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Un brutto segno

di Zvi Schuldiner - 11/02/2006

Fonte: Il Manifesto

 
Finalmente si sente la voce del primo ministro provvisorio. È la voce di Olmert, lo spirito di Sharon. Nel frattempo Israele si prepara per le elezioni nel clima surreale creatosi dopo i risultati davvero scioccanti delle elezioni palestinesi. Le trattative su Hamas e sul suo possibile ruolo nella formazione del governo palestinese e le dichiarazioni di Olmert rendono più difficile il processo, ma allo stesso tempo permettono di chiarire alcuni dei malintesi che dominano l'analisi politica della situazione. Sia in Israele sia all'estero gli effetti della ritirata unilaterale da Gaza hanno accecato molta gente. Con un grande generale a capo del governo, con un generale come Sharon con tante ombre nella sua problematica carriera, dal massacro di Quibia negli anni '50, la repressione a Gaza negli anni `70, la guerra del Libano negli anni `80, il «non sapevamo nulla di Sabra e Shatila» nel 1982, con Sharon era facile inventare l'immagine di un De Gaulle israeliano. Perché guardare i fatti?

Perché ascoltare alcuni esponenti dogmatici e disorientati della sinistra, che non capiscono la vera politica, che non accettano di vedere il grande cambiamento? Olmert, lo chiarisce bene, come se fosse la bocca dell'oracolo. Sharon riposa quasi dimenticato in ospedale. Durante le prime due settimane della sua malattia, l'isteria ha dominato i mezzi di comunicazione nazionali e internazionali, minuto per minuto siamo stati informati dei minimi dettagli e oggi, paradossalmente, il grande generale, non merita quasi nessuna menzione nella stampa israeliana. Ma il suo spirito regna e il partito Kadima sembra il grande erede del messaggio. Qual è il messaggio? È tutto davvero poco chiaro, ma ciò attrae molti israeliani che desiderano di vedere i continuatori del grande Sharon come un grande centro pragmatico che potrebbe forse offrire una via d'uscita dai pericoli dell'estremismo, un rifugio dalle diverse possibilità reali, siano quelle del pacifismo o quelle della destra radicale. Meglio non pensare e nascondersi dietro un messaggio deformato e poco chiaro. Il primo ministro lo chiarisce in qualche misura: Israele è disposto a proseguire nella ritirata e, come lascia intravedere, continuerà con una politica fondamentalmente unilaterale. Non parleremo con i terroristi, continueremo la lotta, colpiremo con forza e disegneremo la cartina dei nostri interessi, lasceremo gran parte dei territori ma rimarremo ad Ariel, Gush, Etzion, Male Edomim, e così via.Conviene tradurre tutto questo per chi non sempre capisce la cartina. I vari posti che menzionano gli avvocati della ritirata unilaterale implicano l'imposizione ai palestinesi di una soluzione territoriale che li riduce a cantoni separati senza reale autonomia e sotto la dominazione israeliana. Immaginare che questo abbia qualche relazione con la pace è ignoranza o ottusità politica.

Il famoso muro dell'odio diventa la possibile frontiera futura, e mentre la destra estrema di Israele grida ormai di dolore per il tradimento di Olmert, persino gli americani si vedono obbligati a dichiarare di non essere favorevoli a passi unilaterali e a preferire la strada del negoziato. Gli americani stanno vivendo in uno stato di massima confusione. Da un lato pensavano di poter applicare il principio della democrazia anche allo sconvolto Medio Oriente, specialmente se ciò, a parte il suo valore estetico, può creare dei governi docili. Ma all'improvviso la democrazia gli è esplosa violentemente in faccia: il popolo palestinese, uno dei più avanzati e politicamente sviluppati nella regione, manda a casa i corrotti rappresentanti dell'inefficiente Autorità Palestinese.

