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ABC. La verde apocalisse di Schinetti

di Andrea Sciffo - 13/09/2008

 

 

 

L’arte è l’opera di chi acconsente a offrirsi perché possa affermarsi la vita, la quale però non è soltanto l’opposto della morte: è, piuttosto, la vita della vita. Come riconoscerla? Con l’esperienza paziente, all’improvviso e senza nessuna garanzia: quando la cogliamo anche solo per un attimo, ci regala una straziante dolcezza perché ricorda che siamo stati bambini innocenti; e anche quando gli anni accumulano vecchiaia, è sempre accogliente, pur durando un istante e ferendoci in profondità con le lame della bellezza o della disgrazia. La rabbia per una violenza subita e l’ansia di fronte alla prospettiva della tomba non sono materia d’arte: lo diventano, come piombo trasmutato in oro, se vengono convinte e segretamente confortate. Una cosa difficile da esprimere, se dimentichiamo subito i doni ricevuti. Siamo degli ingrati, infatti, e perciò non siamo artisti.

 

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Ribellandosi all’ingratitudine, perché preferisce la via della povertà ai ricatti di un Satana che spesso parla per bocche rispettabili, ha diabolico buon senso e «fa in nostri interessi», il vero artista si riconosce nel momento in cui la sua esistenza si svincola dalle paludi demoniache e ritorna alla realtà, cioè tende ad assomigliare a quella dell’Usignolo (o della Rosa) nella famosa favola di Oscar Wilde.

Dal 1986, compiuti i sessant’anni, Gianni Schinetti si offrì in pasto al proprio tempo come pittore: avendo iniziato a depositare su tavole di legno (le sue “tele”) il dolce strazio del colore percepito come vita della vita, il corpo della sua opera è ora steso alla maniera medievale, cioè per allegoria, a campiture a piena tinta che cercano una volta per sempre di ridare per immagini la consistenza del mondo. Le cui membra sono sempre distese e sacrificali: inermi come il neonato che dorme ignaro e indifeso nella culla, timorose come una gestante giunta al momento del parto o di un condannato che entra in cella di rigore, ingombranti come un cadavere morto di pochi istanti. È lì, presente, nel suo dramma simile a un fatto che non si può più ignorare, il corpus pittorico di Schinetti: il suo tirocinio è stata l’esistenza, dato che è giunto alla pittura dopo una vita spesa nel lavoro quotidiano per servire la patria in tempi di guerra e poi, reduce, nel crescere la famiglia, sulla soglia tra maturità e stagionatura; né potrà negare che abbia saputo attendere. Per questo, quando corona il suo lungo fidanzamento con la tavolozza e dà alle sue non più giovani mani la finale libertà di tentare di restituire quanto intravisto della vita della vita, quello che si genera è forma e colore, oltre qualunque intenzione. Come dal Cuore ferito sulla Croce «scaturirono sangue e acqua», similmente nella pittura i colori impongono da sé il proprio margine, quella che gli accademici chiamano la linea ovvero il disegno; la nascita della forma avviene alla maniera di un generare che trova sempre nella superficie il proprio bellissimo limite.

Non conta se Schinetti giunga tardi a realizzare la propria vocazione pittorica: conta che abbia alimentato il desiderio per lunghi anni, covando la quieta fiamma sotto una tiepida cenere; forse non è casuale che l’incipit avvenga in un anno decisivo nel macrocosmo così come nel microcosmo (ma quello della cronologia è un altro discorso, e del resto bellezza e disgrazia camminano sovente insieme). Da allora, per fortuna, abbiamo un nuovo pittore che nessuno attendeva, che nessuno si aspettava: semplicemente, sbocciò una stella alpina sulla roccia dove non arrivava la mano dell’uomo, dove nessuno poteva sapere di lei, tranne lo sguardo creante di chi portata alla vita. Da allora Schinetti va dipingendo la storia sacra dentro la storia profana: e un simile gesto è subito da lui donato, proprio mentre la Creazione dona se stessa gratis e resta in attesa di qualcuno che la apprezzi. Fare per immediatamente donare è l’atto paterno per eccellenza.

 

nel crescendo dell’apocalisse

Chi apprezza le cose, le sa possedere con rispetto e gratitudine: questo è il momento creativo,  fatto raro nel Novecento, dei dipinti di Schinetti. Per questi scorci aperti sull’altra realtà vale la parola della liturgia dei defunti che proclama che «la vita è trasformata, non è tolta».

