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Vorresti vivere di nuovo la stessa vita, esattamente come l'hai vissuta fino ad oggi?

di Francesco Lamendola - 12/10/2008

 

 

«Vorresti vivere di nuovo la stessa vita, esattamente come l'hai vissuta fino ad oggi?».

Mi guarda con occhi brillanti e tace, scrutandomi. Si direbbe voglia leggermi la risposta nello sguardo, prima ancora che sulle labbra.

È strana, Sabina: una ragazza strana.

«Che cos'è», le chiedo «un esame di letteratura per vedere se ho studiato il Dialogo d'un venditore di almanacchi di Leopardi?».

Ma lei non sorride; la sua espressione resta attenta e concentrata, come se la mia risposte fosse, per lei, d'importanza decisiva..

«No», risponde, «è una domanda seria».

«Leopardi» tergiverso «era sicuro che chiunque avrebbe risposto di no. Che nessuno avrebbe voluto rivivere la propria vita allo stesso modo, con gli stessi dolori e le stesse gioie. Anche perché pensava che, di gioie vere, nessuno ha mai fatto l'esperienza».

Ma lei non molla: «Leopardi, sta bene. Ma tu?».

I suoi occhi, belli e strani, quasi mi trafiggono, adesso.

«Poiché voglio essere onesto sino in fondo, lasciami un momento per riflettere».

«Fai pure», risponde, e improvvisamente si alza.

Leggera, con la forza contenuta di un gatto, si muove lungo la parete, e intanto guarda con interesse i pochi, vecchi libri allineati sullo scaffale.

Il suo sguardo scorre lentamente sui grossi dorsi consumati dall'uso: Omero, Virgilio, Dante, Manzoni, la Bibbia; e un manuale di astronomia con l'atlante celeste. I compagni di una vita; tutto un mondo racchiuso in poco spazio.

Allunga un braccio e prende l'Iliade, comincia a sfogliarla.

«Non te ne separi mai, vero?».

«No; come potrei?».

«Ami questi libri più di ogni altra cosa al mondo».

«Forse».

Maliziosa, mi scocca un'occhiata in tralice, senza volgere il capo: «Anche più di me?»

«Si capisce».

Ridacchia e posa nuovamente l'Iliade sullo scaffale; quindi prende l'Odissea e si mette a scorrerne le pagine, apparentemente concentrata.

«Non sono la tua Nausicaa?».

Decido che è giunto il momento di tornare seri: «La vuoi ancora, quella famosa risposta?».

«Altroché».

«Sì, la vivrei di nuovo».

Mi guarda sorridendo; il viso le s'illumina.

«Diresti: ebbene, ancora un'altra volta!, come Zarathustra?»

Sostengo il suo sguardo e le sorrido a mia volta, ma non sto scherzando.

«Sì, lo direi. Anche se per altri motivi, diversi dai suoi».

Sabina è addirittura radiosa: si vede che quella risposta, per qualche sua ragione, la riempie di una gioia quasi puerile.

Insiste: «Con tutte le sue amarezze e le sue delusioni?».

Annuisco.

«Ne sei proprio sicuro?»

«Sì».

Posa in fretta l'Odissea e mi si accosta, continuando a fissarmi, come se avesse davanti chissà quale visione inaspettata e pur gradita.

Poi, svelta, leggera, mi posa un bacio sulla guancia.

«Perché l'hai fatto?».

«Perché conosco la tua vita quanto basta per sapere che non è stata facile. No, non è stata una vita facile, la tua. Eppure la rifaresti, torneresti a viverla daccapo. Perché?».

«Perché, diversamente, sarei un ingrato. Sarebbe come sputare sul bene che ho ricevuto; e disprezzare le cose che ho incominciato a capire».

«Soltanto incominciato? Io ti credo un saggio. Un po' matto, ma saggio».

«Tutti i saggi lo sono. Un po' matti, voglio dire. Io, però, non mi sento un saggio; ma soltanto uno che sta cominciando ad imparare».

Sabina si accoccola sul fondo del letto, proprio come un gatto, le gambe incrociate sotto le cosce. Ora il suo sguardo corre fuori dalla finestra, sembra perso dietro una nuvoletta che sale dal mare.

«Ecco, una piccola nuvola, come la palma della mano d'un uomo, sale dal mare».

Pronuncio le parole quasi a me stesso, guardandola.

«Che cosa stai dicendo?».

«Citavo la Bibbia: primo libro dei Re, capitolo 18, versetto 44».

«Davvero? Strano, credevo fosse Virgilio».

«Come mai?».

«Semplice: è il tuo poeta preferito. Quante volte ho visto quella Eneide posata sul tavolo, aperta. Credo tu l'abbia consumata a forza di rileggerla; scommetto che la sai a memoria».

Ma non è di questo che mi vuol parlare; perciò riprendo:

«Ti sembra così strano che uno accetti l'idea di rivivere la propria vita, proprio come l'ha vissuta, senza poter cambiare nulla, neanche una cosa sola?».

«Non lo so. Sì, credo di sì; credo che siano in pochi che risponderebbero in questo modo».

«E tu, tu come risponderesti?».

Mi punta contro il dito, impertinente, ma non si sottrae. Non sarebbe da lei.

«Io », dice pensosa, scuotendo il capo; e una ciocca di capelli neri le scivola sul naso, «risponderei di no. No, senza dubbio». E rialza gli occhi a fissarmi, a lungo.

«Sei rimasta troppo delusa?».

Le labbra le si incurvano in una smorfia appena accennata.

«Oh, non credo più di tanti altri. Non più della maggioranza delle persone che ci sono al mondo».

