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Un film al giorno: «Maria Zef» di Vittorio Cottafavi

di Francesco Lamendola - 29/09/2008

 

 

Tratto dal toccante romanzo di Paola Drigo, Maria Zef di Vittorio Cottafavi è un film molto bello, che andrebbe visto per capire a fondo certi aspetti dell'anima carnica e friulana, così come I Malavoglia di Verga ci introducono nel cuore dell'anima siciliana, o come L'albero degli zoccoli ci trasmette la fragranza del vecchio mondo contadino lombardo.

E ciò a dispetto del fatto che Carnici e Friulani, sia davanti al romanzi di Paola Drigo (vincitrice del Premio Viareggio nel 1937), sia di fronte al film di Cottafavi del 1981 (che aveva avuto un precedente con la pellicola del 1953 di Luigi De Marchi Condannata senza colpa), abbiano reagito, in un primo tempo, in maniera decisamente negativa, come se avessero visto la loro terra ridotta allo stereotipo dell'alcolismo e dell'incesto.

Strano destino, per un film che Cottafavi - con intelligenze e coraggiosa intuizione - volle parlato interamente in friulano, con i sottotitoli in italiano; ma, in fondo, lo stesso destino che era già toccato a un altro bellissimo film dedicato alla terra friulana, alla sua aspra solitudine e alla sua pudica malinconia: Gli ultimi di Vito Pandolfi e David Maria Turoldo, del quale ci siamo già altra volta occupati.

Decantata, con il tempo, la prima, istintiva reazione difensiva, alla fine anche i Friulani si sono accorti che né il romanzo, né il film sono diretti contro la loro civiltà; ma che, anzi, costituiscono una preziosa chiave di lettura per comprendere un certo aspetto di essa, peraltro legato a particolari circostanze storiche e geografiche.

Il mondo della Carnia, alla fine dell'Ottocento e ancora ai primi del Novecento, era un mondo indubbiamente arcaico e affascinante, ma anche attraversato da terribili tensioni sociali - ancorché poco evidenti, perché mai gridate e sbandierate - legate alla sua condizione di area depressa. Un mondo aspro e isolato che, se la penna di Giosué Carducci poteva rappresentare con gli stilemi classicheggianti della fiaba didascalica (ne Il Comune ristico), era, in effetti, talmente povero ed emarginato, da divenire terreno di studio psichiatrico per medici e scienziati di robusta fede positivista, come avvenne nel caso delle cosiddette indemoniate di Verzegnis (cfr. F. Lamendola, Le indemoniate di Verzegnis del 1878-79: un caso che sfida la «scienza psichiatrica», consultabile sul sito di Arianna Editrice). Un mondo così povero e dimenticato, da offrire, alla popolazione, che non era in grado di sostentare, la sola alternativa dell'emigrazione, mentre interi paesi delle valli più isolate venivano abbandonati e diventavano dei villaggi fantasma (cfr. F. Lamendola, Una pagina al giorno:  Così muore un paese, di Alcide Paolini, sempre sul sito di Arianna).

Ma quello di Paola Drigo è un gran bel libro, e quello di Cottafavi un gran bel film (prodotto da Rai Tre e mandato in onda in due puntate); l'uno e l'altro avrebbero meritato un successo ben maggiore di quello che hanno avuto, per ragioni contingenti: il primo perché «stroncato» dallo scoppio della seconda guerra mondiale; il secondo, perché annegato nel gran mare consumistico della produzione cinematografica più banalmente volgare.

Eppure, secondo il Morandini,

 

Cottafavi ha messo la storia di Mariute e Rosute in immagini chiare e distinte di classica trasparenza sotto il segno di una profonda e controllata compassione.

 

Mentre, per il Mereghetti,

 

Ambientato agli inizi del secolo, [il film è] un ritratto aspro e sofferto di una povera famiglia carnica devastata dalle piaghe della miseria e dell'incesto, che Cottafavi - al suo ultimo film - racconta giocando sul contrasto tra la sensualità del paesaggio (ripreso nelle varie stagioni dell'anno) e la rassegnata sopportazione di chi sa di non poter cambiare vita («se il Signore è venuto al mondo», dice Barbe la notte di Natale, «io non me ne sono accorto»).

