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Theoprast von Hohenheim, Valentin Weigel, Jacob Böhme e il concetto di natura

di Massimo Luigi Bianchi* - 17/10/2008

 

 

In questo mio intervento cercherò di descrivere una delle linee fondamentali di una ricerca che ho in corso da diverso tempo su alcuni autori appartenenti alla filosofia tedesca della prima età moderna, e coè Theoprast von Hohenheim (meglio conosciuto, già ai suoi tempi, come Paracelso), Valentin Weigel, Jacob Böhme. Si tratta di un campo di indagine al quale si era dedicato, già vari decenni fa Alexandre Koyré, prima che i suoi interessi si indirizzassero verso un orizzonte intellettuale completamente diverso, anzi addirittura antitetico – per non dire che ne è l’antidoto – che si era aperto in quella stessa età, cioè verso la nascita della scienza esatta della natura, con i suoi studi sulla rivoluzione astronomica, su Galilei e su Newton. Koyré è probabilmente più noto per quanto ha prodotto in questa ulteriore fase della sua attività di storico ma la sua monografia su Böhme ha tuttora il valore di un classico in questo ambito di studi e anche i volumetto che aveva dedicato, nel 1955, a Mystiques, Spirituels, alchimistes du XVIe siècle allemand. Séb. Franck, Weigel, Paracelsus, per quanto sia oggi invecchiato, ha avuto il merito di definire i contorni di un certo campo di indagine. Abbiamo poi qui tra noi, ed è una fortuna, il Prof. Faivre che si è ripetutamente occupato di questo autore. Più precisamente mi occuperò, collocandomi all’interno del tema fissato per questo ciclo di seminari, di un certo sviluppo interno del concetto di natura, che si verifica nel passaggio da Weigel a Böhme. Cercherò di far vedere come questo concetto, consegnato a Böhme con certi tratti specifici non solo da Weigel, certamente, ma anche da tutta una tradizione che sta alle sue spalle, si ridetermini all’interno del sistema di Böhme in un modo nuovo, muti il suo contenuto in modo significativo nell’ingranarsi in questo sistema.

Chi eano Valentin Weigel e Jacob Böhme? Vorrei arrivare in fretta al punto che ci interessa e quindi, pur essendo consapevole che non si tratta di autori familiari a tutti, soprattutto il primo, sarò piuttosto rapido nel presentarli. Weigel era nato a Hayn, in Sassonia, nel 1533. Era un filosofo e teologo riformato, notevolmente eretico, però, rispetto all’ortodossia luterana, che si rifaceva al pensiero dei riformatori più radicali della generazione precedente, Karlstadt, Denck, Schwenckfeld, Sebastian Franck – la cosiddetta ala sinistra della Riforma – e alla tradizione che stava alle spalle di questi personaggi, tradizione costituita in larga parte dagli insegnamenti della mistica tedesca, cioè dagli insegnamenti di autori come Meister Eckhart, Tauler, l’anonimo della Theologia deutsch. Quali erano i punti su cui Weigel soprattutto si distaccava dall’ortodossia luterana allineandosi al pensiero di questi riformatori radicali? C’era innanzitutto il rigetto dell’idea che la pura lettera della Scrittura possa di per sé operare la fede e la grazia nel credente; c’era la tesi che i sacramenti, battesimo e cena compresi, siano semplici segni, dotati di una funzione unicamente ‘commemorativa’; c’era la convinzione che il peccato originale non abbia intaccato l’essenza divina di Adamo e che agli uomini non sia dunque impossibile adoperarsi per la salvezza della loro anima: c’era quindi il sostituirsi di ciò che in ambito riformato si chiama una teologia della rigenerazione spirituale dell’individuo alla dottrina ortodossa di una sua giustificazione operata dalla grazia attraverso la fede. Tutto questo, che era molto antiluterano, e l’offrirsi dell’opera di Weigel come un compendio, quasi come il paradigma delle istanze teologiche fatte valere dall’ala dissenziente della Riforma sulla scorta della mistica tedesca, doveva fare sì che l’opera di Weigel, per inciso pubblicata interamente postuma, e alla quale si sarebbe mischiata tutta una vasta letteratura pseudoepigrafica, rimanesse il principale bersaglio polemico del luteanesimo ortodosso ancora fino agli inizi del XVII secolo. La riflessione di Weigel non presenta però un interesse puramente teologico ma anche filosofico, soprattutto per certi aspetti della sua gnoseologia. Gran parte della sua strumentazione concettuale e terminologica è d’altra parte di origine specificamente filosofica. Contribuiscono a costituirla, per citare gli autori esplicitamente citati da Weigel, Aristotele, Boezio, Seneca, Plotino, Proclo, il Corpus hermeticum, Origene, Dionigi Areopagita, Ugo di San Vittore, Nicola Cusano. Un’importante componente della sua riflessione è poi costituita dalla concezione paracelsiana del cosmo e dell’individuo. Ci occuperemo di questo aspetto della filosofia weigeliana fra non molto.

Jacob Böhme è un autore generalmente più noto e quindi potrò essere ancora più sintetico nel presentarlo. Era nato nel 1575 a Görlitz in Slesia, faceva il calzolaio, era un autodidatta, ancorché con molte letture, appartenenti a quella stessa tradizione della mistica tedesca cui si rifaceva Weigel e a ciò che costituiva una delle matrici di questa tradizione, cioè il neoplatonismo. Böhme ha lasciato una mole considerevole di scritti, un organismo di pensiero estremamente complesso, non sempre di facile decifrazione, per i cui contenuti comunque anche lui, già durante la sua vita, a differenza in questo di Weigel, era stato oggetto di violenti attacchi da parte del luteranesimo ortodosso.

