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Inutilità del capire e inafferrabilità del vero: la cattiva dottrina che inquina le sorgenti di vita

di Francesco Lamendola - 02/10/2008

 

«Sapeva o no, la Grande Signorina? Si era mai resa conto della ferocia terroristica della sua letteratura?». Queste parole sono state l'epitaffio di Alberto Arbasino per la scomparsa della scrittrice inglese Ivy Compton Burnett (Londra, 1884-1969), autrice di romanzi in cui univa a una scrittura sorvegliatissima e brillante l'analisi spietata di una borghesia che nasconde i suoi vizi dietro il velo della rispettabilità e si scatena, all'interno della famiglia, in rancori, vendette, incesti e ogni sorta di vizio e perversione.

Non sono «soltanto» (si fa per dire) opere di una raffinata e sottile, fredda crudeltà psicologica: sono opere infernali, nel vero senso della parola. In esse non vi è taccia di valori positivi; tutti  i personaggi, dal primo all'ultimo, sono ferocemente egoisti, fatui, irresponsabili; tutti cercano, più o meno consapevolmente, l'autodistruzione, attraverso una lenta discesa nei gorghi di una progressiva, inesorabile degradazione. Neppure i bambini di salvano: sono intelligenti, crudeli e disumani come i loro genitori: piccoli manichini che anatomizzano la vita con la cattiveria metodica e implacabile con cui potrebbero sezionare una lucertola.

In fondo, sarebbero personaggi e situazioni quasi ridicoli, tanto sono spinti fino all'estremo limite dell'assurdo (non per nulla il «maestro nascosto» della Compton-Burnett» è Lewis Carroll, l'autore di Alice nel paese delle meraviglie); se non che il sorriso si gela sulle labbra del lettore, sopraffatto dalla netta sensazione che l'Autrice non stia affatto scherzando. Ella è realmente convinta che la vita sia una cosa assurda, ridicola e pietosa; che gli esseri umani siano soltanto dei burattini ipocriti e astutamente crudeli; che la sincerità, la lealtà, la benevolenza e la comprensione umana non esistano che nelle pagine  dolciastre di qualche vecchio libro inutile e polveroso. E tutto questo, unito alla sua gelida impassibilità, è semplicemente terribile.

In uno dei suoi romanzi «minori», ma più significativi, Il presente e il passato (titolo originale: The Present and the Past, Victor Gollancz Ldt, London, 1953; traduzione italiana di Bruno Finzi e Camillo Pennati, Einaudi Editore, Torino, 1980), uno dei suoi personaggi dice, a un certo punto: «A che cosa serve sapere le cose quando non si deve far altro che invecchiare sempre di più e morire prima di aver saputo tutto?».

 

Ecco: questa è la cattiva dottrina che inquina le sorgenti stesse della vita.

C'è un particolare, che rende particolarmente distruttivo il messaggio delle opere della scrittrice inglese: i suoi personaggi, infatti, sono intelligenti (lo si vede dalla brillantezza veramente inesauribile dei loro dialoghi), ma anche, e nello stesso tempo, terribilmente, insopportabilmente sciocchi. Vogliamo dire che la loro intelligenza è tutta di testa, cerebrale, senz'anima; ma, nelle concrete circostanze della vita, agiscono come dei folli o come dei perfetti sventati, fino a sfiorare la parodia del nonsense assoluto. La loro intelligenza, dunque, è perfettamente sterile: è solo un gioco elegante, che consente loro di sfoggiare uno spirito caustico e brillante; ma, per il resto, in essi vi è una disarmonia grottesca e quasi ripugnante: non hanno la minima idea di che cosa significhi accogliere con gratitudine la vita, sforzarsi di capire il prossimo. Sono solo tanti piccoli Narciso intrappolati nella seduzione di se stessi.

Eppure, in fondo in fondo, qualche cosa si agita in quei mostruosi manichini; si intuisce la presenza di un'inquietudine profonda, di un malessere che non trova la strada per venire alla luce. E la chiave di ciò sta proprio in quella frase, dove al senso dell'inutilità del capire e dell'inafferrabilità del vero, si unisce la confessione del rammarico per la condizione dell'uomo, impossibilitato a comprendere prima che sia troppo tardi, prima che la morte sopraggiunga.