 

La trama della vicenda è presto detta.

Dopo la morte della madre,  la quindicennne Mariute (Marietta) e la piccola Rosute (Rosetta) vengono dapprima ospitate in un convento di suore, poi accolte nella baita dello zio, Barbe Zef, il quale, mentre la sorellina è ricoverata in ospedale, abusa di Mariute.

Per l'uomo, dedito anche al vizio del bere, specialmente nelle lunghe sere d'inverno, quando la baita è quasi isolata dal resto del mondo, si tratta di un fatto che fa parte delle cose che accadono e che non si devono drammatizzare, perché - in qualche maniera - sfuggono al controllo degli uomini e dipendono dal destino (una sorta di «naturalizzazione dei fenomeni sociali», così come è presente nel Verismo di Giovanni Verga).

La tragedia aleggia lungamente su quella povera umanità avvilita e offesa, immersa in una miseria che non è solo materiale, ma anche morale; interrotta, qua e là, da alcuni momenti di effimera dolcezza, quasi di idillio, che sottolineano il cupo torreggiare del dramma imminente.

Tra questi momenti di pausa, vale la pena di sottolineare il breve idillio fra Mariute e il giovane Pieri, che, per un attimo, sembra schiudere una prospettiva di felicità, o, almeno, di un'esistenza serena per la ragazza carnica; e la presenza affettuosa degli animali, a cominciare dal cane Petòti, che è stato paragonato ad uno spirito benigno sempre presente.

Mariute, però - che, a partire da quella notte fatale, deve subire regolarmente la violenza sessuale dello zio, sforzandosi almeno di preservare l'innocenza della sorellina, ritornata alla baita -  finisce per scoprire che le stesse violenze, prima di lei, le aveva già subite sua madre, e che esse erano all'origine della sua morte; e, a quel punto, sente crescere in sé un sordo desiderio di ribellione, che esploderà ella capisce quando lo zio, ben presto, metterà gli occhi anche su Rosute. Afferrata una scure, ucciderà Ballora arbe Zef per difendere la sorellina e, forse, anche per vendicare lo spirito di sua mamma, andando incontro all'inevitabile castigo della legge.

Eppure, la nota dominante della vicenda, sia nel romanzo che nel film di Cottafavi, non è data dall'odio o dal rancore di  Mariute, ma da un intenso, struggente sentimento di pietà per questi «vinti», e anche di pietà di essi stessi per la propria sorte, che pure accettano con sconsolata rassegnazione. La giovane Mariute, in particolare, pur così maltrattata dalla vita, non odia nessuno nel vero senso del termine, neppure lo zio che la violenta sistematicamente, perché comprende che anch'egli, in fondo, non è che un povero disgraziato, uno straccio d'uomo travolto dalla solitudine, dall'ignoranza e dal vizio del bere. E, quasi certamente, non arriverebbe mai a compiere il gesto estremo contro di lui, se non si trovasse, alla fine, a dover fare i conti con una prospettiva intollerabile: quella di vedere la sorellina degradata allo stesso modo in cui lo è stata lei stessa e, prima di lei, la loro madre.

Mariute sa di non avere alternative, anche perché, a causa di una malattia, sta per lasciare la baita, e sa che la sorellina rimarrà sola con lo zio. Lo zio? Ma è proprio suo zio, o non piuttosto suo padre? Un pensiero che le dà le vertigini assale Mariute, la sconvolge: la somiglianza fisica di Rosute con Barbe Zef; il fatto che ella era nata quando il marito della mamma era lontano. Di colpo, tutto diventa chiaro: Rosute è la figlia di Barbe Zef; e, se lui vorrà abusarne, incattivito dal vino e dalla solitudine - come certamente, una volta o l'altra, avverrà nella baita isolata sui monti dalla neve alta -, la violenza sarà due volte peggiore: sarà un incesto del padre con la figlia.

