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Il dopo Olmert e il pericolo di aggressione di Israele all'Iran

di Claudio Moffa - 22/09/2008

Fonte: claudiomoffa

 

Per Rabin una pallottola mortale, per Sharon un ictus, per Olmert una inchiesta giudiziaria: è un dato di fatto che ogni volta che negli ultimi vent’anni è emersa in Israele una tendenza "realista" – sia pure quasi sempre preceduta da opzioni belliciste degli stessi personaggi: lo Sharon di Sabra-Shatila e della provocazione della spianata delle moschee; l’Olmert dell’aggressione al Libano nel 2006 - è capitato qualcosa che ha fatto riprecipitare lo Stato ebraico verso nuove avventure militari.

Beninteso, i tre casi sono differenti: nell’assassinio di Rabin è possibile intravvedere un vero e proprio complotto dei settori ultras dell’establishment israeliano contro il firmatario della “pace di Oslo”; la malattia di Sharon è stata invece una coincidenza fatale, tranne forse per l’ebraismo estremista che vi potrebbe aver visto una sorta di punizione divina contro un traditore del dell’aberrante “sogno” del “Grande israele”; quanto all’inchiesta contro Olmert, qualcuno potrebbe parlare - come spesso si fa in Occidente quando la magistratura si occupa dei politici - di giustizia ad orologeria. Ma si tratta solo di congetture senza prove.

Nel dubbio, una cosa è certa: l’immobilismo e poi le dimissioni di Olmert hanno “liberato” e stanno liberando il mai sopito attivismo dell’inossidabile partito della guerra israeliano: un primo forte segnale lo si è avuto con la crisi della Georgia, dove analisti faziosi o distratti hanno fatto finta di non sapere che il ministro della Difesa di Tblisi è un ebreo (anche) israeliano: da cui la verosimile ipotesi che la guerra scatenata dal presidente Shakasvili, al di là degli inquietanti risvolti psicologici della sua persona, era finalizzata a minacciare non solo a nord la Russia, ma anche, a sud, l’Iran (1). La sconfitta o l’arretramento della prima sarebbero stati – in base ad un accordo fra Tblisi e Tel Aviv - l’anticamera dell’accerchiamento del secondo, attraverso una batteria di missili puntati contro Teheran in vista dell’attacco “finale” a Ahmedinejad.

Gli è andata nuovamente male a Israele, come in Libano, e questa volta non per la forza "nuova" di un movimento di liberazione come gli Hezbollah, ma per quella ritrovata di uno stato, la Russia: Putin ha infatti reagito con fermezza, da cui il suo ennesimo successo – la statura di statista di altissimo profilo del primo ministro russo è ormai negata solo dai circoli mediatici-intellettuali filoisraeliani presenti trasversalmente in tutto l’Occidente (2) – e una nuova déblacle per Israele e la sua dirigenza. La sconfitta in Georgia è un nuovo, "storico", colpo inflitto all'arroganza di Israele.

Ma pensare per questo che il mostro bellicista sionista lievitato in modo abnorme dopo la fine del bipolarismo e soprattutto dopo l’11 settembre, sia debellato, e che la difficile transizione post-Olmert sia sicuramente indirizzata verso una politica non dicesi di pace, ma di rinuncia alle minacce costanti contro palestinesi e iraniani, sarebbe ingenuo. La Livny ha vinto le elezioni primarie, e viene dipinta come l’Obama israeliana: ma posto che ciò sia vero, e posto che Obama sia quel fior di pacifista che viene talvolta descritto, la strada di un definitivo stop ai piani di aggressione all’Iran è ancora lastricata di ostacoli.

I segnali e i dubbi sono in effetti molteplici: nel maggio scorso il discorso per metà utopico e per metà mistificatorio tenuto dal ministro degli esteri di Tel Aviv a Doha nel maggio scorso andava comunque nel senso di un accerchiamento e isolamento dell’Iran – “uniamoci, arabi e israeliani” contro il “comune” nemico persiano, dichiarava in quella sede la Livny. Quanto al governo da formare, non è detto che l’erede di Olmert ci riesca, e già si parla della possibilità di elezioni anticipate. Basterebbe poi - con o senza nuove elezioni - un qualche evento-bomba opportunamente amplificato dai media occidentali per dare via libera effettiva – oltre quella formale data dallo stesso Bush qualche mese fa a Israele – all’aggressione dello Stato ebraico contro Teheran. Le diplomazie europee dunque non possono accontentarsi del primo round delle primarie del partito Kadima: a meno di voler chiudere gli occhi come hanno fatto quasi sempre nelle crisi mediorientali, a tutto danno della pace e degli interessi non solo del Medio Oriente ma degli stessi popoli europei.

Claudio Moffa

PS: Leggo un articolo del Jerusalem Post del 14 agosto, in cui - a commento della débacle georgiana - si invita Israele a difendere i propri interessi utilizzando il proprio esercito, senza far affidamento su possibili alleati. Questo vuol dire che a Tel Aviv c'è ormai coscienza che non solo la scalcinata Georgia, ma anche la superpotenza americana non accetta più volentieri di far guerre - come in Iraq 1991 e 2003 - per conto e negli interessi dello Stato ebraico. Ma vuol dire anche che, nonostante la Georgia e il Libano, nonostante le difficoltà con la Turchia, c'è ancora qualche Dottor Stranamore che sogna in un modo o in un altro una qualche "soluzione" bellica per il bene della patria: "Georgia only made one mistake ... it forgot to build an army. Israel has an army. It has just forgotten why its survival depends on our willingness to use it.
If we are unwilling to use our military to defeat our enemies, we will lose everything. This is the basic, enduring truth of international affairs that we have ignored at our peril..." ( caroline@carolineglick.com, JP, 14 agosto 2008)

(1) Vedi il dossier sulla Georgia pubblicato qui sotto.

(2) Senza considerare il ruolo interno di Putin - sconfitta dell’oligarchia finanziaria dei tempi di Eltsin, opposizione ferma contro il terrorismo ceceno sostenuto da Berezovsky - basta leggersi il discorso di Monaco del maggio 2007 per capire quanto illuminata sia la politica del primo ministro russo (Il testo del discorso, e un mio commento in Eurasia 2, 2007).