolifero - dal 2001 il prezzo è moltiplicato per sette - a sua volta ha ramificazioni capillari. Nell’industria chimica - grossa consumatrice di petrolio - la multinazionale americana Dow Chemical ha annunciato aumenti di prezzi del 25% in 160 paesi del mondo. Non era mai accaduto nella sua storia. Ogni prodotto che incorpora plastiche - dai pannoloni agli imballaggi- diventa un bel po’ più caro. Un terreno dove l’impatto del caro-petrolio è pervasivo è il mondo dei trasporti. Viviamo nell’era del container, lo scatolone d’acciaio che ha rivoluzionato i commerci mondiali abbattendo i costi per trasferire prodotti solcando gli oceani. Ma le navi bevono petrolio. Dall’inizio di questa crisi energetica il costo per portare un container da Shanghai alla California è salito del 150%. La divisione internazionale del lavoro che si è consolidata da anni era basata su tariffe di navigazione basse. Era il "mondo piatto" dove le distanze venivano cancellate. Per fare la portiera di una Chevrolet i viaggi erano impressionanti: il minerale ferroso navigava per migliaia di chilometri dai porti australiani o brasiliani al Giappone, dove veniva trasformato in acciaio, da lì la lamiera navigava alla volta degli Stati Uniti per essere assemblata a Detroit. Nel 2003 queste trasferte transoceaniche avvenivano ad un costo di 15 dollari per tonnellata trasportata su nave, e la tonnellata di minerale ferroso valeva 30 dollari. Già nell’autunno 2007 l’equazione era stata stravolta: 80 dollari il minerale, 90 dollari la navigazione. Oggi molte industrie sono costrette a rivedere una logistica studiata in un mondo completamente diverso. La distanza torna a essere un costo. Non a caso uno dei settori strapazzati sono le compagnie aeree: un giorno il termine "low-cost" evocherà il ricordo di un’età dell’oro tramontata; in America ormai il passeggero paga per un bicchiere di aranciata in volo.

 

I consumatori europei avvertono che l’inflazione è la nuova minaccia: nell’ultimo sondaggio dell’Unione europea il carovita ha superato la disoccupazione nelle priorità dei cittadini. Il ritorno dell’inflazione, che le nazioni emergenti ci trasmettono a ondate da tsunami, incrocia una congiuntura debolissima in Europa dove la crescita economica è asfittica. In America il carovita si impenna proprio quando sul potere d’acquisto delle famiglie si è abbattuta una mazzata: il crollo del valore delle case, la crisi dei mutui. Le banche centrali di Washington e Francoforte sono strette in una tenaglia. La medicina classica contro l’inflazione è la stretta monetaria. Ma alzando i tassi ora si rischia di affondare l’Occidente nella recessione. Una scappatoia furbesca dei banchieri centrali consiste nel fingere che l’inflazione non è un problema fino a quando proviene da materie prime importate; diventa una brutta bestia solo quando si ripercuote in una spirale salariale. E un tecnicismo con cui si traveste ipocritamente una verità crudele: se lo choc inflazionistico viene assorbito con un taglio del potere d’acquisto delle famiglie, ma i salari non recuperano questa botta, allora l’inflazione è una tantum e non diventa spirale incontrollata (spirale che vi fu invece negli anni Settanta per gli effetti della scala mobile). Ma nei paesi più forti, come la Germania, le tensioni salariali sono già in corso e la Bce "sparerà un colpo" la settimana prossima alzando i tassi europei di un quarto di punto. Ricette antiquate, del tutto inadeguate quando la febbre inflazionistica globale affonda le sue radici nella grande corsa alle materie prime scarse.