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Scuola? Era meglio fare il pescatore come mio padre...

di Marina Monego - 30/10/2008

Fonte: lankelot.eu


“Anch’io avrei avuto bisogno di un buon drenaggio. Sono stato, in tutti questi anni di liceo, una pianta a cui dovevano drenare il terreno. Possibile che non si siano accorti che ingiallivo? Ingiallivo e mi marcivano le radici. Ma niente, hanno continuato a innaffiarci. Facile: porti ogni giorno la tua bella pompa e giù acqua. Tutti livellati a bagno nello stesso terreno intriso d’acqua da far paura: tutti belli marci” (p. 180).
Questa la considerazione, alla fine del Liceo Scientifico, di Gaspare Torrente, ragazzino studioso, promettente, con l’hobby della coltivazione degli alberi in casa.
Il libro della Mastrocola risulta per certi aspetti ironico e divertente, di facile lettura e comprensione, per altri versi tragico e avvilente, in particolare laddove riflette le condizioni della scuola italiana e i livelli di mediocrità e ottusità raggiunti.
Gaspare Torrente è un ragazzo di tredici anni, originario di una piccola isola non precisata del Mediterraneo. D’intelligenza vivace, molto portato soprattutto per il latino, si trasferisce, su consiglio degli insegnanti, a Torino con la madre per poter proseguire gli studi al Liceo Scientifico.
Mentre il padre rimane sull’isola a lavorare (tra pesca e turismo), madre e figlio vanno a vivere presso la zia materna, vedova. Sarà lei a dire sempre a Gaspare che le sembra “una barca nel bosco”.
Per vivere la mamma di Gaspare apre una gastronomia e così il ragazzino cresce e studia tra odore di fritto, polpette e vasche d’insalata russa, vergognandosi un po’ e sentendosi diverso rispetto ai griffati, benestanti e spesso stupidi compagni di classe.
Il libro è diviso in cinque parti, corrispondenti agli anni di Liceo e poi agli studi universitari di Gaspare (s’iscriverà dapprima a Scienze della Comunicazione e poi a Giurisprudenza, dove si laureerà con una tesi su Rutilio Namaziano).
A suo modo, “Una barca nel bosco” è un romanzo di crescita e formazione, scritto dal punto di vista del protagonista, Gaspare. Il linguaggio cresce col narratore, ma è comunque semplice, a frasi piuttosto brevi, con alternarsi di considerazioni ingenue e riflessioni profonde ed originali.
L’autrice, che è insegnante e quindi conosce bene i ragazzi, ha il buon gusto di non scadere mai nella volgarità e di non far penetrare nel suo testo il turpiloquio, Gaspare è un ragazzino diverso da tutti gli altri e non riesce neppure a dire le parolacce.
Il primo impatto con la realtà scolastica cittadina è devastante per l’isolano Gaspare: non è alla moda (clamorosi i primi giorni di scuola: tutti i compagni, che calzano candide Nike, gli guardano le scarpe con la suola di para e i lacci. Non appena, con sacrifici, riesce a comperarsi le Nike, la moda è cambiata e si usano la Puma nere), non conosce PlayStation, pc e telefonino, non ha genitori ricchi e borghesi, è intriso di mentalità popolare fatta di antiche massime e proverbi, buon senso e rassegnazione: “la vita è quella che è, dice sempre mio padre, e quindi bisogna prenderla com’è” (p. 13).
La prosa riflette il suo disorientamento e il suo stupore per le novità con cui viene a contatto, ma anche la sua delusione per una scuola che Gaspare credeva impegnativa e che invece si rivela mediocre, lenta nell’insegnare (una settimana viene spesa solo per l’accoglienza ), incapace d’incoraggiare la libera iniziativa, l’originalità e lo spirito critico dei ragazzi.
L’appiattimento dei livelli è massimo e gli insegnanti sono dei mediocri, spesso in ritardo a lezione, non fanno che abbassare le richieste minime e semplificare gli argomenti (il latino dev’essere “agile flessibile”).
L’intelligenza di Gaspare finisce per venir mortificata e svilita, il ragazzo è un escluso, non fa amicizie, la sua cultura è decisamente superiore a quella degli ignorantissimi compagni, ma non viene minimamente apprezzata.
Per più di un anno Gaspare viene letteralmente ignorato dai coetanei. Considerato un “extraterrestre”, solo in seconda liceo inizia a venire parzialmente accettato, si adegua alle abitudini e alle mode dei compagni, distribuisce la traduzioni di latino a tutti, anche se la differenza di ceto sociale e di gusti si fa sempre sentire (a Gaspare non piace la PlayStation, non sa andare a cavallo, sua madre non può accompagnarlo e andarlo a prendere in auto a tutte le ore del giorno e della notte alle varie feste in ville lussuose sulle colline).