No, a questo pensiero tutto l'essere di Mariute si ribella, fremendo; ed ella trova il coraggio disperato di por fine, con la violenza, a quella catena di continue violenze.

 

Riportiamo la scena finale del romanzo di Paola Drigo Maria Zef (Garzanti Editore, Milano, 1982, pp. 189-193):

 

Dopo avergli apprestato la cena, ella passò nella stanza da letto e cominciò a tirar fuori la sua roba.

Il suo corredo non consisteva che in un altro casacchino e in un'altra gonna del tutto simili a quelli che aveva indosso, e appena appena un po' meno logori. In più possedeva il vestitino da lutto che le signore dell'ospizio le avevano regalato prima della partenza.

Per scendere a Belluno avrebbe potuto mettere quello; ma quale biancheria avrebbe portato, se non aveva che due camicie tutte toppe e rammendi, che facevan vergogna?

Sulla roba di sua madre non c'era da contare: di buono non c'era che lo scialle: il rimanente era costituito da cenci ancora più lisi dei suoi.

Aperse nondimeno il cassone, ed uno per uno prese in mano, guardò e spiegò anche quei poveri panni. Avevano la rigidezza, il colore e l'odore che hanno i vestiti dei morti; ed ella li prendeva, li osservava lungamente, li posava, li riprendeva di nuovo…

In realtà non si rendeva conto ella stessa dei suoi movimenti, non pensava affatto a quello che faceva; da qualche ora era completamente fuori di sé. Sapeva soltanto che se all'improvviso le avessero annunciato che sua sorella era morta, avrebbe provato minore angoscia. Tutto il suo essere urlava, spasimava: «Rosùte no! Rosùte no!».

Ad un tratto, in un angolo del cassone le sue mani urtarono nella bottiglia di grappa che il giorno stesso del loro ritorno alla baita dopo la sosta all'ospizio aveva scoperto nel pagliericcio del letto e, avvolta in un cencio, aveva nascosto in mezzo alle sue robe. La prese e la guardò: era quasi a metà piena ancora di grappa.

Pochi mesi dal giorno in cui aveva trovato e nascosto quella bottiglia!…Pochi mesi, ed un tempo e uno spazio infiniti…Benché allora avesse perduto da così poco sua madre, quanto, quanto, allora, era meno infelice di oggi! Poteva ancora sperare, credere, avere fiducia… Allora non era malata; allora aveva Rosùte!

Il pensiero della sorella le trafisse nuovamente il cuore come una pugnalata.  L'indomani a quell'ora la piccola sarebbe stata sola alla baita con Barbe Zef…Avrebbe molto sofferto e pianto in principio, senza di lei; poi, le settimane, i mesi, sarebbero passati, e si sarebbe abituata… Finché un giorno sarebbe venuto - ella ne era certa! - come era venuto per la mâri, come era venuto per lei… Un giorno…

Ma… Rosùte di chi era figlia?… di chi? Quando era nata, il vero marito della loro madre, Gaspari Zef, non era più con loro… ma la donna della Malga Varmòst aveva parlato soltanto di maternità soffocate, soppresse… Perché non l'aveva interrogata? Perché non aveva osato affrontare la verità fino in fondo?… Ma certo Rosùte gli assomigliava; aveva la sua pelle lentigginosa, i suoi capelli rossi… Come mai non l'aveva notato prima? Come mai non se n'era accorta? Sì, sì, Rosùte era il ritratto parlante di Barbe Zef!…

Il dubbio, che non per la prima volta in quei giorni le si affacciava, come un aspide la morse nuovamente e atrocemente… Se fosse!…

Si sentì allora così profondamente agitata da non reggersi in piedi; e colle mani si compresse il cuore, ché le pareva che i suoi battiti si potessero udire al di là della parete.

Passò così qualche tempo. Frattanto Barbe Zef stava ungendo le scarpe e preparando le racchette per la traversata di domani.

Quando ella rientrò in cucina, era pallidissima ma tranquilla e, tenendo la bottiglia tra le mani, andò direttamente a lui e gliela posò davanti.