Avviciniamoci un po’ alla volta al punto che ci interessa. Ho detto che Weigel, per certi aspetti della sua opera è vicino a Paracelso. Di Paracelso Weigel riprende innanzitutto la dottrina dell’uomo come microcosmo e una vasta gamma delle tematiche gnoseologiche e antropologiche che Paracelso aveva affiancato a questa dottrina. Nello Gnothi seauton, uno scritto la cui stesura risale al 1571, Weigel spiega, sulla falsariga di Paracelso, come l’uomo sia stato voluto da Dio come la più nobile e completa delle creature e quindi come tale da assommare in sé tutto ciò che era stato prodotto in precedenza: qundi, sia la sostanza corporea del mondo materiale (Weigel parla di limum terrae, di Erdenkloß), sia gli astri che sono in cielo. Adamo, dice Weigel, prima ancora che giungesse a esistere come individuo, era implicitamente contenuto nel complesso della creazione, nelle stelle, negli elementi, nei metalli, nei vegetali e negli animali. La materia da cui egli è stato generato è la quintessenza, il fünfftes Wesen, di ambedue i mondi, quello terreno e quello astrale, ciò che fa dell’uomo un condensato dell’intera natura, il Zentrum und Punckt, dice Weigel, in cui sono invisibilmente comprese tutte le cose del creato.

Quindi il mondo è nell’uomo non meno di quanto l’uomo sia nel mondo. Dice Weigel: non diversamente nel seme di una donna è implicitamente contenuto un intero individuo e in un minuscolo granello è racchiuso complicative – e qui è un termine specificamente cusaniano che viene usato – un grande albero, con tutte le sue radici, il tronco, i rami e le foglie.

Tutto ciò è mlto paracelsiano. Ecco però che questo tema dell’uomo come microcosmo va incontro in Weigel a un particolare sviluppo sul piano teologico, sviluppo suggeritogli proprio dagli insegnamenti della mistica tedesca. E cioè: sia Meister Eckhart sia, sulle tracce di Eckhart, Johannes Tauler (siamo a cavallo tra il XIII e il XIV secolo) avevano insistito nei loro scritti sulla presenza nell’uomo di un principio divino, sul darsi di una componente dell’anima umana creata da Dio a sua immagine e somiglianza, secondo quanto si legge nel Genesi. Eckhart aveva designato questo principio in vari modi – fondo dell’anima (Grund der Seele), ‘castello’ o scintilla dell’anima, custodia e luce dello spirito – precisando però che questo principio, proprio perché affine a Dio, anzi identico a esso, deve considerarsi in realtà privo di qualsiasi nome e di qualsiasi forma, «libero – aveva scritto in una delle sue Predigten, dei suoi Sermoni – e distaccato come Dio stesso». Sulle tracce di Eckart, Tauler, suo discepolo e seguace, aveva identificato questo principio con l’«uomo interiore (innerer Mensch)», con quella nobile scintilla che ci rende parenti di Dio e ci è più intima di quanto lo siamo a noi stessi, anche se ci è divenuta estranea a causa del nostro orgoglio, quello stesso orgoglio che ha causato la caduta di Adamo.

Ora, questa dottrina costituiva una base molto solida per la ripresa di un concetto tematizzato in ambito cristiano soprattutto da Agostino, ma di origine neoplatonica, e cioè quello della riconversione dell’anima a sé come via di accesso al divino. Cioè: la ricerca di se stessi, la discesa nelle profondità dell’anima fino all’incontro con questo suo nucleo riposto, il castello o la scintilla dell’anima, veniva presentata dalla mistica tedesca come ciò che assicura la conoscenza della divinità al tempo stesso che quella di sé. Conoscendo se stesso è in realtà Dio che l’individuo cnosce. Aveva scritto Eckhart: «chi vuole penetrare nel fondo di Dio, in ciò che ha di più intimo, deve prima penetrare nel fondo proprio, in ciò che ha di più intimo, giacché nessuno conosce Dio se prima non conosce se stesso». L’intuizione della divinità che si offriva in questo modo all’individuo arrivato in presenza del fondo della sua anima veniva descritta da Eckhart come il fondersi e l’immedesimarsi dell’individuo stesso con la divinità: si tratta dell’esperienza dell’unio mystica con Dio, esperienza nella quale l’anima, dice Eckhart, «si vedrà come Dio, perché in questa unione Dio e lei sono una cosa sola».

Osserviamo di passaggio che nella visione di Eckhart questo rendersi presente della divinità all’anima umana è, qualcosa di non diverso dall’autoconoscersi e pervenire all’essere della divinità stessa – dottrina che Eckhart aveva affidato all’immagine, che l’avrebbe resa celebre, di una «nascita perenne» di Dio nell’uomo. Nascita perenne di Dio nell’uomo che viene intesa, nello stesso tempo, come una rinascita dell’uomo in Dio: per Eckhart come per Tauler l’aver ritrovato il contatto con quel principio divino dell’anima, creato da Dio a sua immagine e somiglianza, comporta infatti una rigenerazione spirituale dell’individuo tale da renderlo esso stesso divino o deiforme. Precisamente questa è la fonte dotttrinale della dottrina, alla quale abbiamo accennato parlando di Wegel e dei riformatori radicali contemporanei di Lutero, della rigenerazione spirituale dell’individuo come alternativa alla dottrina luterana ortodossa di una giustificazione operata dalla grazia attraverso la fede.