Pur di inserirsi Gaspare arriva al punto di studiare meno in modo da prendere voti più bassi ed essere al medesimo livello dei suoi compagni.
A parte la psicologa scolastica dell’Ora di Ascolto – una figuretta gentile cui Gaspare finisce per raccontare buona parte della sua vita, a volte però dicendole quello che lui pensa le faccia piacere – gli altri insegnanti non fanno che mortificare l’intelligenza di Gaspare, che rivela acutezza nel tradurre dal latino e grande desiderio d’apprendere.
Gaspare cresce tra due figure femminili: la zia Elsa, più protettiva, e la madre, sempre indaffarata a lavorare per la gastronomia, una donna semplice con qualche difficoltà a capire le esigenze del figlio e il suo desiderio di essere come gli altri.
Il padre è purtroppo una figura lontana, con la quale Gaspare desidererebbe parlare, ma che invece viene tenuto, per volontà della madre, all’oscuro di qualsiasi problema del figlio. Rimarrà un rapporto irrisolto e doloroso per Gaspare, un rapporto fatto più di omissioni e di silenzi che di dialogo.
Durante gli anni del Liceo, Gaspare fa amicizia con un unico ragazzo, un emarginato come lui, l’“avulso” Furio, di famiglia borghese, appassionato inventore e costruttore di pelouches.
Col passare del tempo Gaspare acquista sempre maggior consapevolezza di sé e capacità critica, si fa almeno accettare dai coetanei e finalmente conclude il Liceo. I suoi compagni vanno quasi tutti a studiare all’estero, compreso Furio; Gaspare finirà a Giurisprudenza.
La realtà universitaria non è però molto diversa da quella liceale: appiattimento, mediocrità e soprattutto cortigianeria e servilismo imperano.
Per potersi laureare Gaspare è costretto ad abbassare il livello della sua tesi, seguendo i consigli dell’assistente Svitiglio:
“Mi prende da una parte e mi spiega che il professore ha ragione, io nella tesi ci ho messo troppe idee, troppa originalità, cosa volevo, strafare? Mi spiega che bisogna essere più umili in una tesi, citare quelli più vecchi di noi con tanto di data e luogo di edizione e basta. Al massimo ogni tanto dire che la cosa anche a noi sembra così, che il tale o il tal altro, secondo il nostro modesto parere, hanno proprio ragione.
[…]
Svitiglio mi cancella tutte le frasi in cui siano espresse delle idee o anche solo se ne veda un barlume, e mi insegna due cose fondamentali: citare, cioè disseminare un buon numero di frasi altrui nella pagina; e ridire, in altro modo, le cose che sono già state dette dagli altri. È un vero maestro. Non so cosa avrei fatto senza di lui” (p. 201).
Il perverso meccanismo del clientelismo escluderà Gaspare da una brillante carriera d’avvocato e così, scartata l’idea di emigrare in Australia come gli era stato prospettato, messa da parte la laurea, il giovane finirà dietro il bancone del suo bar a preparare tramezzini e caffè.
E qui lo ritroverà il suo amico Furio, brillante ingegnere, che cercherà di aiutarlo e gli proporrà nuovi progetti per la sua vita.
In Gaspare però prevale ormai la disillusione, si accontenta di realizzare un’originalissima casa, progettata da Furio, su misura per i suoi alberi.
La conclusione è amara, così scrive Gaspare in una lunga lettera-confessione finale al padre: “Io adesso non ti so dire se sono stato bravo. Sono venuto qui a parlartene, proprio perché non lo so. Ad esempio non lo so se puoi essere fiero di me. Certo, quello che ho fatto non era quello che volevo fare. Io volevo fare il latinista. Ma non l’ho fatto.
Come spiegarti? Non so, la gente ha altro da fare, che se ne fa di uno che nella vita vuole solo studiare i suoi quattro poeti latini? Dove lo mette? Vedi, papà, non s‘è trovato un posto giusto….
E quando non trovi un posto alle cose, vuol dire che quelle cose sono…ingombranti. Il mio latino era una cosa ingombrante.
Quindi l’ho messo da parte, adesso è qui in un angolo, poi si vedrà” (p. 252).
Gaspare conclude che era meglio fare il pescatore come suo padre.
Forse studio e intelligenza gli hanno dato troppa consapevolezza, da parte sua Gaspare non ha avuto sufficiente volontà per realizzarsi, di sicuro ha trovato un sistema scolastico che non l’ha mai valorizzato, né aiutato.
Di fronte a un quadro simile c’é da augurarsi che l’istituzione scolastica non sia davvero così malridotta ovunque, che l’Autrice volutamente esageri e che vi sia ancora una speranza per la salvezza dell’intelligenza e dello spirito critico delle nuove generazioni.