«Che è?» fece egli. «Grappa? Dov'era? E quando l'hai trovata?».

«Nel pagliericcio del letto, In questo momento», mentì Mariutine.

L'uomo, presa la bottiglia, la riconobbe, la stappò, l'annusò. La tentazione era forte, ma la paura lo rendeva sospettoso.

«E tu, non ne berresti un dito?», chiese guardando fissamente Mariutine.

«Se me lo date», rispose ella.

Egli le stese la bottiglia perché vi attaccasse la bocca, ma a metà strada cambiò pensiero.

«Prendi una scodella», le disse.

Mariutine obbedì, ed egli stesso le versò la grappa.  Ella bevve la grappa fino all'ultima goccia, e gli restituì la scodella vuota. Completamente rassicurato, egli colla mano la respinse, attaccò la bocca alla bottiglia e ne tracannò un buon sorso.

«Basta», disse, riposandola sulla tavola. «Non si beve, alla vigilia del giorno in cui si deve camminare. E tu, va' a dormire».

Ella lo lasciò solo; accostò l'uscio senza chiuderlo, si tolse le scarpe, e scalza, al buio, addossata alla parete, rimase.

Di tratto in tratto si appressava senza rumore alla fessura dell'uscio e spiava di là. Vedeva con angoscia l'uomo sempre allo stesso posto, davanti alla bottiglia che a poco a poco, malgrado i proponimenti, andava vuotandosi, ma sempre sveglio, sempre padrone di sé, sempre con gli occhi aperti. Le ore passavano, l'alba forse non era lontana, l'ora di lasciare la baita, l'ora di partire…

Finalmente egli cominciò a parlottare da solo, a borbottare, a raccontarsi delle lunghe storie sconclusionate… Ella seguì coll'orecchio lo spostarsi della panca, i passi incerti, lo scricchiolare del pagliericcio su cui si distendeva. E poco dopo un russare profondo.

Ad occhi sbarrati, livida,  lasciò passare ancora del tempo e del tempo. Dalla cucina  sempre lo stesso regolare respiro… ore, minuti, secondi?…

Una strana calma era discesa su di lei. Bisognava anzitutto che Petòti non abbaiasse. Ma Petòti per lei non avrebbe abbaiato.

Allora, adagio adagio, evitando perfino di spostare l'aria intorno a sé, con movimenti cauti e meditati, più strisciando che camminando, ella allargò lo spiraglio dell'uscio e sgusciò dentro nella cucina.

Egli aveva spento la lucernetta, ma sul focolare alcuni tizzoni ancor vivi  mandavano guizzi di luce.

Nella penombra egli era là… Si distingueva bene il suo corpo sul pagliericcio di foglie secche su cui era disteso…

La colpì l'odore di quel corpo. Non l'aveva mai prima notato: odore di stracci bagnati, di legno fracido, di tabacco e di lupo.

Egli era là… Inerme, annientato, in potere di lei che lo guardava, che lo spiava…

Come gridavano, quella notte, le civette del Bosco Tagliato!…

Una improvvisa pietà di sé, di lui, della vita, del comune destino, la fece vacillare sulle ginocchia, indietreggiare tremando verso l'uscio da cui era entrata. Pietà di quell'essere che era là per terra, e dalla nascita alla morte era stato anch'esso un mendico, un misero; nato forse senza perfidia, ma che povertà, promiscuità, solitudine, privazione assoluta di tutto ciò che può addolcire ed elevare la vita, avevano abbrutito e travolto. Tranne l'ubbriarcarsi e l'accoppiarsi con qualche femmina, che altro aveva avuto quel meschino nella sua vita?… Null'altro, null'altro al mondo, che faticare e patire… Ed ora…

Ma s'irrigidì contro la sua debolezza. Rosùte!…

«Rosùte no! Rosùte no! Rosùte no!».

La cucina era così piccola che le bastò, senza muoversi, tendere il braccio, la mano, per afferrare la scure che era buttata sopra un mucchio di legna nell'angolo del focolare.

