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Un'economia per il mondo reale

di Thomas Palley - 10/02/2006

Fonte: Nuovi Mondi Media


Mancando il binomio keynesianismo-istituzionalismo, con ogni probabilità la globalizzazione andrà incontro a un brusco arresto. Allo stesso modo, i politici progressisti ben intenzionati in America e in Europa si ritroveranno disorientati finché continueranno ad abbracciare il pensiero liberista che domina all’interno delle università

Molti americani hanno giustamente individuato nella Cina, nei deficit derivanti dal commercio incontrollato e nella concorrenza in stile Wal-Mart le incombenti minacce per l’economia americana. Tuttavia, gli stessi si trovano in difficoltà quando si oppongono alla storia del libero mercato/libero commercio raccontata dagli economisti mainstream, secondo la quale tutti questi fattori costituirebbero, nel lungo periodo, un vantaggio per l’America.

In un mio articolo precedente ho spiegato in che modo l’economia mainstream sia stata attirata da idealizzazioni liberiste pesantemente disseminate di un’ideologia politica di contrabbando. Ora è giunto il momento di introdurre un’economia alternativa realistica. I problemi economici dell’America possono solo essere risolti per mezzo di una valida politica basata su una solida analisi economica, per trovare la quale gli americani devono dare uno sguardo al proprio passato.

La Grande Depressione degli anni Trenta fu un’epoca di burrascosi dibattiti economici, i quali, sebbene ora il larga parte confinati ai libri di storia, rivestono un’importanza essenziale per l’attuale sfida della globalizzazione. L’economia di quel periodo era caratterizzata da insensibilità, evidenti disuguaglianze in termini di ricchezza e pericolosi cicli di crescita e recessione. Questi problemi sono infine stati risolti attraverso una combinazione di riforme istituzionali del New Deal e politiche keynesiane di stabilizzazione economica. Sebbene alcune riforme di quel periodo possano risultare sorpassate, i principi economici che le hanno motivate rimangono integri. È paradossale il fatto che l’ideologia che potrebbe aiutare ad affrontare il nostro attuale malessere sia stata abbandonata da molti che un tempo hanno difeso quello stesso pensiero.

Le politiche emerse dalla Grande Depressione gettarono le basi della prosperità che seguì la Seconda Guerra Mondiale. Purtroppo però, la familiarità e il successo tendono a generare oblio. Come conseguenza, il pensiero forgiato sull’incudine di quei tempi difficili è stato gradualmente cancellato e sostituito da un pensiero rinvigorito dell’era del libero mercato antecedente la Grande Depressione. Guidati da questa ondata intellettuale, i governanti hanno creato una moderna variante dell’economia Vittoriana derubricata col nome di ‘globalizzazione’.

Le condizioni economiche attuali sintetizzano gli anni Venti, un periodo nel quale l’America ha conosciuto un boom dei crediti e una bolla speculativa mentre il resto del mondo attraversava un periodo di relativa stagnazione. Si spera che il pensiero che accompagnava la politica del periodo successivo alla Grande Depressione non vada completamente perduto, al fine di evitare un’altra grande recessione economica. Tuttavia, evitare semplicemente una recessione non è sufficiente. La sfida consiste nel progettare politiche che ancora una volta siano in grado di generare quella prosperità ampiamente condivisa che ha caratterizzato i primi decenni del dopoguerra. E affinché ciò avvenga, sarà necessario recuperare quel pensiero economico che è stato relegato (dall’economica mainstream) ai libri di storia.

Un contributo duraturo dell’era della Grande Depressione proviene dall’economista inglese John Maynard Keynes, il quale identificò l’importanza della domanda totale per determinare il livello di occupazione in un paese. La domanda totale è definita come l’aggregato di famiglia, impresa e spesa pubblica all’interno dell’economia. La disoccupazione può essere il risultato della riduzione della spesa da parte di impresa e famiglie. Nella migliore delle ipotesi, i mercati possono subire un forte rallentamento per far fronte a declini del genere, mentre nel peggiore dei casi possono rimanere intrappolati con disoccupazione elevata e persistente.

Keynes si rese conto che il sistema dei prezzi dell’economia di mercato non garantisce automaticamente una domanda totale adeguata, e ciò che funziona per un singolo settore, non funziona automaticamente per l’intera economia. Nei mercati individuali, i prezzi più bassi fanno diventare i beni relativamente più economici, facendo in modo che le famiglie o le imprese non acquistino altri prodotti. Tuttavia, questo meccanismo non funziona per l’economia nel suo insieme, poiché tutti i prezzi (compresi i salari) sono al ribasso così che non c’è né la possibilità né l’incentivo per aumentare la spesa. Ancora peggio, il meccanismo potrebbe operare all’opposto poiché i prezzi in calo accrescono la portata dei debiti e dei pagamenti di interesse, il che riduce la domanda e può anche far fallire il sistema bancario.

Di conseguenza, è necessario che lo Stato intervenga e stabilizzi la domanda per evitare risultati del genere. Questa è la classica politica keynesiana, qualche volta definita anche politica anticiclica del ‘deficit spending’ . L’essenza del principio è il seguente: quando la domanda della famiglia e dell’impresa decresce, i governanti di uno Stato dovrebbero intervenire e, attraverso la spesa federale per l’infrastruttura e tassi di interesse più bassi, arrestare la spirale verso il basso e sostenere l’economia.

