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La delusione esistenziale è la «malattia mortale» che produce amarezza, cinismo e disperazione

di Francesco Lamendola - 29/09/2008

 

 

Kierkegaard sosteneva che la «malattia mortale» dell'uomo è la disperazione.

Probabilmente aveva ragione; tuttavia, la disperazione è l'effetto, non la causa, dell'angoscia dell'uomo di sempre, ma specialmente dell'uomo moderno, che ha troncato le proprie radici e si è distaccato, ribellandovisi, dall'Essere, in cui egli trovava un orizzonte di senso e un forte aggancio con la realtà.

Ora egli vaga, confuso e angosciato, senza riuscire a ritrovare la bussola per orientarsi nel gran mare del relativismo e del nichilismo che lui stesso ha evocato; ma, all'origine della sua confusione e della sua disperazione, vi è la delusione esistenziale, che lo ha riempito di amarezza e lo ha sospinto sulle aride vie del cinismo.

L'uomo contemporaneo è particolarmente esposto a tale malattia, perché una delle caratteristiche fondanti della società odierna è precisamente la crescita esponenziale dell'aspettativa, così come - del resto - la crescita esponenziale della produzione, del consumo, del profitto, del prodotto interno lordo, e di molte altre cose ancora.

Ne abbiamo già parlato nel precedente articolo Liberarci dall'aspettativa, figlia malata dell'idea di progresso, consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice). Vogliamo tornare adesso sull'argomento, esaminandolo soprattutto dal punto di vista dei suoi devastanti effetti individuali e collettivi, e cercando, al tempo stesso - di suggerire possibili strategie per tentare di uscire dal presente vicolo cieco.

Gli psicologi chiamano la delusione esistenziale con altri nomi, ad esempio con quello di «depressione», fedeli alla norma che vuole la scienza moderna (e la psicologia è l'ultima delle scienze in ordine di tempo) come puramente descrittiva. Ma descrivere una cosa o un fenomeno, non vuol certo dire comprenderli; se si vuole sperare di comprenderli, bisogna prima collocarli entro un orizzonte di significati intelligibili.

Nel caso si voglia curare un disturbo della mente, bisogna prima domandarsi chi sia l'essere umano, da dove venga, a cosa aspiri: solo così potremo capire quali sono le condizioni che ne provocano la malattia, che si manifesta sotto forma di sofferenza, angoscia, disgusto e noia. Se pensiamo che l'uomo sia una scimmia un po' evoluta, originata da una mutazione genetica casuale, e destinata solo a concimare la terra con le sue ossa e la sua carne, infatti, non si comprende perché questa scimmia manifesti una così intensa sofferenza e una così scoraggiante infelicità, proprio ora che ha la possibilità di saziarsi a volontà e di soddisfare quasi ogni desiderio e ogni capriccio.

Invece, la creatura umana è ben lungi dal trovare pace e appagamento, a dispetto dell'aumento vertiginoso di comodità, sicurezza e benessere dei quali può oggi disporre. La sua delusione esistenziale è evidente: la si legge sui volti d'innumerevoli persone; la si ode nei loro discorsi; la si respira nell'aria che le avvolge, impregnata di negatività, di cinismo e di amarezza.

E, cosa ancora più grave, esse la diffondono tutto intorno come un virus, infettandone altre persone e specialmente i giovani e i bambini, i quali avrebbero - invece - ogni diritto di non crescere in un ambiente così ammorbato e così saturo di cattivi esempi.

Ci siamo mai soffermati a riflettere che ogni nostro gesto, parola o pensiero esprimenti rabbia e delusione sono come altrettanti scandali per i bambini che ci stanno intorno e che ci guardano, e che si avviano a maturare la propria immagine del mondo deducendola, in gran parte, da quella che noi stessi ci siamo costruita, e che inevitabilmente trasmettiamo loro?

Ci sono più modi di dare scandalo a un bambino, di sporcare la sua innocenza. Quello di comunicargli la nostra delusione esistenziale è senza dubbio uno dei più invasivi, suscettibile com'è di produrre effetti nefasti a lunga scadenza.