Ora, e qui siamo arrivati in prossimità di uno dei concetti fondamentali che stiamo cercando di mettere a fuoco, questa conversione, questa rinascita dell’individuo, è descritta nella mistica tedesca come la morte di tutto ciò che appartiene al lato naturale dell’uomo, come una vittoria dello spirito sulla natura, sulla carne e sui sensi. Un tipico motivo di questa tradizione è quindi la ripulsa della natura sensibile, che viene contrapposta al divino e giudicata pura negatività. Questa ripulsa è particolarmente netta in Tauler, il quale scrive, ad esempio: «a ogni morte della natura certissimamente Dio sarà là, vivo e vero». Quindi, in questa tradizione di pensiero l’unificazione con Dio si subordina alla rinuncia da parte dell’individuo a tutto ciò che è natura: non solo quindi a ogni bene terreno ma anche ogni suo pensiero e volizione: proprio perché la divinità è la perfezione dell’essere, proprio perché è, come dice Eckhart, «al di sopra di ogni modo, di ogni essenza, di ogni bene», l’uomo è nelle condizioni di immedesimarsi con la divinità solo quando «è completamente vuoto di se stesso», non è più «nulla di tutto ciò che puoi conoscere e dire di lui». Come si legge nella Theologia deutsch, uno scritto anonimo composto nella seconda metà del XIV secolo e pubblicato per la prima volta proprio dal giovane Lutero – inconsapevole, in quegli anni, che stava per rimettere in circolazione una delle maggiori fonti di ispirazione per quei teologi che più rtardi avrebbe chiamato dispregiativamente Schwärmer, cioè fanatici, e su cui si sarebero accaniti i luterani ortodossi, e cioè i Karlastadt, i Sebastian Franck, i Weigel – l’uomo deve aver cessato di essere «qualche cosa» e un «io», deve «aver fatto svanire ogni qualità di creatura». Una volta che la creatura si è resa simile a Dio, annullando se stessa, e divenendo simile a quel nulla di tutto che è la divinità, la creatura attira Dio a sé e si confonde con Dio. Scrive Tauler: «allora un abisso fluisce nell’altro abisso e diventano un unico Uno, un nulla nell’altro Nulla». Eckhart, per designare il comportamento di passiva ricettività richiesto per la fusione mistica con la divinità, aveva coniato il termine di Gelassenheit, termine familiare a chi tra noi si occupa di Heidegger.

Ora, come dicevo, la dottrina dell’uomo come microcosmo, che Weigel riprende da Paracelso, viene a saldarsi in questo autore al tema, trasmessogli dalla mistica tedesca, di quella componente divina dell’anima che fa di questa un’immagine, un Bildniß, della divinità stessa. Dice Weigel: a costituire il microcosmo non solo gli elementi e il firmamento ma anche una sostanza immortale, lo spiraculum vitae che Dio ha insufflato ad Adamo all’atto della sua creazione e per il quale Adamo è un’immagine, un Bildniß di Dio stesso. E Weigel fa suo anche l’altro insegnamento che nella mistica si legava a questo motivo, e cioè quello della conoscenza di sé come via che conduce al divino. Questo porta la dottrina del microcosmo a superare in Weigel i confini della filosofia naturale a espandersi sul piano teologico. E cioè: mentre Paracelso, da medico e da studioso della natura, aveva insegnato come solo la conoscenza del macrocosmo renda possibile quella del microcosmo, come solo il sapere riguardante la natura esterna renda possibile quello riguardante l’essere umano, Weigel non solo insiste ora sul converso di questa relazione, osservando come l’uomo, contemplando se stesso secondo il suo lato terreno e caduco, possa conseguire ogni sapienza relativa alle cose del mondo, ma mette anche in rilievo come l’uomo, elevandosi dal piano della natura a quello della grazia e rivolgendo lo sguardo a quel versante di sé per la quale è un essere divino un Kind und Erbe Gottes, otterrà la visione di Dio stesso e del mondo angelico. E allora gli si faranno chiari, dice, i motivi della creazione, della caduta di Adamo e della redenzione dell’umanità operata da Cristo; gli si farnno chiari l’origine della Sacra Scrittura e il senso dei riti descritti dall’Antico e dal Nuovo Testamento; comprenderà quale sia la sua origine e la sua destinazione e quale tipo di vita debba condurre in questo mondo. La tesi che la conoscenza di sé rappresenti il più alto dei compiti cui può tendere l’essere umano, fondata sull’assunto che esso, in quanto analogo non solo al mondo ma anche al suo creatore, trova in sé la visione di Dio, è uno dei punti fondamentali della filosofia di Weigel, cui rimanda il titolo stesso dello Gnothi seauton. Scrive Weigel: «Colui che conosce se stesso secondo la natura e la grazia conosce ogni cosa, e quanto maggiore è la sua conoscenza di sé secondo questi due modi tanto maggiore è anche la sua sapienza. Costui  vede sopra di sé l’eterno Dio, suo creatore, accanto a sé gli angeli, suoi compagni, sotto di sé questo intero mondo».