Non può non esserci un certo terrore, un certo timore; e infatti sarebbe inumano rappresentare l’Apocalisse senza tremare della santa paura. Eppure, l’atto del dipingere non smette mai di essere anche riconoscente di essere vivo qui e ora e ancora, persino dopo il lungo laborioso travaglio dei giorni (va detto, prima o poi, che Schinetti ha partecipato in prima persona all’orrore della guerra mondiale: ha combattuto con la divisa della Decima MAS nella sanguinosa battaglia della selva di Tarnova, sul fronte orientale, nel febbraio del 1945, pagandone in seguito tutte le conseguenze politiche).

«Durante la mia permanenza in Abruzzo, dal 1988 al 1992» spiega «mi dedicai a una interpretazione pittorica, senza alcuna preparazione scolastica, della contemplazione dell’Apocalisse; ero sempre accompagnato dall’angelo che ispira Giovanni l’Apostolo. Quando questa presenza cessò di starmi accanto, non sono andato avanti nell’opera perché non si trattava più di figurare eventi contemplati, ma di sofferenza per la mostruosa presenza del male che si contrappone al bene rivelato». Perciò è artista non contemporaneo ai contemporanei; lo si può verificare osservando nell’insieme il suo dipinto a commento del Capitolo Primo :

 

Io sono l’alfa e l’omega, dice il Signore. Ora mi voltai e vidi sette candelabri d’oro ed in mezzo uno simile a figlio di uomo. Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli mi disse, posando su di me la destra: Non temere, io sono il primo e l’ultimo e il vivente.

 

Questa didascalia è indispensabile per comprendere l’impossibile omologazione dell’arte di Schinetti ai surrealismi o alle avanguardie (e infatti, l’autore allega i versetti sacri al quadro quasi fossero titoli): per indicare che l’incontro tra l’Io divino che si manifesta e l’io personale è una cosa che capita. Cioè, l’esatto opposto dell’arte moderna, alla quale tutto avviene come se capitasse ad altri, a terzi, sicuramente non a se stessi, perché già lo aveva sancito Rimbaud per tutti: io è un altro.

 

(opera 1)

 

Guardiamo l’opera, invece: in basso a destra nel dipinto, la pianura feconda del mondo terrestre verdeggia pur sotto la minaccia del fuoco siccitoso e distruttore, a indicare che la linea di terra non perisce nemmeno nell’eternità; al centro della scena, la figura dell’Apostolo prostrata, sfinita, atterrata e perciò tinta del marrone aere bruno dell’infernale dantesco, dell’atmosfera merdosa di tanto Novecento; sopra, l’oro che fiorisce nel verde, cioè la figura di colui che non osiamo ricambiare perché ci ama gratuitamente. I famosi candelabri sono qui trasfigurati in alberi dorati, a sottolineare ancora una volta che in Schinetti è riscoperto il mistero vitale dell’unione di vegetale e igneo.

Ci sono due rilievi da fare: primo, che soltanto l’opera di Oscar V. Milosz (quasi inedita in Italia) e gli scritti di Louis Charbonneau-Lassay potrebbero soccorrere chi volesse percorrere il sentiero apocalittico in bilico/equilibrio tra cattolicesimo ed esoterismo; secondo, che esiste una appropriata colonna sonora di queste opere d’arte dato che, senza troppi sforzi di empatia, possiamo sentirne nel contempo i silenzi e le sinfonie e le melodie. Il ruolo della musica in questa pittura (come negli scritti di Milosz) è immenso; e Bach, Mozart, Rachmaninoff e la tradizione corale liturgica russa a ritroso sino al Canto Gregoriano sono qui esplicitamente presenti come aspetti del grandioso. Ma straordinaria è l’aria di silenzio che si soffonde, perché quello che viene raffigurato è un suono sacro e quindi parla nell’intervallo muto tra una nota e l’altra.

 

tutto quel che cresce, verdeggia

L’io davanti all’infinito: questa relazione antichissima e sempre nuova è però una relazione cristiana, nel senso che è intima e ininterrotta. Ovvio, dei due amanti l’unico fedele è quello Divino perché è l’innamorato perpetuo; eppure, in qualche modo tutti i quadri di Schinetti vanno a comporre una risposta bellissima al nostro amare tiepido poiché sono il gesto di un uomo maturato nelle avversità però sempre commosso, come chi sia finalmente sul punto di rivedere i suoi cari dopo una straziante separazione. Si chiama gioia una simile sensazione, denominata un tempo (oggi la mediocrità tutti ci travolge) con il bel nome di una virtù: la speranza. Verde è il colore di chi cresce e perciò acconsente a passare da questa vita: verdi «come fogliette pur mo’ nate» sono le ali degli angeli nel Purgatorio dantesco; gli stessi angeli che dalla loro dimora fuori del tempo hanno visitato il pittore, nel suo tempo. Ecco da dove viene il suo verde.