E il peggio è che vi sono adulti, i quali fanno tutto questo in maniera deliberata e consapevole. Così come vi sono dei disgraziati che volontariamente e consapevolmente infettano con il virus di qualche grave malattia delle persone inconsapevoli, forse così sperando di attenuare la propria angoscia di malati; allo stesso modo vi sono, purtroppo, degli adulti i quali godono di distruggere il mondo carico di speranze dei bambini, inculcando loro - esplicitamente o implicitamente - l'idea che, qualunque cosa si faccia, è tutto inutile, perché la vita è cattiva, gli uomini sono tutti infidi e malvagi, e l'unica cosa buona (parafrasando un terribile passo di Giacomo Leopardi) è il non esistere, il non essere.

Incalcolabile è il danno che, in questo modo, le persone deluse dalla vita provocano non solamente a se stesse, ma anche agli altri.

Abbiamo affrontato questo argomento nell'articolo Oltrepassare la delusione per non sciupare la bellezza del mondo (sempre sul sito di Arianna Editrice). È come se l'insieme delle persone amareggiate e deluse filasse una tela vischiosa e impalpabile, ma altamente velenosa, sullo splendore delle cose, intrappolandovi a loro insaputa anche coloro i quali  conservano ancora la fede nel mistero luminoso del mondo.

 

Aristotele, nella Metafisica (VII, 7), scrive che

 

Le cose che si generano, si generano o per natura o per arte o per caso. E tutte quante sono generate ad opera di qualcosa, derivano da  qualcosa e divengono un qualcosa: e intendo un qualcosa secondo ciascuna categoria: sostanza, o quantità o qualità o luogo.

 

Ebbene, forse la chiave per comprendere il fenomeno della delusione esistenziale consiste nel mettere a fuoco quale sia la natura dell'uomo: da che cosa egli sia generato, da che cosa derivi e, soprattutto, che cosa divenga. Se egli è generato dall'amore e se deriva la sua esistenza dall'Essere - così come, del resto, ogni altro ente -, allora è anche chiaro che cosa dovrà divenire: una creatura armoniosa e appagata, che sa quale sia il proprio posto nel mondo e che aspira, al tempo stesso, a quella patria originaria di cui il mondo non è che un pallido riflesso.

Ma, allora, l'uomo non è un fatto, bensì una possibilità: l'uomo è un poter essere, ossia un andare oltre se stesso, sviluppando al massimo le ricchissime potenzialità che gli sono state date. L'uomo è, più di ogni altra creatura, colui che deve andare oltre, colui che deve realizzarsi trascendendosi. La spinta al superamento di sé fa parte del suo progetto fondamentale, dunque della sua struttura ontologica.

Qualcuno potrebbe pensare, giunti a questo punto del ragionamento, che la delusione esistenziale che rattrappisce e indurisce così tanti esseri umani, sia una conseguenza del loro eccessivo tendere oltre, generante una impossibilità di appagarsi in se stessi e di se stessi. Non è così; il dramma dell'uomo non è dovuto al fatto di tendere eccessivamente oltre se stesso, ma di tendere verso mete sbagliate e di logorarsi in una serie di sforzi mal diretti. È questo che lo rende deluso, infelice e - così spesso - anche cattivo.

È sempre Aristotele a darci l'esatta nozione dei concetti di perfetto e di limite, là dove afferma (Metafisica, V, 16-17) che

 

Perfette sono dette quelle cose che hanno raggiunto il limite che loro conviene. Infatti una cosa è perfetta quando possiede il proprio fine.

 

E che:

 

Limite è detto il termine estremo di ciascuna cosa, vale a dire quel termine primo al di là del quale non si può trovare nulla della cosa e al di qua del quale c'è tutta la cosa. (…) Limite è detto il fine di ciascuna cosa.

 

Dunque, l'umanità perfetta è l'umanità che si avvicina al limite estremo delle possibilità umane, in ciò che di essenziale vi è nella natura umana stessa. Un essere umano, infatti, non potrà certo dirsi perfetto quando sia giunto al limite estremo delle sue possibilità animali, ad esempio nella velocità o nella forza, perché esse non costituiscono l'essenza della sua natura. Perciò, paradossalmente, l'uomo sarà tanto migliore e tanto più perfetto, quanto più si avvicinerà al compimento di se stesso e, con ciò stesso, al trascendimento del proprio limite ontologico.