Ricapitolando: per Weigel l’uomo, in quanto microcosmo comprende in sé l’intera natura, ogni entità che si trovi in terra o in cielo. Ecco perché gli è dato conoscere tutto ciò che si trova in questo mondo: perché l’ha già in sé. E questo è però solo il versante naturale dell’uomo. Infatti l’uomo possiede anche una componente sovrannaturale, che costituisce ciò per cui è un’immagine di Dio e che gli dischiude la conoscenza del divino. Naturale e divino vengono quindi a individuare in Weigel due dimensioni, due piani dell’essere del tutto distinti e anzi contrapposti, oggetto di due forme di conoscenza altrettanto distinte: una sapienza terrena, che si volge alle cose del mondo e che trattiene l’ndividuo entro il recinto della natura, una natürliche Weisheit, un sapere naturale condiviso anche dagli animali; e una più alta forma di sapienza, una göttliche Weisheit, una sapienza divina che gli consente di elevarsi dal piano del terreno e del temporale, cioè dal piano della natura, fino a congiungersi con Dio stesso, secondo gli insegnamenti della mistica tedesca e a liberarsi da ogni condizionamento derivante dal suo lato naturale.

E’ significativo a questo proposito quanto Weigel afferma a proposito delle capacità predittive dell’astrologia. Certamente, dice Weigel, questa scienza, quando si applica alla componente naturale dell’uomo, al natürlicher Mensch, completamente calato nella dimensione del vivere e del conoscere terreno, è in grado di cogliere nel segno ed è di grande utilità. L’astrologia, infatti, può rivelare tutto ciò che una persona racchiude nascostamente nel suo cuore, così come individuare, fin dalla nascita, le sue attitudini naturali. Anzi, dice Weigel, l’aver ignorato le indicazioni degli astrologi ha spesso condotto a un’errata scelta di vita, facendo sì, ad esempio, che un individuo intraprendesse l’attività di calzolaio quando la stella sotto cui era nato lo destinava a divenire uno spaccapietre o si desse alla tessitura delle stoffe quando il destino prescrittogli dalle stelle era quello di orefice. Ma, appunto, il potere degli astri non si estende oltre la componente naturale e terrena dell’essere umano, quindi Weigel assume che una persona che si sia ricongiunta a quell’elemento soprannaturale che in lei è nascostamente presente si sia procurata con ciò anche una nuova nascita (una neue Geburt, dice Weigel, riprendendo una tipica espressione della mistica tedesca), non più segnata dall’impronta di questa o quella stella. Così, in generale, tutto ciò che ha un’origine divina è anche svincolato dal fato astrologico. Dice Weigel: gli astrologi si sforzerebbero inutilmente di ricondurre a questa o quella configurazione astrale le vicende della storia sacra, l’operato dei profeti e degli apostoli, di Davide o di Salomone. Proprio la prevedibilità o meno di un evento in base ai calcoli astrologici è anzi il criterio in base al quale si può stabilire se esso dipende da Dio o da cause puramente naturali. Così, il fatto di aver pronosticato con successo la nascita di una nuova setta o di una nuova concezione teologica è un segno sicuro del fatto che questa setta e le sue concezioni non sono divinamente ispirate ed sono quindi false, dal momento che la vera teologia trascende il piano della natura e non rientra tra le scienze che hanno la loro origine negli astri.

In questo contesto si colloca la ripresa da parte di Weigel del tema mistico della Gelassenheit quale via per ricongiungersi all'Uno divino. E cioè: spogliandosi di ogni desiderio, di ogni possesso, di ogni contenuto di conoscenza, rinunciando a essere questo o quello, ad affermarsi come questo o quello, l'individuo si omologa a quel nulla di ogni cosa particolare che è Dio e lo obbliga a donarsi, in quanto,  come avevano insegnato i teurgi neoplatonici, è proprio del simile essere attratto dal simile. Ricordiamo quello che aveva detto Tauler: «un abisso fluisce nell’altro abisso e diventano un unico Uno, un nulla nell’altro Nulla».

Ora, questa rinuncia a se stesso dell’individuo è tutt’uno con la rinuncia alla propria natura, a tutti quegli impulsi che costituiscono la sua natura sensibile e che si compendiano nel concetto di amore di sé, di amor sui, Selbstliebe. Già in una delle sue prime opere, il Vom Gesezt oder Willen Gottes (ca 1570), Weigel aveva spiegato come la volontà di Adamo, nella sua condizione di innocenza precedente la caduta, fosse tutt’uno con la legge di Dio e come obbedire a questa legge non costasse ad Adamo alcuno sforzo ma Adamo vi si conformasse spontaneamente, ricavandone gioia, beatitudine. Adamo possedeva quella che Kant più tardi avrebbe chiamato una volontà santa, una volontà cioè nella quale la legge morale si impone spontaneamente senza che si debbano fare i conti con gli impulsi della natura sensibile, cioè dell’amor sui, che vanno in direzione contraria. Adamo, dice Weigel, era in perfetto accordo con se stesso, la sua carne, l’elemento naturale, non confliggeva con il suo spirito e non vi era bisogno di alcun comandamento o di alcuna legge scritta che gli imponesse questa o quella condotta dall’esterno. Adamo non conosceva il male e il bene e non doveva decidere tra essi perché non poteva fare che il bene. Poi, una volta assaggiato il frutto proibito, una volta resosi indipendente dalla volontà divina, ogni azione di Adamo avrebbe richiesto una faticosa decisione fra il male e il bene, gettandolo in una condizione di perenne inquietudine, di dissidio interiore. E l’imposizione di comandamenti scritti ne sarebbe seguita necessariamente, come contromisura all’essere Adamo continuamente tentato dal male, cioè da se stesso e dalla propria carne, e al poter scegliere di darsi a esso piuttosto che al bene. Adamo, dice Weigel, si sarebbe scoperto intimamente scisso (getheilet in ihm selber). Ora, questa condizione tragica in cui Adamo ha precipitato se stesso e l’intera umanità va attribuita proprio alla pretesa di Adamo di rendersi simile a Dio e di sottostare anch’egli unicamente alla propria volontà. La colpa di Adamo è stata quella di andare in cerca di sé, differenziando la propria volontà da quella divina. Come si legge in uno scritto weigeliano che oggi si sospetta inautentico, l’Einfeltige Ubung zur Bereitung des inneren Menschen mit Gotte, ma che si inserisce in un corso di pensieri indubbiamente weigeliano, l’allontanarsi di Adamo da Dio mediante la contrapposizione della propria volontà alla sua gli ha fruttato il costituirsi della sua stessa identità personale, della sua Ichheit, Meinheit, Selbheit; questo acquisto ha avuto però per conseguenza un destino segnato dall’angoscia, da una perenne afflizione.

