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L’orgia è nazionalpopolare

di Luca Leonello Rimbotti - 18/10/2008

 

Senza femmina non è nazionalpopolare

La civiltà nostra, storicamente manifestatasi con l’eroismo guerriero e il volontarismo faustiano, non avrebbe potuto imprimere i suoi millenari sigilli se non fosse scaturita come una sorgente naturale dal ventre della sua femmina. Non una a caso, ma proprio la sua femmina, quella che intagliò per prima lo stigma primordiale, un pezzo unico, una matrice irripetibile. Quella nazionalpopolare è l’ideologia del recupero rivoluzionario delle nostre radici ancestrali nel bel mezzo della demenza cosmopolita. In questo senso, essa compie il suo primo passo riconoscendo all’origine il valore di un segno di nobilitazione, riposante sul tipo arcaicissimo fra tutti. E quando si dice l’origine si dice essenzialmente la femmina. Quella femminile è la religione della Natura e dell’Eros: su questo ceppo è nato l’Eroe fondatore e, insieme ad esso e a sua protezione, il Nume indigete ha potuto dispiegarsi con la forza di una folgore vittoriosa unicamente perché qualcuno o qualcosa intanto teneva accesa la fiamma di Hestia con gesto immutato. Come una garanzia di continuità che ha attraversato tranquillamente le epoche permettendo che la civiltà avanzasse poggiando su tre momenti di sacralità essenziale: il suolo, la culla, la memoria. Tutti e tre patrimonio della femmina: quindi, più esattamente, e nel vero senso della parola, matrimonio.

Vi sono nella Grande Origine due disposizioni avviluppate in una: la femmina che è guaina, custodia - letteralmente: vagina - e il maschio che è lama sguainata, atto estroflesso che, partendo dall’origine, come freccia scoccata nell’ante-quem, si impadronisce del destino collocato nel post-quem. Inoltre, con la femmina che è anche lei guerriera e il maschio che è anche lui custode, in quanto devoto ai lari di schiatta, abbiamo due figure complementari e scambievoli: sono l’Eroe e la Madre in grado di vivere l’un l’altra i reciproci simboli, completando il cerchio di perfezione con la condivisione dei ruoli.

Entro questi parametri ruotano armonicamente, e con la perfezione di un congegno meccanico di portata cosmica, la metafisica, la simbolica, la politica e la società che, piaccia o non piaccia, hanno fondato l’Europa così come è stata. Dandole una cultura, dei confini fisici e psicologici e un’identità certa che erano rimasti retaggio ininterrotto e sostanzialmente inalterato sino alle aggressioni mondialiste di oggi.

La nostra Tradizione è un libro spalancato, scritto nei secoli dalla nostra gente sotto la diretta dettatura di Madre Natura. Le gerarchie, gli ordini, i giuramenti di stirpe, i riti rurali, le simbologie di fecondazione, quelle di nascita e di genealogia, il senso dell’eredità e la fierezza di legame parentale: tutto questo poderoso retaggio è da ascriversi alla presenza della nostra femmina nel nostro mondo immaginale come nelle nostre più antiche istituzioni civili. Tutto era dipeso, e fino a ieri, da alcuni caposaldi della concezione del mondo che era stata egemone, diciamo le cose come stanno, da Omero a Mussolini senza che sostanzialmente intervenissero fratture apprezzabili. Lo ius sanguinis, in questo quadro, non era che il diritto della femmina trasmesso in linea retta ereditaria. I patronimici non contavano che per le anagrafi. Ciò che scorreva era il sangue delle madri, quando ogni donna era madre e ogni madre una officiante del rito di trasmissione del gene. Solo questo contava. E tutto il resto veniva da sé. Quando il Grund della vita, il fondamento eraclitèo e heideggeriano dell’Essere era così ben protetto e garantito, la vita e la psiche erano saldi e potevano lussureggiare le arti, la poesia, le tecniche, persino le pericolose sregolatezze del genio e i più folli viaggi della psiche.