Un secondo contributo fondamentale, ora dimenticato, proviene dagli economisti americani cosiddetti “istituzionali”, i quali hanno rimarcato l’importanza della natura della concorrenza. Il più celebre sostenitore vivente di questa scuola americana è John Kenneth Galbraith. Mentre l’analisi di Keynes ha dato i natali alla moderna macroeconomia, gli istituzionalisti americani si sono concentrati sulle debolezze microeconomiche del sistema. Queste erano definite in termini di “minaccia competitiva”, un concetto che richiama la logica attuale della “corsa verso il basso”, esemplificata da Wal-Mart.

Gli istituzionalisti non misero in dubbio l’idea che il tornaconto personale e il profitto siano i motori principali dell’azione economica, ma si resero conto che la loro ricerca poteva portare a risultati sub-ottimali. Ciò che sembra massimizzare il benessere da una prospettiva individuale può essere sub-ottimale non appena subentra l’interazione competitiva di azioni. Quindi, se Wal-Mart si rifiuta di pagare le indennità sanitarie, gli altri rivenditori sono obbligati ad andare nella stessa direzione per rimanere concorrenziali e poter sopravvivere in termini economici. Allo stesso modo, se Wal-Mart ottiene i propri prodotti da tutto il mondo, anche gli altri rivenditori sono costretti a farlo. Il risultato è la riduzione dei lavori industriali americani e degli stipendi. I salari non aumentano nemmeno nei paesi in via di sviluppo perché Wal-Mart li mette tutti contro la Cina.

Una prospettiva del genere porta all’idea dei “regimi di concorrenza” e la politica dovrebbe mirare a creare un ambiente competitivo nel quale le famiglie che lavorano possano prosperare. La sfida consiste nel progettare istituti di controllo (regimi) che equilibrino il bisogno keynesiano di flussi stabili di domanda e reddito con il bisogno capitalista di incentivi economici. Tale regolamentazione del mercato previene sia eccessive fluttuazioni dei prezzi sia i tipi di monopolio e sfruttamento del periodo precedente alla Grande Depressione, che hanno indebolito reddito e spesa pubblica americani.

Il New Deal incarnò molta della politica istituzionalista sotto forma di leggi che stabilivano un salario minimo, le 40 ore lavorative settimanali, il diritto al lavoro straordinario e il diritto di iscriversi a sindacati. Questi diritti del lavoro integravano le leggi sulla sicurezza dei prodotti del consumatore. Il New Deal ha anche introdotto una legge che regola i mercati finanziari, la quale si combina con la legislazione precedente che designava la Banca Centrale come ente regolatore del sistema bancario. Queste norme nel loro insieme stabilirono un regime economico che escludeva la competizione distruttiva, assicurava una distribuzione equa del reddito alla “Henry Ford” – per mezzo della quale i lavoratori potevano acquistare ciò che producevano - e preveniva le tendenze del mercato alla deflazione.

Visto sotto questa luce, l’istituzionalismo americano ha fornito una nuova ideologia microeconomica che è andata logicamente di pari passo con l’analisi macroeconomica di Keynes. Le politiche keynesiane monetaria e fiscale hanno stabilizzato il ciclo economico, mentre la regolamentazione istituzionalista del mercato ha creato il ceto medio, e assieme hanno garantito la straordinaria prosperità dell’era posteriore alla Seconda Guerra Mondiale.

Ciononostante – e paradossalmente - proprio mentre queste politiche venivano messe in pratica, furono bandite dalle lezioni e dai libri di testo di economia. Se da una parte il keynesianismo ha ottenuto grande riconoscimento, la sua controparte microeconomica non raggiunse mai una tale importanza. Una ragione risiede nel fatto che l’istituzionalismo si focalizzava sui difetti peggiori del capitalismo, cosa che era politicamente inaccettabile durante il periodo di competizione geopolitica della Guerra Fredda. Questo ha significato la messa al bando dell’istituzionalismo dalle classi dalla fine degli anni Cinquanta, con il suo conseguente ostracismo dai corsi di politica e dalle camere legislative dalla fine degli anni Settanta.

La globalizzazione ha nuovamente innalzato lo spettro della competizione distruttiva, richiedendo una rinascita del pensiero istituzionalista. Tuttavia, questo pensiero è ora allontanato e rimosso dal trionfalismo del libero mercato che ha caratterizzato il periodo successivo alla Guerra Fredda.

Questo comporta conseguenze pratiche e politiche enormi. Mancando il binomio keynesianismo-istituzionalismo, con ogni probabilità la globalizzazione andrà incontro a un brusco arresto. Allo stesso modo, i politici progressisti ben intenzionati in America e in Europa, avendo cura di affrontare i problemi della globalizzazione, si ritroveranno disorientati finché continueranno ad abbracciare il pensiero liberista che domina all’interno delle università.

Questo rischia di rendere i progressisti estranei alla politica economica. Nel corso degli anni Trenta, l’economia del momento non si dimostrò all’altezza della sfida della Grande Depressione, obbligando a sviluppare nuove idee economiche. Lo stesso accade oggi per la globalizzazione.



Thomas Palley è stato capo economista dell’US–China Economic and Security Review Commission (Commissione parlamentare su economia e sicurezza USA-Cina – NdT). È autore di 'Plenty of Nothing: The Downsizing of the American Dream and the Case for Structural Keynesianism' e di 'Post Keynesian Economics: Debt, Distribution, and the Macro Economy'.

 

*Mother Jones


Fonte:
http://www.motherjones.com/commentary/columns/2006/01/progressive_economics.html
Tradotto da Arianna Ghetti per Nuovi Mondi Media