L’unica via percorribile per giungere all’adunatio cum Deo, per tornare a far coincidere la volontà propria con quella divina, è quindi quella della Gelassenheit, cioè la rinuncia dell’individuo alla volontà propria, a ogni suo agire – rinuncia a quella componente di sé che è pura natura. Dice Weigel nel Von warer Armut der Geistes oder gelassene Gelassenheit (1570), parafrasando Tauler: «Non appena cessa la creatura assieme al suo agire ha inizio Dio ed è esso che comincia a operare». E spiega ancora in questo scritto, sulla traccia del sermone Beati pauperes spiritus di Eckhart: Gelassenheit significa sostanzialmente tre cose: nulla volere, nulla sapere, nulla avere. Il non voler nulla non può semplicemente consistere nella rinuncia a qualsiasi oggetto del volere parziale e limitato ma comporta che si tenga lontano da sé lo stesso desiderio di Dio, perché il permanere di questo desiderio significherebbe che dopo tutto l’amor proprio non si è completamente spento e si desidera ancora qualcosa per sé. Veramente povero in spirito è quindi chi non solo ha dimenticato se stesso e si è distaccato da tutte le cose ma che neppure sa più perché se ne è distaccato. Non sapere nulla vuol dire sospendere ogni attività del giudizio e dei sensi, rimanere indifferenti nei riguardi di ogni possibile conoscenza, sgombrare l’animo da ogni contenuto della ragione e dalla stessa consapevolezza di sé. Nulla avere significa essersi spogliati, prima ancora che dei propri beni materiali, di qualsiasi possesso spirituale e ciò, ancora una volta, spingendo la rinuncia fino al rigetto del suo stesso scopo: quell’uomo che sia pervenuto all’indifferenza nei riguardi di tutte le cose, compresi se stesso e Dio, e però ancora conservi nel suo animo un luogo in cui Dio possa far ingresso e operare, costui ancora non è pervenuto alla vera Gelassenheit perché ancora possiede qualcosa. Viceversa, a chi sia veramente gelassen e abbia fatto il vuoto anche nell’angolo più riposto della sua coscienza neppure possedere un intero regno sarebbe di ostacolo nella sua ascesa a Dio. La Gelassenheit si configura quindi come un difficile percorso di autotrascendimento, un percorso nel quale elevarsi alla sommità dell’essere coincide con il precipitarsi nell’abisso del nulla. Da un lato la Gelassenheit è una dura pratica di mortificazione che investe sia la sfera affettiva sia quella teoretica dell’individuo, imponendogli di recedere da tutto ciò che lo costituisce come tale fino all’odio e alla ripulsa di sé; dall’altro come il cammino che dalle sofferenze, dalle angustie della vita terrena lo conduce fino in presenza di Dio, anzi ad avvertirsi tutt’uno con esso, procurandogli il più ineffabile dei godimenti. Nelle pagine di Weigel il concetto di Gelassenheit si presenta quindi in tutta la sua paradossalità, come una sublime strategia del volere, con cui si mira al sommo bene con il rinunciarvi in piena sincerità, si ricerca la conoscenza più alta spregiando con tutto il cuore il conoscere stesso, si vuole il tutto impedendosi di volere alcunché.

Nella visione di Weigel il ritorno al divino coincide dunque con la ripulsa di tutto ciò che nell’essere umano si fa ricondurre al principio della natura: nella fede, scrive Weigel nello Gnothi seauton, l’uomo dipende da Cristo e si ciba dall’albero della vita, nell’empietà (Unglaube) dipende dalla natura e dal vecchio Adamo; non appena la natura cessa, viene detto ancora in questo testo, subentra Cristo ovvero la grazia, come nei fanciulli, i quali sono capaci di uno spontaneo abbandono a Dio; e ancora, scrive Weigel nel Vom Ort der Welt: là dove agisce e regna la natura non possono agire e regnare né Cristo né la grazia.

All’interno di questa concezione, quindi, naturale e divino individuano due piani dell’essere nettamente distinti e anzi contrapposti, fra i quali l’individuo deve fare una scelta: aderire alla propria natura sensibile rinnovando il peccato di Adamo e destinandosi all’infelicità e all’angoscia oppure rinunciarvi, cioè rinunciare all’amore di sé in cui si compendia tutto ciò che in noi è natura, e immedesimarsi con Dio, dissolvere la propria volontà nella sua, raggiungendo la beatitudine.

 

Fin qui Weigel e la tradizione da cui Weigel dipende: da un lato il divino, dall’altro il naturale, come due dimensioni dell’essere nettamente distinte e contrapposte.