Il concetto di superuomo ha questo di sbagliato: che mira al massimo potenziamento di ciò che è puramente umano, senza riguardo alcuno alla nostalgia dell'oltre-umano che è parte costitutiva, dunque essenziale, della natura umana stessa. Aver visto nell'uomo soltanto un uomo, con gli occhi rivolti alla terra; aver negato la sua essenziale aspirazione alla trascendenza: ecco il peccato d'orgoglio di tutte le filosofie vitalistiche, e non solo di quella di Nietzsche.

Sempre da Aristotele sappiamo che il bene supremo, oggetto d'azione (e l'uomo è una creatura agente, dal momento che non ha in se stesso il proprio centro e il proprio fine, ma li ricerca fuori di sé), è la felicità (Etica Nicomachea, I, 5):

 

Ciò che è degno di perseguirsi di per se stesso diciamo che è più perfetto di ciò che lo è in ragione di altro; e ciò che non è mai sceglibile a motivo di altro  diciamo che è più perfetto delle cose che sono sceglibili talvolta per se stesse, talvolta a motivo di quell'altro.; eppertanto diciamo che è perfetto in senso assoluto ciò che è sempre sceglibile  per se stesso e non mai a motivo di altro. Ora, una tale cosa tutti ritengono che è soprattutto la felicità. Questa infatti noi scegliamo sempre per se stessa e non mai a motivo di altro…

 

E, a sua volta, la felicità consiste in un'attività dell'anima secondo virtù (Idem, I, 6):

 

Ma, senza dubbio, dire che la felicità è il bene supremo  risulta sì una cosa sulla quale si è tutti d'accordo, ma si desidera che sia esposto più chiaramente che cos'è.

Forse questo potrebbe avvenire se si comprendesse l'opera propria dell'uomo. (…)

Ma se opera propria dell'uomo è un'attività dell'anima conforme alla regola o non sprovvista di regola, e noi diciamo che è genericamente identica l'opera di un uomo e di un uomo virtuoso (…), aggiungendosi l'eccellenza secondo la virtù all'opera (…); se è così, il bene umano consiste in un'attività  dell'anima secondo virtù, e se le virtù sono molteplici, secondo la più eccellente e la più perfetta.

Ossia, quella che più realizza il télos dell'uomo.

Ma se l'essere umano è gettato a caso nel mondo e non possiede alcun télos, se non tende ad alcun fine, allora una scienza della felicità diventa impossibile; e sarà possibile soltanto - al massimo - una pratica della felicità, sempre soggettiva e sempre mutevole.

Ma noi non pensiamo che l'uomo sia gettato a caso nel mondo; crediamo che egli sia stato chiamato all'essere nell'ambito di un disegno ben preciso; e che, pertanto, una scienza della felicità sia possibile, a condizione che egli sappia individuare il proprio télos, il proprio fine.

Ora, ci sembra che molti indizi suggeriscano che il fine dell'uomo è compiere perfettamente la propria natura, avvicinandosi, con ciò stesso, a ciò che sta oltre la propria natura: ossia a trascendersi, non già negando la propria natura essenziale, bensì realizzandola pienamente.

Ma la natura essenziale dell'uomo è la ricerca della felicità; e la felicità, per lui, consiste nell'attività dell'anima secondo virtù, ossia nel perseguimento di quel fine che gli è stato dato, e del quale egli avverte in sé stesso l'insopprimibile esigenza e l'ardente nostalgia; così come il marinaio che  affronta una lunga navigazione non per il piacere dell'andar per mare in se stesso, ma per giungere al porto cui è destinato.

Ecco, allora, che la delusione esistenziale, che scava rughe e pieghe così amare sul volto e nell'anima di tante persone, non è altro che la conseguenza del misconoscimento o del tradimento del fine cui è chiamata la natura umana: ossia la felicità, perseguita attraverso la vita virtuosa, cioè diretta alla piena realizzazione della parte essenziale di sé.

E la parte essenziale dell'uomo non è quella che guarda verso il basso, verso la terra, e verso i suoi beni effimeri e ingannevoli; ma quella che leva lo sguardo verso l'alto, verso l'Essere dal quale proviene e al quale arde per il desiderio di ritornare.