Ella l'afferrò e l'alzò quanto più alto poté.

La lama lampeggiò nell'ombra.

Mirò  al collo, e vibrò il colpo.

 

Non un grido: solo un fiotto di sangue

 

Il film Maria Zef è stato girato fra Udine,  Forni di Sopra e Arta Terme, avvalendosi, per la sceneggiatura,  della collaborazione del poeta carnico Siro Angeli, che ha interpretato anche, con sobria intensità,  la parte di Barbe Zef.

Gli altri interpreti sono Renata Chiappino (nel ruolo della giovane protagonista, Mariute), Anna Bellina (sua sorella Rosute), Neda Meneghesso (la madre); e, inoltre, Maurizio Scarsini, Cesare Bovenzi, Italo Tavoschi, Natalia Chiarandini, Alessandra Nonni.

 

Paola Bianchetti Drigo è nata a Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso, nel 1876m ed è morta a Padova nel 1938.

Formatasi nell'ambiente culturale del Verismo, era giunta al romanzo proprio con Mria Zef, apparso nel 1936; in precedenza aveva pubblicato alcune raccolte di novelle, fra le quali ricordiamo La fortuna, del 1913; Codino, del 1918; e La signorina Anna, del 1932.

Senza dubbio Maria Zef è la sua prova migliore; il celebre critico letterario Pietro Pancrazi scrisse di quel romanzo che «certamente non scolorisce di fronte alle cose più forti della Serao o della Deledda».

A torto, come abbiamo accennato all'inizio, qualcuno ha volto vedervi una denigrazione della società carnica; piuttosto, la cifra per comprendere questo gioiello nascosto della letteratura tardo-verista italiana è un profondo sentimento di pietà per «gli ultimi» di un mondo alpino abbandonato a sé stesso; un grido d'aiuto lanciato all'intera società civile.

 

Vittorio Cottafavi è nato a Modena nel 1914 e morto a Roma nel 1998.

Aveva esordito come sceneggiatore, poi diresse una serie di film per il grande schermo, tra i quali Una donna ha ucciso (1952), Nel gorgo del peccato (1954), Le legioni di Cleopatra (1959), Ercole alla conquista di Atlantide (1961) e, infine, quello che si proponeva l'obiettivo più ambizioso, I cento cavalieri (1964): ossia di dare sostanza culturale al genere eroico-avventuroso.

Il clamoroso fallimento di quel tentativo spinse Cottafavi a passare definitivamente alla televisione, per la quale diresse una lunga serie di sceneggiati popolari e, al tempo stesso, eccellentemente curati sotto l'aspetto tecnico e formale. È impossibile ricordarli tutti (sono più di cinquanta); tra i più importanti, ricordiamo Sette piccole croci (1957), da Simenon; Casa di bambola, da Ibsen, e Umiliati e offesi, da Dostojevskij (entrambi del 1958); Le notti bianche, ancora da Dostojevskij;  (1962); Lo zoo di vetro (1963), da T. Williams; Vita di Dante (1965); I racconti di padre Brown (1970), da Chesterton; A come Andromeda (1972), da F. Hoyle.

 

Maria Zef è un piccolo capolavoro sia nella versione letteraria, sia in quella cinematografica.  Entrambe meriterebbero di essere conosciute di più dal pubblico italiano e internazionale, e apprezzate al loro giusto valore.

Che la giusta chiave di lettura del film, oltre che del romanzo, sia  il sentimento della compassione, ce lo dice lo stesso regista, Vittorio Cottafavi (cit. In Aldo Grasso, Storia della televisione italiana, garzanti Editore, Milano, 1992, p. 391):

 

In Maria Zef al di là del giudizio si vuol chiedere la pietà che, unica, ci porta alla completa comprensione… Una ragazza, una bambina, un giovanotto, uno zio, un cane sono sufficienti affinché un brandello della verità del mondo ci proponga l'interrogativo: al quale forse non sappiamo dare una risposta se non attraverso il sentimento. E la pietà.