I valori della femmina, infatti, non sono soltanto l’immutabile e il continuativo: femminile è anche, e senza contraddizione alcuna, il loro opposto, cioè l’orgiasmo incontrollato, che crea la sfida grandiosa della sicurezza sospinta a un passo dall’autodissoluzione. Tale è l’ebrezza mistica che infrange la regola per misurarne la solidità, tale è la follia entusiastica dei gesti estremi e radicali, degli eroismi supremi, delle mistiche assurde, degli irrazionalismi fanatici che dominano certe stagioni, certi attimi in cui il riconoscersi non passa dal sereno raziocinio, ma dall’inoltrarsi insieme negli sprofondi di spazi mentali accomunanti.

È Platone, non uno qualsiasi, che riconosce alla follia orgiastica precisamente un ruolo d’ordine nei ranghi della partecipazione comunitaria: il Dio della dissoluzione (una dissoluzione che tuttavia non rovina, ma riedifica a un più elevato livello) penetra negli interstizi della società, nelle pieghe della mente, nelle dinamiche associative con la furia di un vento di tempesta. La rupe che si distacca in volo e diventa un nobile rapace, e che muove dall’immobile diventando onda di trascinamento. Il Dionisismo non fu forse la ricerca dello stato “selvatico” dell’origine, quando la società ancora in nuce era solo il sangue che pulsa ma, pur ancora priva di codici e riti civili, ascoltando i suoi istinti infallibili già aveva fatto dell’uomo soprattutto un erede? La parola di Dioniso è la parola della manìa, dell’anamnesi: sacra e santa follia del ritorno alla cellula prima, al seme d’origine rammemorante…e il ritorno del seme a se stesso è reimmersione totale nella panteistica natura primigenia.

Il mondo indoeuropeo conosce bene questi estremi. Dioniso e il suo omologo Shiva non sono che emblemi della potenza racchiusa nella naturalità del bios, quando la carne e la mente, non ancora lavorate e appiattite dal freno inibitorio del Super-Io tirannico e razionalista, si presentano come vergini potenze in atto. E Dioniso e Shiva sono la nostra femmina in noi. Essa ha bisogno dei suoi scatenamenti. E noi ne viviamo, come fossero oasi di verità nuda nelle quali abbeverare la nostra ritornante voglia di purezza e di profondità. L’Anima che ci parla, l’Anima junghiana che è la nostra metà femminile, è il contatto col primordiale. Tutte le civiltà tradizionali hanno sempre avuto cura di non recidere questo filo d’oro che ci lega all’istinto della selva oscura che ci cresce dentro, e tra le cui umide penombre, come fosse un’epigrafe appena ricoperta di frondosa vegetazione, è possibile scorgere incisi e ben chiari gli intatti caratteri della nostra identità eterna.

Perduta l’animalità dionisiaca assicurataci dalla femmina germinale, ogni potenza, ogni potere è perduto. Avete presente cosa successe all’atto dell’omicidio di Cesare in Senato? Una scena tremenda si svolse nel pieno centro di Roma: il cadavere del Capo appena sacrificato, d’istinto dalla folla proclamato genius e subito divinizzato, fu fatto sfilare tra masse di popolo che si dettero all’isteria e al deliquio, stracciandosi le vesti, danzando coribanticamente fino allo sfinimento e alzando alte invocazioni di gioia e di dolore, di estasi e di possessione…Sono scene come questa che indicano che il potere esteriore, politico, quando è vero e innestato su un inconscio comunitario di solida tenuta, conserva nel suo centro occulto una potenza originaria che in certi momenti cardinali erompe irrefrenabile, come un’arcana capacità di pervenire all’immediato contatto con le fonti istintuali governate dall’energia matriarchica latente. La voce del sangue comunitario, sparso ritualmente, e assistito dalla fanatica liturgia dell’eccesso estatico, assicura con i suoi poteri una sempre rinvigorita continuità nell’identità. È il trionfo del basamento femminile della comunità organica, nella sua spettacolare dinamica di riemersione allo scoperto. Non altrimenti si è sempre espressa, presso i nostri popoli, la liturgia legata al culto dei morti, gli avi, e a quello dei morti combattendo, gli eroi. Essi sono una spoglia sepolcrale che, lungi dall’essere morte nel senso di negazione della vita, vogliono dire morte nel senso di più vita, di accensione della tensione vitale, di celebrazione della volontà di vivere spesa sino all’illimite. L’eroe è, come la madre, colui che si dona, che si offre puro alla comunità.