 

Il caso di Ivy Compton-Burnett ci sembra altamente emblematico di tutto un indirizzo della cultura moderna, che non riguarda solo la poesia e la letteratura, ma che investe ogni ramo del sapere, scienza e tecnica incluse, e ogni manifestazione del sentimento, come la musica, la danza, il gioco e perfino le attività sportive. Ovunque ristagna la stessa atmosfera opprimente e claustrofobica; ovunque si va a sbattere in un labirinto di specchi che ci rimandano sempre, ossessivamente, la nostra stessa immagine; ovunque aleggiano i fantasmi del disgusto, della noia, della rabbia e della disperazione, cupi compagni di una umanità demente e disperata.

Ora, non vi è nulla di strano nel fatto che un gran numero di persone della società moderna abbiano preso la penna in mano per tradurre sulla carta le loro angosce, le loro paure, la loro desolazione nei confronti della vita: perché la società moderna è, fondamentalmente, una fabbrica di angoscia, paura e desolazione, oltre che di una quantità sovrabbondante di beni di consumo e di servizi che ci vengono presentati come indispensabili, mentre, spesso, nel migliore dei casi, sono assolutamente inutili (basti penare a come sono organizzate le banche, oggi).

La cosa strana, per così dire, e soprattutto allarmante, è che la critica e il pubblico abbiamo fatto di questi intellettuali amareggiati, cinici e disperati i loro maîtres à penser: questo è il dato su cui riflettere, questa è la grande anomalia. In una società sana e innamorata della vita, quei signori e le loro opere sarebbero considerati con raccapriccio e, al massimo, con un sentimento di compassione: invece accade che essi siano elogiati ed acclamati come dei geni, come degli eroi, come dei profeti: i profeti del nulla, appunto.

Ciò vuol dire che la società in cui viviamo è stanca della vita e non crede più in sé stessa, non crede più in niente. Ormai tutti i sedicenti intellettuali fanno a gara a chi le spara più grosse: di cinismo in cinismo, di provocazione in provocazione, di dissacrazione in dissacrazione, sembra che ormai non sia rimasto più nulla su cui puntare le artiglierie ad alzo zero; più nulla contro cui valga ancora la pena di accanirsi.

Ma, in nome del Cielo, possibile che non ci si renda conto che questo gioco al massacro è giocato tutto sulla nostra pelle? Che ogni libro come Il presente e il passato, specialmente se viene accolto dalla critica come l'ultimo prodotto della genialità letteraria, è un altro chiodo che stiamo piantando sulla nostra stessa bara? Che ogni frase come «A che cosa serve capire?» è un frutto avvelenato, che viene gettato sulla tavola dei nostri figli, inquinando fin nei giovani il gusto della vita e la fiducia nel domani?

Diceva Erich Fromm che le società necrofile si riconoscono per il loro rincorrere la morte, per il loro baloccarsi con una feroce e scoperta volontà di autodistruzione. Società necrofile non sono state soltanto la Germania hitleriana e l'Unione Sovietica staliniana: lo è anche la nostra. Necrofilia non fa rima solo con totalitarismo, ma anche con democrazia, società dei consumi e del tanto decantato «benessere».

 

È scritto nel Libro della Sapienza (1, 12-14):

 

Non rincorrete la morte

abbandonando la strada che porta alla vita.

Non distruggetevi con le vostre mani.

Ricordate: Dio non ha creato la morte

e non viole la morte degli uomini.

Ha creato le cose perché esistano;

le forze presenti nel mondo sono per la vita

e non hanno in sé alcun germe di distruzione.

Stiamo attenti a non giocare un po' troppo con le parole; stiamo attenti a questo gioco al massacro. Dalle pagine dei libri di Sartre, la nausea - intesa come categoria esistenziale -  è passata nelle nostre vite, nel nostro modo di vedere il mondo: che si è fatto sempre più disincantato, sempre più cinico, sempre più amorale; e, in fondo, sempre più disperato.

E che dire dell'architettura elefantiaca e disumana delle grandi città? Che dire della musica rock inneggiante alla distruzione e alla blasfemia? Che dire della sarabanda infernale in cui abbiamo deciso di gettarci nel nostro tempo libero, a cominciare dalle discoteche, infestate dalla droga e dall'abuso dei superalcolici, e trasformate in sfrenati baccanali del sesso ?

Che dire, infine - e più grave di tutto - di quel sorrisetto di derisione - oh, quello sì, veramente diabolico - con il quale la nostra società, a cominciare dai tanto decantati maîtres à penser, accoglie tutto ciò che è limpido, onesto, disinteressato, o, puramente e semplicemente (horribile dictu!),  «buono»?