«E allora…?».

«Lo vuoi proprio sapere?».

«Certo».

Quando mi fissa in quel modo, i suoi occhi viola sembrano dilatarsi, divenire immensi: un mare in cui mi perdo.

«Non perché sono rimasta delusa, ma perché non vorrei soffrire di nuovo per le stesse cose. Questo pensiero mi fa venire le vertigini. E sì che, dopotutto, non credo di aver sofferto molto, nella mia vita; penso di essere stata abbastanza fortunata».

«Dunque non è il pensiero di quello che hai sofferto che ti disturba, ma dei motivi per i quali hai sofferto. Ti sembra che, rivivendo la stessa identica vita, ripeteresti scioccamente gli stessi errori; non è così? Come se non avessi imparato nulla dall'esperienza».

Rialza gli occhi e me li sgrana addosso, quasi incredula.

«Hai fatto un patto col diavolo per potermi leggere dentro?».

«Nessun patto e niente diavolo, almeno per stavolta. Ma tu, per me, certe volte sei come un libro aperto».

«È per questo che non t'innamori mai di me? Dicono che per innamorarsi di qualcuno, ci voglia  una certa dose di mistero…»

«Ho detto: "certe volte". Comunque, tornando a noi, credo che nel tuo pensiero ci sia un errore. Proprio perché impariamo qualcosa dagli sbagli e dalla sofferenza, la nostra vita meriterebbe di essere rivissuta. Ma questo possiamo giudicarlo solo in prospettiva, quando siamo saliti a un più elevato livello di consapevolezza. Finché non siamo capaci di compiere quel salto, il male resta male, la delusione resta delusione, l'amarezza è sempre e soltanto amarezza».

«Vuoi dire che, se io potessi tornare a vivere, ma rifiutassi di rivivere la mia stessa vita di adesso, ricomincerei a fare ugualmente gli stessi errori, senza imparare niente da essi?».

«Esatto».

Ora si mordicchia un'unghia, mi guarda; e intanto riflette.

È molto femminile quando fa così, con quell'aria un po' imbronciata, come quella di un ragazzino alle prese con un problema di geometria che gli dà non poco filo da torcere. Pare quasi di poter sentire il lavorio della sua mente, nel silenzio denso della stanza.

«E perché non potrei evitare almeno gli sbagli più grossi, se me ne venisse data l'occasione?»

«Perché saresti ancora tu, soltanto più giovane di ora. Non capiresti di commettere un errore e, perciò, non lo eviteresti. Non saresti più saggia, anzi, saresti ancora più inesperta: come lo eri un tempo. La saggezza ci viene dall'esperienza; e, per accumularla, non c'è altro modo che sbagliare. Per cui è inevitabile restare feriti dalla vita, prima o dopo».

«Prima o dopo…» ripete, persa in un suo pensiero.

«Meglio prima» proseguo «perché soffrire è un po' morire; e, se si è giovani, si ha più tempo a disposizione per rinascere. Pensa a un anziano che si accorge di aver mancato la propria vita: credo non ci sia niente di più terribile. A che cosa gli servirà, ormai, aver compreso i propri  sbagli, se non gli rimane più un futuro per ricominciare?».

Sabina è sempre pensosa; sul suo bel viso sta passando una nuvola scura.

Poi, all'improvviso, alza la testa di scatto e torna a guardarmi fisso (e di nuovo una ciocca di capelli le scivola sul naso), dicendo:

«Sì, mi hai convinta. È inutile pensare di poter avere una vita migliore, finché rimaniamo le stesse persone. La vita che abbiamo, è quella che ci siamo meritata».

«Questo è un pensiero molto virile».

«Infatti è tuo; mi ci hai condotto tu. E ho visto che hai ragione».

«E niente colpa alla sfortuna?», le chiedo, per stuzzicarla.

Scuote il capo, lentamente, ma decisa: «Nossignore; la sfortuna non c'entra: è una roba da femminucce. Oppure vogliamo dire che avere fortuna è merito nostro, e avere sfortuna è colpa di non si sa chi? Grazie tante, è troppo comodo: ma sa di falso lontano un chilometro».

«Niente colpa nemmeno agli altri o alla società?».

«Niente colpa. Quel che vogliamo diventare, è frutto di una nostra scelta. Si dice che le esperienze ci modellano; io preferisco pensare che siamo noi a modellare loro; cioè, prendiamo da esse - che siano belle oppure brutte - quel che ci fa comodo, quel che abbiamo deciso che ci serve».

«Nemmeno colpa di Dio?».

«Di che cosa dovremmo incolparlo: del fatto che c'è il male? Ma il male non può renderci peggiori, se noi non vi acconsentiamo; del resto, succede abbastanza spesso che sia il bene a renderci peggiori. Quello che a noi era sembrato un bene, e forse non lo era. No: Dio ci manda le cose per vedere che cosa ne sapremo fare. Se un trampolino verso l'alto, o una china per discendere».

«Infatti» osservo «una scala è sempre e soltanto una scala. Ma dipende solo da noi se vogliamo usarla per salire oppure per scendere».

Brava Sabina. Così mi piaci: coraggiosa e volitiva, perfino un po' spavalda.

Lei si accorge del mio stato d'animo; e, svelta - non per niente l'intuizione è femmina - scivola giù dal letto e si dirige verso la porta. Da lì, mi scocca un bacio sulla punta delle dita.

Sa che fuggire è il modo migliore per farsi desiderare. Semplicissima verità, oggi quasi del tutto  dimenticata: specialmente dalle donne.