Veniamo a Böhme, ora. Nel momento in cui Böhme, attraverso le sue letture, accede a questa concezione che abbiamo trovato in Weigel, vi apporta una trasformazione che da un punto di vista teologico è a abbastanza sconvolgente. E cioè: se per Weigel e per la tradizione che gli sta alle spalle Dio e natura sono termini antitetici, divino e naturale sono due dimensioni tra loro separate e contrapposte dell’essere, tra le quali non vi è alcun passaggio, Böhme ora ci viene a dire che anche Dio ha una natura, anche se si costituisce come Dio, nasce eternamente come Dio, proprio nel momento in cui rinuncia a questa sua componente naturale, perviene al suo superamento, alla sua Überwindung, attraverso un processo che non è altro che la trasposizione nella sfera del divino di quel percorso di superamento della propria componente naturale che Weigel e la tradizione alla quale Weigel si rifà avevano indicato come la via che l’individuo deve percorrere per giungere alla beatitudine. Per Böhme, cioè, la natura è una componente necessaria sia dell’uomo sia di Dio. E sia l’uomo sia Dio si realizzano nella loro essenza più vera nel momento in cui si lasciano alle spalle questa loro matrice originaria, la loro natura, che è però al tempo stesso una condizione ineliminabile, proprio perché deve necessariamente pensarsi come la base e il puntello di questa ascesa verso un piano superiore di esistenza. E cioè: la novità di Böhme, la sua cifra teologica, consiste nell’aver trasposto sul piano del divino quel percorso di autotrascendimento che Weigel e la mistica tedesca avevano descritto sul piano dell’umano, cioè nell’aver teorizzato come la Gelassenheit sia un esperienza che si richiede a Dio non meno che all’uomo. Consiste in questo e nell’aver messo in rilievo come il momento della natura sia sì, per l’uomo come per Dio, negatività, ma non pura negatività, perché il darsi di una natura è la condizione ineliminabile per transitare verso un piano più alto di esistenza. Se il momento della natura non si desse neppure potrebbe prendere avvio il processo che conduce al suo superamento.

Il percorso che in Böhme conduce a questa concezione è un percorso molto complesso, che francamente dispero di riuscire a descrivere in modo soddisfacente nel tempo che mi rimane. Cercherò di indicare le svolte fondamentali di questo percorso, tenendo presente più l’intenzione di fondo dell’autore, la direnzione verso cui tende la sua riflessione, più che il modo in cui la sua visione si precisa nei particolari.

Il punto di partenza della teosofia böhmiana è costituito dal concetto del nulla divino. E cioè: considerata in se stessa, «ausser aller Natur», al di fuori della natura, cioè a prescindere dalla natura che si darà nel corso del suo autosviluppo, la divinità, la Gottheit, è il Nulla, è il “Nulla di tutto” della tradizione neplatonica, e il «Deus absconditus» di quella cristiana. La divinità, infatti, in quanto è l’origine e il principio esplicativo del tutto, non può identificarsi con alcuna cosa in particolare e venir pensata come essere essa stessa. E’ quindi un né questo né quello, né bene ne male, né luce né tenebre.

In mancanza di alcunché che la divinità già non sia e verso cui possa mettersi in movimento Böhme la descrive come una quiete eterna, una ewige Ruhe, esente da ogni inquietudine e intenzionalità o anche come un puro chiarore, una luminosità che ancora non si potrebbe definire luce, dal momento che la luce già comporta una direzionalità, un punto di diffusione nello spazio distinto dall’ombra che lo circonda e quindi un’interna differenziazione. Il termine con cui Böhme nei suoi scritti più maturi sistematicamente la designa è quello di Ungrund, il senza causa o senza fondamento, a significare il suo essere incondizionatamente per sé, il suo non derivare da nulla. Ora però, dice Böhme, descrivendo la realtà divina in questi termini puramente negativi si opera un’astrazione, si isola ciò che è solo un aspetto del suo essere. Il Nulla divino è infatti tutt’uno con un’altrettanto incondizionata volontà di manifestazione e automanifestazione, una «volontà eterna – dice Böhme –di condurre il nulla a essere qualcosa». Bisogna cioè pensare che a Dio in quanto Nulla eterno sia connaturata una tensione verso l’essere e che il Nulla eterno sia anzi tutt’uno con l’aspirazione a condurre se stesso all’essere e a rivelarsi. Scrive Böhme nel De electione gratiae: «Nella divinità increata e priva di natura non vi è nulla più se non una sola Volontà, la quale anche si chiama il Dio unico. Tale Volontà vuole unicamente questo: trovare e afferrare se stessa, uscire da se stessa e, con questo suo uscire, giungere a essere contemplabile». Osserviamo che ritorna in Böhme, proprio al punto di avvio della sua teosofia, il concetto di volontà divina che era già al centro della teologia di Weigel, nella quale il singolo era chiamato a rinunciare alla volontà propria e a dissolverla in quella di Dio.

Ora, per venire all’essere e costituirsi come un’autentica realtà la divinità «ausser aller Natur», la divinità fuori della natura, deve darsi una base su cui edificare se stessa, una matrice da cui emergere: deve darsi, cioè, una natura. La teoria della «ewige Natur» di Dio, della natura eterna di Dio, teoria estremamente complessa su cui Böhme ritorna continuamente nei suoi scritti, descrive appunto il processo atemporale e perennemente rinnovato attraverso cui la pura essenza della divinità, la Gottheit – termine che Weigel riprende da Eckhart –  che in se stessa non è ancora ente ma solo forza di porlo, perviene a dotarsi di una natura, per trascenderla nel momento stesso in cui la pone e realizzarsi in tal modo come Dio .

La volontà di affacciarsi all’essere, di manifestarsi, è quindi ciò che dà avvio al processo attraverso cui Dio genera se stesso, al ciclo della «ewige Natur», che si articola in sette figure o Gestalten, comme le chiama Böhme.

