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Socialità, economia, ambiente naturale: tre sfide per la grande politica

di Carlo Gambescia - 20/10/2008

Lo scontro in atto sul clima tra Roma e l'Unione Europea, si preannuncia di grande intensità e interesse. Di conseguenza il suo esito non può non attirare l’attenzione di tutti coloro che abbiano a cuore la sorte del nostro pianeta. Per chi desideri documentarsi rapidamente sui suoi aspetti tecnici rinviamo qui (http://www.repubblica.it/2008/10/sezioni/ambiente/clima-vertice-ue-2/clima-vertice-ue-2/clima-vertice-ue-2.html). Mentre per una ricostruzione e informazione non conformiste ma impeccabili, si legga il bel post di Marco Cedolin ( http://ilcorrosivo.blogspot.com/2008/10/berlusconi-guai-chi-tocca-la-co2.html ).
Noi vorremmo invece proporre ai lettori alcuni riflessioni, legate alla relazione più generale tra socialità, economia e ambiente naturale. Tre sfide importanti per la politica. A prescindere dal noioso teatrino tra destra e sinistra. Nei termini delle famose “costanti” sociali e politiche di cui spesso parliamo.
Quando si discute di questioni ambientali si corrono sempre due rischi. O si considera la natura come qualcosa di indipendente dall’uomo, con le sue leggi eterne, come fa certo “fondamentalismo verde”. Oppure la si concepisce come un universo manipolabile economicamente ad oltranza, come sostengono i mercatisti (per usare un termine giornalistico). I quali celebrano le leggi, altrettanto imprescrittibili, di un mercato onnivoro.
Crediamo che la verità, almeno dal punto di vista sociologico sia nel mezzo. La natura è sottoposta a cicli ecologici ed economici. In senso sostanziale, questi ultimi, come li intendeva Karl Polanyi e certa economia storicistica e antropologicamente fondata: quelli della tribù, della città-stato, dell’impero, dello stato regionale, dello stato nazione. Cicli ecologici ed economici di cui si deve tenere conto. Tuttavia anche la società ha le sue costanti, più generali, alle quali ubbidire. E una di queste costanti rinvia alla forza espansiva della socialità umana. Di che cosa parliamo?
L’uomo tende a riprodursi, non solo biologicamente, ma anche socialmente. E in che modo? Creando intorno a sé, anche nei contesti più sfavorevoli, le condizioni materiali e culturali che gli consentono di riprodursi socialmente. E ciò implica la progressiva manipolazione della natura. La storia umana, con le sue civiltà, ma anche con le sue guerre, e i suoi diversi sistemi economici, testimonia questa “volontà di manipolazione sociale”. Che non è altro che il motore di una socialità umana. Che però - ecco il punto - superati certi limiti fisiologici, rischia di auto-distruggersi.
Qui si apre l’intrigante capitolo del rapporto tra socialità, natura ed economia. Infatti, la volontà di sopravvivere, manipolare e svilupparsi anche nelle situazioni meno adatte rischia di essere messa a dura prova dallo sfruttamento economico intensivo dell’ambiente. Una crescente fame di risorse, - oggi alimentata ad arte per scopi speculativi - che ne rappresenta il risvolto negativo. Facciamo due esempi.
Si pensi alla capacità di adattamento e sviluppo di certe comunità di immigrati: “gli irregolari”, che spinti da una globalizzazione economica selvaggia, riescono a ricostituire nei luoghi più impensati delle nostre città, comunità materiali e culturali di vita . Certo, ben al di sotto di quegli standard che spetterebbero loro come persone, dotate di diritti e doveri sociali. Ma si pensi anche alle stesse capacità di resistenza, mostrate dai cittadini “regolari”, che vivono in città sempre più inquinate, a causa di un aggressivo sviluppo capitalistico, che si vorrebbe privo di regole. Che intendiamo dire? Che pur vivendo in contesti economici e sociali diversi, gli uomini mostrano eguali capacità di vivere e riprodursi. Ma fino a quando vi riusciranno?
Il vero dilemma, infatti, è rappresentato dai due volti della socialità umana: per un verso è forza di integrazione, perché permette di sopravvivere nelle condizioni più difficili; per l’altro rischia di disintegrare le condizioni stesse della vita sociale, esplicitandosi, come è sotto gli occhi di tutti, in una manipolabità di tipo esclusivamente economico, come quella rappresentata e condotta da un capitalismo sempre più selvaggio e inquinante.
Ovviamente, non pretendiamo qui di risolvere i massimi problemi della condizione umana. Tuttavia un punto va chiarito.