A questo proposito, vogliamo richiamare l’attenzione sul fatto che, a volte, quasi inspiegabilmente, questi valori ottengono riconoscimento anche in rari osservatori contemporanei. Ci sono osservazioni che sono sintomi…E citiamo come esempio lo sbalorditivo parallelo avanzato qualche tempo fa dalla storica Daniela Gagliani (studiosa delle Brigare Nere) circa «la cultura del sacrificio, del vivere e morire per l’altro», da lei rintracciata allo stesso modo nel codice genetico della femminilità e nell’etica della fedeltà e del sacrifico degli ultimi fascisti di Salò. Pensate: questi uomini, oggi maledetti, sottoposti a infamia, divenuti simboli malvagi, li si dicono votati alla morte grazie a un orgoglio derivante dalla «totale oblazione di sé» allo stesso modo delle madri…Paragonato lo spirito volontaristico dei combattenti della RSI allo spirito delle madri, la studiosa ha scritto che «più che a padri-guerrieri, siamo di fronte a madri-guerrieri, per la cultura del sacrificio di sé…». Dove mai potremmo noi trovare dalle nostre parti una simile sensibilità, una così sottile capacità di introiezione dei veri aspetti riposti, oltre le propagande dell’odio e oltre l’ignoranza.? Paragoniamo questa sensibilità alla rozzezza di chi ha proclamato con arroganza il dogma antifascista, pur dovendo precisamente ai fascisti la poltrona su cui siede…Paragoniamo questa profonda acutezza della studiosa alla volgarità di chi, per cinismo e interesse, ha propalato la menzogna del “male assoluto”…Il milite volontario - e proprio il più demonizzato, il più odiato: il brigatista nero…- e la femmina…si tratta di riverberi di arcaismi da far accapponare la pelle, mondi interiori di cui la subcultura della mondializzazione, nella sua piramidale ignoranza, neppure sospetta l’esistenza.

In Grecia, nera era la spoglia dell’eroe, a richiamare il colore della terra in cui l’uomo d’eccezione - così come tutta l’inestinguibile catena degli avi indistinti - si reintroduce come in una casa del padre, e insieme della madre, alla quale necessariamente fare ritorno: la madre-patria a cui Hölderlin, il poeta che si diceva “la voce del popolo”, non poteva non riandare.

E nera è Erda, la norrena e wagneriana Divinità della Terra Madre, che si erge sulle vicende dell’uomo esprimendo la gloria del tragico, che è la bellezza di vivere sospinta fino all’estremo limite della morte. Il senso del destino viene esso pure come un richiamo dalle lontananze della femminilità occulta. In greco antico, la parola “eroe” significava soprattutto “protettore”: ed ecco qua la scaturigine prima di un significato di continuità tra la vita e la morte, garantito da chi sopra tutti protegge per istinto la vita, cioè la femmina. Donarsi rischiando e morendo - in altre parole - significa proteggere le possibilità estreme della vita, significa vivere molta più vita che sopravvivere astenendosi e trascinandosi. E, non per caso, proprio dal culto dei morti nacquero le religioni misteriche, legate all’idea del viaggio iniziatico a ritroso e al raggiungimento dell’origine attraverso la prova eroica.

