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In Iraq i nuovi Fort Apache grandi come città

di Guido Olimpio - 12/02/2006

Fonte: corriere.it

 
L’esercito americano si prepara ad affrontare i futuri confronti nell’area e a muoversi nel Paese «discretamente», lasciando le strade ai soldati locali

Cinema, supermercati, fastfood, piscine. La strategia del Pentagono: colpire dalle superbasi

Qualcuno, ironizzando, li ha battezzati «Fort Apache». Quattro grandi basi in Iraq - ma potrebbero essere anche di più - dove concentrare il «Settimo cavalleggeri» americano. La exit strategy statunitense prevede la creazione di questi giganteschi avamposti, situati in zone strategiche del Paese, dai quali far partire colonne blindate e elicotteri per dare una mano all’esercito iracheno. Il Pentagono ha scelto località che, oltre ad assicurare un vantaggio strategico, non siano troppo vicino alle zone abitate. In teoria - molto in teoria - i Fort Apache dovrebbero garantire una presenza meno visibile. Per questo motivo le installazioni servono ad assicurare ai soldati sicurezza, protezione, depositi e - per quanto possibile in zona di guerriglia - relax. Dunque cinema, fast food e i negozi speciali dove i marines possono acquistare beni a prezzi scontati.
Un giornalista del quotidiano britannico Daily Telegraph è stato autorizzato a visitare la base di Al Asad, situata in un non meglio precisato punto geografico nell’inquieta provincia di Al Anbar. La descrizione del reporter avvicina il «campo» all’ambientazione di una piccola (noiosa) città della provincia americana. Quando sono chiusi all’interno del perimetro di difesa - torrette, trincee, filo spinato, sensori anti-infiltrazione - i marines hanno a disposizione qualche piccola comodità. Il cinema che proietta le ultime novità, saloni con tv satellitari dove i militari vedono cosa succede a casa e seguono lo sport. Basket, baseball e ovviamente football. Pochi giorni fa c’era il «tutto esaurito»: veniva trasmesso il Super Bowl, la finale del football americano, che equivale ad una sfida per lo scudetto in Italia. Chi non è troppo stanco può rilassarsi con una nuotata in una grande piscina o distrarsi con le lezioni di ballo. Il venerdì c’è hip hop, il sabato musica latino-americana, la domenica il country. Nello spaccio - in realtà un supermercato - i soldati acquistano a prezzi di favore video-giochi, elettronica hi-fi e quant’altro. Essendoci di mezzo gli americani non può mancare il fast food. Al Asad è come un qualsiasi crocevia americano. Con l’eccezione del motel, trovi il Subway che vende hot-dog, hamburger e patatine. Qualche metro più in là hanno la pizza, ovviamente «caricata» di ingredienti per piacere al palato dei militari.
Tutto questo dovrebbe rendere meno dura la vita per i soldati chiamati a fronteggiare una guerriglia insidiosa. Lo schema operativo prevede che in futuro il contingente Usa si restringa e riduca il suo intervento terrestre, lasciando il campo agli alleati iracheni. Piano che per riuscire ha bisogno di una condizione per ora lontana: un esercito locale ben armato e addestrato, in grado di marciare da solo.
Gli strateghi del Pentagono pensano di aver bisogno di un buon numero di basi, dove concentrare le truppe statunitensi. All’inizio si è parlato di almeno quattro forti con indicazioni diverse sulla loro localizzazione: Mosul, Al Kut, Um Al Kasr, Bagdad, Rawah sono alcuni dei nomi fatti da fonti di stampa.

Washington è molto cauta nel fornire indicazioni visto che la situazione bellica richiede un intervento continuo dei marines. Il «territorio indiano» o «ostile» - come lo chiamano in gergo - è infestato di guerriglieri di ispirazione diversa. Ex saddamisti, nazionalisti, jihadisti locali e tagliagola di Al Zarkawi sono al lavoro per ostacolare la normalizzazione. Anche se non mancano segnali interessanti. Gli Stati Uniti e alcuni capi sunniti sono impegnati da mesi in una trattativa per il reinserimento nel gioco politico di una parte della resistenza con il contestuale isolamento dei qaedisti. Una manovra agevolata, indirettamente, da una delle ultime imprese dei killer di Al Zarkawi. I terroristi hanno assassinato un influente capo tribù proprio nella provincia di Anbar. Secondo fonti americane il clan avrebbe allora scatenato la caccia ai seguaci del terrorista uccidendone diversi. Una versione incontrollabile sostiene che lo stesso Al Zarkawi si sarebbe spostato più a nord, dopo aver perso due importanti luogotenenti. C’è anche chi sostiene che il capo estremista abbia ceduto la responsabilità delle operazioni ad Abdallah Al Rashid Al Bagdadi.
Nulla di strano. Gli americani avrebbero dovuto fin dal primo giorno provare a stringere un’alleanza con i clan che in queste zone sono potenti. Come lo aveva fatto con astuzia Saddam che pure non era tipo da scendere a patti. Una coesistenza con la realtà sunnita è indispensabile per garantire il funzionamento delle superbasi. Altrimenti rischiano di diventare delle isole, importanti sul piano strategico ma non su quello tattico.

Nei progetti del Pentagono, infatti, il sistema supera i confini dell’Iraq. In settembre il New York Times ha scritto che la Divisione pianificazioni ha già stanziato oltre un miliardo di dollari per migliorare 16 installazioni dal Medio Oriente all’Asia. Sono in corso i lavori per ampliare basi in Kuwait, Emirati, Qatar e in Afghanistan. Si allungano le piste, si ampliano le zone di stazionamento, si accrescono i depositi creando una formidabile rete di supporto. Un dispositivo che si integra con quello iracheno e fornisce una piattaforma in caso di un aggravamento della crisi con l’Iran.
Nei lunghi corridoi del Pentagono non mancano quanti - accontentando i desideri dell’Amministrazione - ritengono di poter affrontare le emergenze con l’arma aerea, riducendo così eventuali perdite di soldati. Le missioni dovrebbero essere svolte con missili intelligenti, bombe anti-bunker, caccia, velivoli senza pilota, elicotteri d’assalto. L’esperienza però insegna che alla fine il lavoro sporco tocca alla fanteria. E allora devi uscire da «Fort Apache».