La dialettica tra integrazione e disintegrazione ha bisogno, semplificando al massimo, di una risposta politica. Il fatto che la socialità umana da forza positiva rischi sempre di trasformarsi in negativa, richiede decisioni politiche, e non solo economiche o ecologiche, anche forti e capaci per impedire questo processo negativo ( o comunque attenuarlo). E la decisione politica deve essere in grado di creare ma anche di gestire il conflitto. E per tornare alla querelle tra Berlusconi e l’Ue, il Protocollo di Kyoto va interpretato, pur criticamente, come una “Decisione Politica” che lungo una scala macro-micro, si propone di gestire una situazione, introducendo regole, e serve istituzioni, allo scopo di dirimere “politicamente” i conflitti ecologici ed economici.
Certo decisione, considerato lo strapotere economico dei monopoli inquinanti (ma questa è un’altra storia…) da accettare in modo critico. Ad esempio sul mercato delle emissioni di CO2 (Ets, Emission trading scheme), una specie di "Borsa", la cui creazione prevista dal Protocollo di Kyoto, permetterebbe agli operatori virtuosi (coloro che hanno ridotto le proprie emissioni) di vendere i tagli in eccesso alle imprese rimaste invece indietro, qualche dubbio lo avanziamo anche noi. Perché sussiste il rischio - solo il rischio per il momento - che si trasformi in un mercato dei derivati simile a quello dei mutui subprime.
Ma come dicevano i latini, De minimis non curat praetor, e perciò torniamo alle considerazione generali.
Insomma, se la socialità umana, scorre come le acque di un fiume, dall’alto verso il basso. Irrorando i campi, ma spesso anche allagandoli, fino a distruggere, con rovinose piene, villaggi e città. Allora servono dighe o comunque opere di sistemazione capaci di evitare alluvioni e rovine. Fuor di metafora: se la globalizzazione, come esclusivo motore di uno sviluppo capitalistico privo di regole e spesso antisociale, provoca immigrazione e inquina l’ambiente, allora va contrastata. E si tratta di un compito che spetta alla politica. Che introducendo per decisione regole e, se occorre, nuove istituzioni, (le dighe di cui sopra) permetta alla socialità umana di svolgere la sua opera senza provocare (eccessivi) danni, soprattutto all’ambiente.
Si dirà che il nostro è un discorso astratto, da teorici. Forse.
Ma non lo è meno di quello dei fondamentalisti verdi o degli strenui difensori del mercato. Perché anch’ essi, partono da una visione della socialità umana, ovviamente opposta alla nostra. Ma più ristretta. Mentre, in realtà, è da una visione sociologica (come capacità di rappresentare l’uomo nella chiave più larga possibile, e non solo ecologica, economica, eccetera), che si deve ripartire per poi giungere alla politica, quella vera. Dal momento che la decisione circa i contenuti delle regole e delle istituzioni (le dighe…) da introdurre, riguarda - ripetiamo - solo la politica.
Ma vediamo, anche per concludere, quali sono le divergenze di fondo tra i due fondamentalismi.
Per l’ambientalismo radicale la socialità umana non è al centro della natura, ma viene ricondotta nell’alveo di una socialità animale di specie tra le altre specie. Per il fondamentalista dell’economia capitalistica, la principale forma di socialità umana è quella economica. Per il primo, l’uomo è un animale tra gli animali, che una volta “liberato” dalle costrizioni sociali sarà capace di ritrovare individualmente il proprio equilibrio ambientale. Per il secondo, l’uomo deve solo credere nel dio-mercato, dal quale giungerà prima o poi la salvezza, magari grazie all’utilitaristica scoperta di qualche miracoloso “ritrovato” contro l’inquinamento globale (ovviamente a “pagamento”, non sia mai nessun pasto è gratis…). Entrambi, insomma, credono nei meccanismi autoregolatori del mercato o della natura animale dell’uomo. E rifiutano le “dighe” umanissime della politica. Frutto di una visione, come speriamo di aver mostrato, fondata sull’accettazione di costanti sociali, capaci di inglobare e dare senso epistemologico e politico alle visioni parziali.
Ma fino a quando potranno permetterselo di ignorarle? La risposta, dipende anche da noi, o meglio da tutti coloro che credono nella forza della grande politica. Che - ripetiamo - introducendo per decisione regole e, se occorre, nuove istituzioni, (le dighe di cui sopra) permetta alla socialità umana di svolgere la sua opera senza danneggiare (o quantomeno non eccessivamente) l’ambiente naturale e la qualità della vita umana su questo pianeta.