La custodia di questa eredità è la custodia della potenza occulta. Il Dionisismo come il Tantrismo vedico furono atti di volontà istintuale attinta dal bacino delle forze avìte: la Shakti, il potere sovrano di rompere le catene - foss’anche proprio quelle da noi stessi stabilite: la legge, la consuetudine…- era la più grande garanzia che l’andare oltre era possibile, era una “via” di crescita spirituale, di avvicinamento alla divinità, di ingresso nella sfera della dilatazione coscienziale…poiché soltanto la capacità gerarchica di infrangere la nostra legge ci dà il diritto di farcene una nuova e superiore. Così sorgono le rivoluzioni e solo così si riavvia la storia. Altrimenti, non vi sarebbe mai stato nella storia alcuno spengleriano “salto vitale” o heideggeriano “balzo dell’essere”, in grado di mutare e rilanciare spirito, anima e realtà politica, forme fisiche e stili, filosofie e arti.

Nella nostra condizione, noi possiamo dire soltanto poche cose, ma molto chiare. Nonostante le gravissime degradazioni a cui da secoli la nostra civiltà è sottoposta da parte del crescente razionalismo, ogni tanto sono state possibili insorgenze della Begeisterung europea, che giunsero come eruzioni laviche a correggere il corso degli avvenimenti e ad evitare precipizi irrimediabili. Tali insurrezioni dello Spirito volontaristico agitato dall’Anima femminile insita nella civiltà bianca furono ad esempio il Neopaganesimo ermetico cinquecentesco, il Romanticismo, il Futurismo. Nel campo nei valori politici, questa Begeisterung che era stata dei poeti, dei maghi, dei profeti, dei veggenti, dei febbricitanti di apocalittico risveglio, ebbe una sua clamorosa impennata con l’avvento del Fascismo italiano e del Nazionalsocialismo tedesco, quello delle performances tantriche di massa a Norimberga, quello del matriarchico binomio di Blut e di Boden, che per qualche anno mise l’Europa drammaticamente davanti a se stessa, costringendola a scegliere tra l’essere e il non-essere. E l’Europa, demonicamente sedotta dall’alito pesante dell’ipocrisia che usciva dalle fauci dell’Antieuropa americana, come sappiamo scelse il non-essere, cioè l’essere qualcos’altro-da-sé, e da allora alla femmina ha tenuto dietro in Europa la parodia liberista del “femminismo” e tutte quelle caricature neo-schiavili che stanno alla base dell’arruolamento delle leve femminili nei ranghi del produttivismo, del mercantilismo della bellezza, della monetizzazione del corpo.

Questo tragico tradimento della Tradizione iperborea di purezza e di profondità viene oggi quotidianamente pagato dai nostri popoli, che nell’affronto della globalizzazione vivono anche la più umiliante stagione in cui tutto ciò che è “femmina” in una stirpe : il suolo, la nascita, la passione scatenante per i propri simboli, la voce del sangue…è vittima dell’odio implacabile, della vendetta isterica, dello sfregio voluti da chi detiene le leve del controllo psichico e materiale del mondo.

Sentire e pensare profondo e ancora di più, sospingere immagini di mente e istinti vitali e flussi di giovane sangue all’inverosimile e ancora un po’ oltre, vivere di corpo e di anima al più grande livello delle possibilità umane, significa fare spazio alla femmina ancestrale che è in noi, liberarla dai sedimenti razionali, sprigionarne le potenzialità trattenute dal pensiero “positivo”: quel dannato vizio dei nani libertari che è paura di vivere e terrore di morire ma che essi, tra di loro, chiamano con gli ingannevoli nomi di uguaglianza, pace, fraternità universale, sicurezza, progresso e altri spaventosi complessi… La femmina eterna, ignara di queste manifestazioni della malattia e della debolezza psichica di uomini fàttisi pulviscolo, incarna la Tradizione di lotta, di gerarchia e di ordine che è espressa dalle leggi di natura. E ciò la colloca al centro dell’universo della rivoluzione tradizionale fondata sul bios, che è sempre stata la legge scritta e non scritta e il volto vero dell’Europa, e che noi oggi interpretiamo come ancora possibile e anzi probabile. Così come possibili, e a volte probabili, sono i benefici scatenamenti tellurici di riassestamento.

 

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