Che il verde sia il colore per definizione, lo testimonia il nostro occhio, che ne percepisce con grande facilità ottica una gamma quasi infinita, superiore a ogni altra tinta dello spettro cromatico; ma il verde-Schinetti gocciola dal pennello concretizzandosi in una tonalità di attesa (nelle sue figure, quando sperano resurrezione) o di sogno (nelle scene che rifuggono dagli incubi di questo mondo, malvagio poiché non crede nel Giudizio) o infine di rivelazione: quando proclamano a chiare lettere che il Creatore ama le sue creature così come un padre e una madre amano sempre i propri figli, malgrado tutto. Qui, il verde-Schinetti rivela la sua natura di combinazione, di colore coniugale perché si congiunge con il rosso, unendosi a lui per opposizione e rischiando l’abisso della perdizione (rossoverde è l’abbinamento diabolico del Drago contro cui combatte, vittorioso, l’arcangelo Michele): ma dal connubio, superata la crisi, ha origine la fecondità. Dall’abbinamento ecco quindi nascere quei toni giallo-arancio che dalla tavolozza impastano l’opera per sottolineare la linea della vita, l’orlo dorato della luce, la morbidezza dei corpi viventi: è sorprendente, se poi si pensa che il colore di Schinetti deriva dalla pietra mistica per eccellenza, dal diaspro, un sasso prediletto dall’Altissimo per il suo trono, e che offre gli aspetti cangianti del rosso, del giallo intenso, del bruno e del verde.

Dalle nozze tra verde e rosso si genera l’iride gloriosa e solenne, tutto l’inventario delle tinte umili e docili all’esistenza, come il neonato necessita di un parto cruento. In Bosco d’autunno (1988), la vallata in primo piano si orienta a nord, ai paesi felici iperborei sopra i quali incombe comunque un cielo turchino, di nubi che scuriscono mentre in alto si scorge il sereno, angelico; davanti all’inquadratura, il lembo di foresta s’incendia visitato dalla stagione e dal suo sole contento: si sa che in ottobre gli alberi indossano una livrea piena di gratitudine verso i raggi solari.

 

(opera 2)

 

Così Schinetti ferma col pennello un lungo istante e trasforma un paesaggio come tanti altri in una contrada, dove la vita corporale si manifesta, brulica, viene accolta, permane in un tempo che non sarà il nostro tempo. La nostra mortalità viene quindi rammentata senza le angosce dei moderni, piuttosto con la speranza (verde, appunto, ma tonale) che accompagna gli uomini viventi in una dimensione semplice e arcana, come i contadini di ieri o la massa degli sconosciuti di oggi, che si affidano senza troppi proclami all’amabile abbraccio del loro destino; un tuffo, un attimo di timore, un ricongiungimento e così si è cambiati senza essere diversi.  La metamorfosi è sempre opera di Dio se la si accetta fiduciosi, e in questo dipinto risalta nel trasmutare delle foglie, dentro le quali la verdeggiante clorofilla ha lasciato luogo al giallo squillante oppure al rosso che scurisce verso il bruno: gli uomini di città fanno spazzare via le foglie accartocciate o mezze marce, a fine novembre, e per questo hanno perso la saggezza. «Nella stagione autunnale, la natura sembra un caos di colori» afferma Schinetti, «ma in verità è una armonia di accostamenti nei quali predominano il giallo solare, il rosso e il bruno. Allora viene il desiderio di perdersi, di abbandonarsi fra quei colori che solo una mano non umana può dare. Una preparazione alla preghiera dell’inverno. Così si preparano i grandi silenzi di quella notte che ha visto nascere il figlio di Dio».

Anche un poeta come Hölderlin si lasciava dominare da questa musa ispirante, duecento anni prima, se intitolava decine di poesie allo stesso modo: veduta. Nel quadro di Schinetti tuttavia la radura in primo piano digrada vergine verso un villaggio che c’è ma non si vede, come la pace in terra; al centro, domina il bosco, nella famiglia cromatica dei suoi tre colori fertili, e però risalta una misteriosa figura bianco-candida che invita a passare di là, un indecifrabile graffito preistorico, attendibile nella sua indicazione: la direzione è di certo quella. Sullo sfondo, la mole verdescura della valle chiude lo scenario per ricordare che la prospettiva del destino tende all’infinito ma si incarna adesso e qui.