 

Tutto questo non è rimasto senza conseguenze nei comportamenti quotidiani di milioni e milioni di persone.

Ma, lasciando da parte - in questa sede - le tristissime pagine della cronaca nera (che sta diventando realmente, da un po' di anni a questa parte, sempre più nera), il comportamento in cui i riflessi della cultura nichilista dominante appaiono più incisivi e pericolosi sono quelli relativi alla paternità e alla maternità.

In una società fondamentalmente sana, biofila (e sia pure con la sua brava percentuale di mele marce, come è umanamente inevitabile), l'arrivo di un figlio è desiderato e accolto come una benedizione. In una società necrofila, al contrario, l'idea di un figlio che potrebbe nascere è vista in primo luogo come un problema. Non staremo qui a sciorinare le statistiche e le percentuali che già, più o meno, tutti conoscono; e di come l'Europa, e in modo particolare l'Italia, siano scese al livello di crescita demografica «zero». Non lo faremo, perché quel che conta non è buttare là un fatto, ma cercare di interpretarlo.

Perciò, quei politici i quali proclamano di voler aiutare le famiglie mediante adeguati provvedimenti economico-sociali (ammesso e non concesso che non si limitino alle parole), sfiorano soltanto la superficie del problema: che non è, come ci piacerebbe credere, solo o principalmente economica. La verità, nuda e sgradevole, è che la nostra società ha smesso di fare figli perché non crede più nella vita, perché si è disamorata del futuro.

Ciò detto, possiamo anche tirar fuori, a parziale giustificazione, ogni sorta di difficoltà materiali: la precarietà del lavoro, i prezzi proibitivi delle case, perfino il senso di responsabilità nei confronti delle future generazioni, le quali dovranno fare i conti con il buco nell'ozono, con le piogge acide e con la desertificazione del pianeta; ma sono tutte storie.

Non che - intendiamoci bene - quei problemi non siano problemi reali: lo sono, eccome. Ma quando mai potrebbero impedire a un uomo e a una donna, i quali abbiano deciso di scommettere sul proprio amore, di crearsi una famiglia: a dispetto del lavoro precario e delle rate da pagare per il mutuo sulla casa? Forse che i nostri genitori, i nostri nonni si sposavano e facevano figli solo quando avevano tutte le garanzie possibili e immaginabili di una piena sicurezza economica? Neanche per sogno: comperavano i mobili un poco alla volta, pagandoli a rate; si adattavano a mille sacrifici, a mille incertezze: ma non si facevano fermare da simili considerazioni. E i figli che hanno messo al mondo, anche se non indossavano vestitini firmati e non andavano a scuola con il merendino della pubblicità televisiva, ma con una mela o un panino al formaggio fatto in casa, non sono cresciuti poi tanto male. Avevano ricevuto innanzitutto dei valori, oltre che l'amore di un padre e di una madre: e questo è l'essenziale. Il resto, è solo fumo negli occhi.

D'altra parte, poiché sappiamo (anche perché ne conosciamo diverse) che esistono realmente delle persone sensibili e scrupolose, le quali non osano mettere al mondi dei figli, pensando alla enorme responsabilità che si assumerebbero, in un contesto così compromesso come quello in cui viviamo, ci preme chiarire subito un punto di capitale importanza.

Un uomo e una donna, i quali decidono di mettere al mondo un figlio, non sono affatto i «creatori» di quella vita; né, di conseguenza, ne sono gli unici responsabili. Non dobbiamo sopravvalutarci. Noi esseri umani possiamo dire oppure no al grande flusso della vita universale; ma si tratta di una forza molto più grande di noi, che di noi si serve, ma che procederebbe comunque, anche se decidessimo di non prestarle più alcuna collaborazione.

Noi non siamo i padroni della vita; e la vita non ha bisogno dei nostri ragionamenti per sussistere; a noi è dato soltanto di renderci disponibili al suo progetto. Noi possiamo contribuire a trasmetterla, non ne siamo di certo i padroni. Siamo gli operai della vigna: a noi è dato soltanto di scegliere che tipo di operai vogliamo essere.

Ecco perché togliere la vita è male: ecco perché l'aborto, la guerra, la pena di morte sono azioni imperdonabili: noi non siamo i padroni della vigna; noi non abbiamo alcun diritto di strapparne i tralci - magari con la scusa che non danno frutto.

Perciò, la domanda è solo e unicamente questa: che tipo di vignaioli scegliamo di essere?