In Egitto il governo, negli ultimi giorni, tratta con Hamas. Il regime desidera convincere il fondamentalismo islamico che deve rendere più pragmatica la sua linea e abbandonare una piattaforma che si basa sulla lotta armata e sull'eliminazione di Israele. Persino l'ala dura di Hamas sembra oggi più pragmatica e comincia a trovare formule che potrebbero trasformare la sua ascesa al potere in qualcosa di più digeribile per la comunità internazionale. La pressione economica, che secondo alcuni è importante, fa parte dell'ignoranza e della confusione esistente. L'appoggio economico della comunità internazionale alla comunità internazionale è una grande invenzione che ha favorito enormemente il governo israeliano. Dal punto di vista del diritto internazionale la responsabilità per la sussistenza della popolazione occupata è dell'occupante. Con la costituzione dell'Autorità Palestinese Israele si è liberato dalle sue responsabilità, anche quando negli ultimi anni i territori, compresi quelli che si suppone che siano sotto il «governo» dell'Autorità, si trovano ad essere chiaramente occupati e dominati, da tutti i punti di vista, dalle forze israeliane.

«Rendere pragmatica» Hamas, una formula fra le altre, passa oggi attraverso l'accettazione della decisione della Lega araba (proposta dall'Arabia Saudita) di andare alla pace con Israele in cambio di una ritirata totale alle frontiere del 1967. Mentre alcuni dei leader del Movimento sembrano essere favorevoli all'idea, resta una questione essenziale e vari leader di Hamas l'hanno detto chiaramente. Si possono trovare formule pratiche per un cessate il fuoco più o meno prolungato con Israele, ma resta la questione chiave: credere alla santità della terra non permette di rinunciare alla stessa. Grazie e Dio, questa posizione è la stessa di quella dei fondamentalisti ebrei, ma di segno opposto. Per il momento, in Israele, questo fondamentalismo è minoritario. Se la linea fondamentalista diventa il nucleo centrale attorno al quale ruota l'azione di Hamas è molto difficile vedere chi potrà accettare, in Israele, di intraprendere iniziative serie con il Movimento. Negli ultimi giorni, anche in ambienti pacifisti radicali israeliani si sono sentite voci che invitano a ricordare che si deve prendere davvero seriamente la posizione del fondamentalismo che accetta soluzioni pratiche ma rifiuta un reale compromesso storico. Ciò significherebbe la possibilità di moderare il conflitto a breve termine ma con una ferita aperta che dovrebbe portare ad un nuovo confronto sanguinoso nel futuro, un futuro non necessariamente lontano. Gli incidenti a Hebron sono un brutto segno. L'uso e l'abuso demagogico in vari paesi islamici delle caricature danesi come «attacchi inaccettabili per valori islamici» è una chiara imbecillità o cretinismo, specialmente in società invase da caricature razziste contro gli ebrei, gli israeliani, i cristiani e ogni genere di «eretici». Ma quando i gruppi palestinesi a Hebron attaccano gli osservatori internazionali in città - un aiuto politico prezioso alla popolazione palestinese - obbligano i danesi a scappare e distruggono gli uffici, si tratta di un'esplosione demenziale, priva di qualsiasi sagacità politica. Amira Hass, giornalista del quotidiano israeliano Haaretz, una delle più coraggiose e militanti osservatrici della società palestinese, segnalava ieri la sua preoccupazione per le diverse interviste fatte a dei palestinesi, nelle quali la posizione più chiara è quella che invita alla vendetta.I crimini delle forze di occupazione israeliana devono essere condannati chiaramente, ma quando la risposta è la vendetta, personale o di organizzazioni politiche, usciamo dal discorso politico ed entriamo in quello di una continua guerra tribale, che sarà molto difficile vedere come va a finire. A ciò si deve aggiungere che la disintegrazione della società palestinese è enorme e si manifesta, per esempio, nella enorme quantità di milizie armate. In molti casi il ricorso alla violenza avviene già all'interno del nucleo familiare. Ognuno deve possedere armi e queste diventano uno strumento di decisione all'interno della società palestinese. La piaga della violenza unisce e intensifica i mali dell'occupazione.

Questi sono giorni difficili. Chi vuole contribuire al processo dovrà pensare a come uscire da formule irreali per decidere chiaramente quali sono le possibilità di giungere a negoziati che portino a una pace reale. Si devono cercare tutte le vie del dialogo, ma senza perdere di vista alcune questioni fondamentali, senza viziare le posizioni per essere «simpatici» a qualcuna delle parti. Senza viziare le proprie posizioni, dicendo chiaramente di no a coloro che cercano di imporre posizioni, dicendo chiaramente di no a coloro che sostengono posizioni che negano i diritti dell'altro popolo.


(traduzione di Marcella Trambaioli)