 

La gioia è un colore che sanguina

Il rosso incarna la vita provandola e tastandola. Poi però si eleva verso regioni inaccessibili al tatto: è la tinta sanguigna del Sacro Cuore che sconfina negli spazi aerei dove san Giovanni riferisce di aver visto Dio in Cielo e «Colui che stava seduto era simile nell’aspetto a diaspro (verde) e cornalina (rossa). Un arcobaleno (iride) simile a smeraldo (verde) avvolgeva il trono» (Apocalisse 4,3). L’Apostolo però rimane sospeso in alto insieme alla sua visione laddove l’artista deve, suo malgrado, ritornare al mondo: per esempio, Schinetti sognò di stare su una barca.

Quaggiù, una volta approdati, ci si imbatte in una legge inesorabile: che il tempo passa, invecchia i corpi, li svigorisce e ne provoca la morte. Ma c’è chi ha trionfato sul tempo, e il pittore condensa la tinta sciogliendola dalla veste rosseggiante indossata da Cristo, re per pochi momenti prima del Calvario, incoronato di spine, sbeffeggiato: mentre gli sputavano in faccia. È questo quel rosso che le foglie assorbono per la fotosintesi clorofilliana: appaiono verdi perché trattengono il rosso nel nucleo, nella polpa (qui il paragone con l’anguria o cocomero è banale ma illuminante, se si ricorda che Proserpina/Persefone è legata all’altro mondo perché ha mangiato un chicco di rossa melagrana). In natura, però, nulla permane a lungo nel suo aspetto giovanile: il verdeggiare e il rosseggiante decadono nel bruno, di nuovo, cioè nel giallo unito al nero del tempo, nel marrone della carne morta che imputridisce. È l’autunno cristiano, che si regola sul ciclo ripetuto dell’anno liturgico: l’ultima stagione del tempo ordinario (verde) si chiude col trionfo festivo di Cristo Re (rosso); come si legge sul portale di un convento medievale: il tempo che passa è Gesù che viene. Infatti, la maturazione fisica avviene altrove rispetto a quella spirituale, anche se segue una legge cromatica analoga a quella della frutta e della verdura: il frutto acerbo matura arrossendo al fuoco solare del tempo «per portare molto frutto». Anche Shakespeare adombrava questa legge divinoumana quando fece affermare a Re Lear (V,2) che la maturità è tutto.

Schinetti l’ha raggiunta, come molti altri, a caro prezzo cioè rispondendo colpo su colpo alle gioie dell’esistenza. «Non ho voluto seguire alcun corso di pittura» ammette, «per non farmi influenzare da scuole o seguire dettami precostituiti»; sembra di sentire, con miglior grammatica, i diari di Segantini. «E nemmeno seguire tentativi naïf. La mia prima fase è stata di capire quella legge non scritta che comanda i colori della natura… ho fatto molti quadri di fiori o di paesaggi per comprender ciò che dava luce, anche alle ombre. Poi ho studiato molto la pittura medievale per togliermi qualsiasi tentazione di sceneggiature a volte anche retoriche». Difatti, Schinetti compie un libero adattamento di una Ascensione di N.S. Gesù Cristo da una miniatura del XV secolo, che è un perfetto esempio di macrocosmi nel microcosmo, come in ogni capolettera dei codici di quell’epoca, ma con pennellata contemporanea. Rivive qui la viriditas di santa Ildegarda di Bingen: la linfa vitale che irrora e che anima tutta la Creazione, e deriva dalla forma divina del cielo come la sinfonia dall’armonia.

 

(opera 3)

 

Questo è l’ambientalismo cristiano del pittore: per lui, il rispetto (= re-spicere, “guardare” nel senso anche di “avere riguardo”) del Creato riecheggia in una voce che fa melodia sul versetto composto tredici secoli fa da Aelredo di Rielvaux: «tutta la dolcezza della terra». Bisogna però ricordare come la frase andava a terminare: «è l’amore di Cristo». Così benedetta, perché ricondotta all’origine, la materia del mondo ricomincia a sorridere.