Prima Gestalt: questa volontà, dal momento che non sussiste altro al di fuori di lei, non può avere che sé come oggetto; la volontà divina quindi si volge a sé, si cerca, si ottiene, ma come desiderio (Begierde), come fame insaziabile, forza che attrae incessantemente a sé, qualità amara e astringente. Questa volontà attira dunque se stessa in sé, implode, si coagula, si sovrappone a se stessa rendendosi in questo modo opaca e tenebrosa. (Se in queste espressioni qualcuno può cogliere un eccesso di pathos, va detto che sono un tentativo di tradurre il tipico linguaggio di Böhme, che nel descrivere questo processo di autosviluppo del nulla divino non parla il linguaggio di altri filosofi che si sono assegnati questo tipo di compito, dai neoplatonici a Scoto Eriugenea, un linguaggio che rimanda a puri concetti, ma parla il linguaggio dell’affettività, dell’emotività, perché è una vicenda in primo luogo emotiva questa dell’autorealizzazione di Dio).

 La volontà divina diviene quindi tenebra (Finsterniβ). Ora, in quanto tenebra, questa volontà volontà non è già più un puro nulla; l’oscurità è infatti una qualità e dove vi è una qualità vi è comunque un qualcosa. Quindi, introducendosi in questa prima figura del ciclo, l’essenza della divinità, dapprima evanescente, assume durezza, compattezza, sostanzialità – determinazioni che non vanno naturalmente intese in senso materiale, dal momento che ci si muove qui nell’ambito della natura divina, non di quella materiale di questo mondo e qualsiasi riferimento sensibile vale solo in senso spirituale. Attraverso il desiderio Dio si conferisce quindi, dice Böhme, «Substanz und Wesenheit», sostanza ed essere, dal Nulla che era assume spessore e concretezza spirituali, arrivando in questo modo a cogliere se stesso nella dimensione dell’Ichheit o Selbheit, cioè in quella stessa dimensione di affermazione della propria individualità che in Weigel e nella mistica tedesca era propria dell’uomo non gelassen, dell’uomo che si chiude nel recinto della natura, propria individualità. «Comprendiamo – dice Böhme a proposito di questa prima Gestalt del processo di autopoiesi divina – che il desiderio è il fondamento dell’Ichheit», cioè ciò che conduce Dio ad affermare la propria individualità, il proprio Io. Ichheit, Selbheit erano i tipici termini attraverso cui Weigel e la mistica tedesca avevano designato la dimensione spirituale e psicologica dell’uomo che ancora non ha rinunciato all’affermazione egoistica della propria individualità, che non è ancora un uomo senza qualità come avrebbe detto, molto più tardi Musil. E’ comunque questo il primo fuoriuscire di Dio da sé verso di sè, il passo iniziale che Dio compie verso l’autorealizzazione della sua essenza.

Questa prima figura o Gestalt della ewige Natur conferisce dunque concretezza e lineamenti all’Ungrund dapprima impalpabile, ineffettuale, della divinità.

Ecco però che, di fronte alla forza centripeta di questa prima Gestalt, ne sorge un’altra, anch’essa implicita nel desiderio, radicata nel desiderio, ma di direzione contraria. E cioè: dal momento che l’Ungrund è, per essenza, totale indeterminazione, negazione di ogni limite finito – è in una parola Freiheit, libertà dall’essere questo o quello – la sua volontà di automanifestazione non si appaga nel rendersi concreto, avvertibile, empfindlich, come gli succede nella stretta della prima Gestalt, la qualità astringente e tenebrosa, ma il suo desiderio ora, è simultaneamente, quello di sfuggire a questa stretta e far ritorno alla sua libertà e indeterminazione originarie. Quindi, ciò che la prima forza addensa e aggrega questa seconda forza si adopera a scomporre, a frammentare e questo è ciò che introduce nel pleroma germinale della divinità la separazione, il movimento, la vita. E’ un fattore di interna articolazione della sostanza compatta uscita dalla prima Gestalt. Un passaggio dell’Uno nel molteplice. Ora, questo conflitto che si determina tra la prima e la seconda Gestalt ha le sue radici nella medesima volontà di automanifestazione divina ed è quindi un’intima scissione di questa volontà, un suo dissidio interiore, che come tale produce angoscia. Non meno dell’uomo, quindi, Dio fa esperienza dell’angoscia sulla strada della realizzazione di se stesso, di quella stessa angoscia che in un Weigel era la condizione spirituale di  Adamo, dopo la sua caduta, e della sua progenie.

Le due forze in contrasto tra loro danno quindi luogo alla terza Gestalt, che ha appunto nome Angoscia (Angst) e che Böhme rappresenta con l’immagine di una ruota trascinata in un moto vorticoso. E’ da essa che ha origine ogni contrasto cui, dopo la creazione si assisterà in natura ed è anzi il fondamento stesso del «Grimm der Natur», della collera della natura, di quel cieco avvicendarsi di generazione e distruzione che caratterizza il «natürliches Leben», il vivere nella natura.

Ora, bisogna immaginare che nel suo rivolgersi vorticoso la ruota dell’angoscia si arroventi e cominci a bruciare, produca una fiamma, un fuoco spirituale che non cessa di imperversare nella ricerca famelica di qualcosa da distruggere e incorporare. L’essenza di questo fuoco spirituale è la dissipazione di tutto ciò che sussiste nell’essere e la cieca distruttività. Costituisce la quarta Gestalt della ewige Natur, nella quale tutto il movimento fin qui descritto si compendia sotto il segno dell’ira divina (Gottes Zorn). E’ da questa figura che ha origine il Dio collerico e vendicativo del Deuteronomio. Nelle prime quattro figure del ciclo si rivela il lato terribile e collerico di Dio, l’energia e l’impeto vitale della sua Allmacht, che si traduce in un mondo di tenebre e di fuoco. Questo complesso di forze ignee e oscure costituisce la vera e propria componente naturale della divinità, il principio che Böhme designa come «Centrum der Natur». E’ ad esso che più precisamente ci si riferisce quando si parla di una Natur dell’essere divino.