 

paradiso (e inferno) a partire dalla terra

La vita terrena non sarebbe né una sosta dentro un giardino beato né un massacro perpetrato tra megalopoli e cantieri, se l’uomo non si fosse dimenticato che essa è un pellegrinaggio verso un punto dello spazio e del tempo, che però ignoriamo: «allora ci sarà una luce nuova che nessun pennello potrà figurare oltre le presenze immobili nel loro canto gregoriano, figure ieratiche che attendono il gesto ultimo del giudizio», dice Schinetti di fronte al suo quadro sul Capitolo Ventunesimo. Lì le linee si curvano in riccioli e onde, per descrivere possibilmente la danza felice dell’universo che ha sentito il proposito finale di Cristo: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Apocalisse 21,5); ma il cosmo ondeggia contento anche nel dipinto del ciclo a commento dell’Ave Maria, intitolato Il Signore è con te. E in altra sede, si dovranno analizzare anche gli altri versanti dell’opera di Schinetti, permeati della medesima energia santa: gli affreschi sul muro di un capanno in Abruzzo (1989) e il ciclo di visioni telescopiche dell’universo astronomico, tra pianeti, stelle e galassie (2004).

Per ora può bastare la soddisfazione per il fatto che la storia abbia suscitato ancora incontri fatali: ricordiamo che nel 1945 Gianni Schinetti fu prigioniero di guerra nel campo di raccolta di Coltano (Pisa) dove un giorno, guardando dentro una recinzione più angusta della sua, egli vide un uomo magro e barbuto: era l’americano Ezra Pound, il poeta senza usura che aveva osato agire per un mondo che non fosse contro natura. I due ovviamente non si dissero niente: non fu nemmeno un incontro nel vero senso della parola; ma alla provvidenza basta pochissimo. Quarant’anni dopo, impugnando il pennello, da qualche parte nel profondo esisteva ancora quel giovane soldato italiano sconfitto che era stato, un tempo; e poteva così riprendere il discorso interrotto un secolo prima, se è lecito comparare i grandi ai piccoli, da Van Gogh che nella lettera a Theo dell’8 settembre 1888 affermò: «ho cercato di esprimere con il rosso e con il verde le terribili passioni umane».

 

Ultima cosa rilevante è l’assoluta assenza di finzione, nel senso evangelico cioè secondo quando Gesù predicava: «quando vedete il ramo del fico…». Diversamente dallo sguardo ipocrita che nega a se stesso di aver compreso i segni dei tempi, la pittura di Schinetti si arrende all’evidenza: i suoi occhi sono glauchi come quelli della dea Minerva, e non possono tacere l’imminenza della catastrofe, come si ammira nel quadro relativo al Capitolo sesto sui quattro cavalieri dell’Apocalisse. Qui i due colori dominanti si incrociano sfidandosi a morte, e il cavallo verdastro riassume alla fine del tempo tutto il verde del mito e della storia: la pelle di Venere e di Osiride, Erin l’isola beata dei celti, l’Oro verde degli alchimisti; il destriero rosso adultera la tinta della Passione, in un estremo tentativo di ridurre al nulla l’essere. Ma il destino per l’arte di Schinetti è il conforto con il volto amico del mistero, il Miracolo: per questo la sua tavolozza imbrunisce,  per umiltà e commozione, devota al miracolo Eucaristico di Lanciano, là dove il cielo scende in terra facendosi carne rosseggiante, scurita ma incorruttibile.

 

(opera 4)

 

Il punto di vista di questi dipinti (olio di lino, su uno strato di cementite steso su legno) passa per le dimensioni di 50 x 70: “le stesse misure della finestra della cella di padre Pio”. Attraverso un simile periscopio, la realtà appare totale perché è personale: tutto quello che nasce, è destinato a crescere rigoglioso, in questa o nell’altra vita, recita il teorema nascosto nella pittura schinettiana. Lo si vede una volta per tutte nel suo Albero della vita dove dagli incubi del male quotidiano è possibile uscire perché il labirinto ha una via d’uscita, ed è una prospettiva in linea retta sotto gli alberi, per esplodere infine in alto, nella libertà dei figli di Dio. Anche Schinetti, del resto, come i pittori medioevali, dipinge di verde la Croce di Cristo: un legno morto che viene di nuovo reso vivo, un tronco che esce dalla terra per germogliare nell’aria; l’arbor vitae è stato crocifisso per risorgere altrove.

Il cielo e lo sfondo di questi quadri segnalano un aldilà, dove voce e corpo subiranno un desiderabile e sconvolgente mutamento: si può anche chiamare morte tale passaggio alla vita della vita. In quel giorno, questo vecchio pittore modenese di Nonantola entrerà (senza tavolozza) nel mistero, scoprendovi l’Amico tanto atteso, con cui proseguire il discorso come «un andare continuo nelle profondità senza abissi».

 

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