Questa quarta Gestalt è però anche una figura di passaggio, che contiene in sé il germe dialettico capace di dischiudere l’accesso a una nuova dimensione di Dio. La fiamma, infatti, non è solo un ardore divorante ma è, nello stesso tempo luce, rischiaramento dell’oscurità, vittoria sulle tenebre. E’ però questa luce non potrebbe apparire se non vi fosse quello che Weigel descrive come l’operare impetuoso e dissolvente del fuoco. Ecco quindi che in questo chiarore spirituale originato dalla quarta Gestalt l’essere della divinità trova la via per conciliare la spinta a rendersi reale e sostanziale, concretamente sussistente, con quella a preservare la sua indipendenza e immunità da ogni determinazione particolare. Questa fuoriuscita dal conflitto è l’amore, quinta Gestalt della «ewige Natur». Perché la conciliazione è possibile grazie all’amore? E’ possibile, pensa Böhme, perché l’amore è unità che si diffonde nel molteplice e molteplice armoniosamente raccolto in unità. E’ quindi ciò che compone il dissidio tra l’uno e i molti, tra la spinta ad affermarsi come individuo e quella a permanere liberi, indeterminati, senza qualità.

In questa quinta figura del ciclo Dio si scopre quindi come luce e come amore, forza di sintesi e conciliazione delle differenze, ma per rivelarsi a se stesso in questa forma è dovuto necessariamente passare attraverso l’esperienza tormentosa del fuoco e dell’angoscia. Senza le tenebre – scrive Böhme - la luce non avrebbe potuto essere, né senza il dolore sarebbe stata possibile la gioia (31). Era quindi inevitabile ai fini dell’autorealizzazione della divinità che Dio si desse una Natur, mettesse in moto il turbine violento ma vitale delle sue forze per elevarsi al di sopra di esso e affermarsi come Geist. Scrive Böhme: «E’ in tal modo dato comprendere  come la santa vita di Dio non sarebbe manifesta (offenbar) senza la Natur, ma vi sarebbe solo un perenne silenzio, nel quale non potrebbe esistere nulla ... La santità e l’amore di Dio non sarebbero manifesti; se devono esserlo o diventarlo deve darsi qualcosa di cui l’amore e la Grazia non possono fare a meno e che non è uguale all’amore e alla Grazia. E questo è il Wille der Natur, (la volontà della natura) il cui corso vitale consiste nel conflitto (Wiederwärtigkeit): di questo necessitano l’amore e la Grazia perché la pena possa trasformarsi in gioia».

Ecco, quindi, per concludere – perché ai fini del discorso sulla natura che volevo fare non è necessario seguire l’autosviluppo dell’essenza divina fino al suo compimento nella settima Gestalt – che la natura, come dicevo all’inizio, diviene in Böhme una condizione formale dell’essere con cui deve fare i conti non solo l’uomo, secondo quanto insegnavano Weigel e la mistica tedesca, ma Dio stesso. Naturale e divino non sono più pensati come due dimensioni dell’essere nettamente distinte e in conflitto l’una con l’altra ma come due termini di un rapporto dialettico che si richiedono vicendevolmente. Dio stesso ha una natura cui deve rinunciare per divenire Dio, ma in assenza della quale neppure potrebbe avere inizio il processo che conduce alla sua divinizzazione.

Fino alla fine del ‘700 inizi dell’’800, quando Böhme è stato rilanciato da Baader, la sua fortuna in ambito tedesco era stata scarsa. Poi è cominciato un vero e proprio revival böhmiamo  e sappiamo con quanto entusiamo Schelling si sia dedicato alla lettura delle sue opere. Si sarebbe anche tentati di vedere nella dottrina böhmiana della ewige Natur una sorta di prefigurazione visionaria della Fenomenologia dello spirito di Hegel, di quella storia dettagliata della Bildung della coscienza che la Fenomenologia ricostruisce. Forse non è un caso che le forme del divenire divino in Böhme e quelle della coscienza autocriticantesi in Hegel siano designate con lo stesso termine: Gestalten. E forse altrettanto poco casuale  è il ricorrere sia in Böhme sia in Hegel del concetto di Begierde (desiderio) che ha un ruolo centrale in ambedue: come impulso iniziale del processo di autoindividuazione divina in Böhme, come determinazione essenziale della coscienza in marcia verso l’autocoscienza in Hegel.

Spero anche di essere stato convincente nel mostrare come a questo riposizionamento del concetto di natura, che costituisce uno dei tratti più originali e anche più dirompenti del suo pensiero, Böhme arrivi partendo dagli assunti della mistica tedesca e di chi, come Weigel, nella generazione precedente li aveva nuovamente portati alla ribalta. La vicenda dell’autosviluppo della divinità ripete infatti, nei suoi tratti fondamentali quella, tematizzata in questa tradizione, dell’individuo umano avviato alla Gelassenheit.

 

*(Testo della lezione svolta nell’ambito del Seminario sul concetto di natura per i partecipanti al Dottorato “Forma e storia dei saperi filosofici” - Lecce, Gennaio 2006)