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Il primo comandamento nei rapporti interpersonali è vedere nell'altro una totalità

di Francesco Lamendola - 05/11/2008


Abbiano sostenuto, nel precedente articolo «Quel sottinteso indicibile che avvelena i rapporti fra l'uomo e la donna», che alle donne è tacitamente consentito - e non dovrebbe esserlo - di porsi nei rapporti con l'uomo in maniera prettamente utilitaristica.
Come caso paradigmatico, abbiamo citato quello del disastroso incontro tra Friedrich Nietzsche e Lou Salomé, una giovane fredda e ambiziosa, la quale continuò ad illudere il filosofo - che di lei era innamorato -  circa un sodalizio culturale da istituire con l'amico Paul Reé, quando già aveva deciso di "scaricarlo" e, poi, era andata a vivere con quest'ultimo (cfr. il nostro articolo «Se una donna ambiziosa non può eccellere, cerca il trionfo nell'umiliare chi è più grande di lei», anch'esso consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Così, una donna può dire tranquillamente a un uomo che le interessano le sue idee, ma che non gliene importa nulla di lui come essere umano: ciò non è considerato biasimevole o anche solo indelicato.
Un uomo che agisse così con una donna, sarebbe considerato da chiunque (uomo o donna) come una persona quanto meno insensibile, per non dire come un egoista e un opportunista che «usa» il prossimo nella misura in cui gli fa comodo, non vedendo in lui un individuo completo, ma un magazzino a cui attingere i materiali che in quel momento gli servono.
Avevamo anche osservato che, a nostro parere, una tale forma "spicciola" di riduzionismo antropologico è il punto di arrivo di tutto un modo, cinico e calcolatore, di impostare il nostro rapporto fra noi e il mondo, che è tipico della società moderna; e che si ritrova, in effetti, anche presso parecchi individui di sesso maschile.

Il primo livello di un tale riduzionismo è quello fisico.
Vi sono individui i quali cercano, nell'incontro con l'altro, soltanto un corpo da usare; e questo è un atteggiamento assai diffuso, che non fa nemmeno sensazione.
Più diffuso di quel che non si creda, però, è il caso di individui i quali sono attratti da un singolo aspetto del corpo dell'altro; e che non partono da quel singolo aspetto per risalire all'insieme, ma che godono di esso, come se quello e non altro fosse l'oggetto del loro desiderio.
Una eccellente rappresentazione di ciò si trova nel bel film di Eric Rohmer (ma i film di Rohmer sono tutti belli, anche perché sono tutti intelligenti, nel loro apparente minimalismo): «Le genou de Claire», del 1970.
Si tratta di uno dei «Six contes moraux» (Editions de l'Herne, Paris, 1974; traduzione di Elena De Angeli, Einaudi, Torino, 1988).
In esso si narra di un giovane alla vigilia del matrimonio, Jérôme, che, durante una vacanza in campagna, sulle rive di un lago, è sul punto di mandare tutto all'aria perché, durante una partita di tennis a cui si trova ad assistere -  rimane fortemente colpito e quasi sconvolto dalla vista del ginocchio di una bella liceale.
Non dalla liceale: dal suo ginocchio (e, senza dubbio, da tutto un carico di rimpianti che si porta dietro, nell'imminenza di compiere il "gran passo").
All'amica Aurora si confida in questi termini (Op. cit., p. 160-61):

«- Ho capito! Claire! Non vorrai dirmi che anche lei…
- No, è solo un'idea. L'idea non è che lei sia innamorata di me, ma che io, diciamo, potrei essere interessato a lei.
- È un classico: e lei ama un altro.
- Non è solo questo. Se non mi interessasse, che cosa me ne importerebbe? Diciamo che mi "turba". Turba il mio personaggio, e forse un poco anche me. Un "poco" del quale non varrebbe la pena di parlare, se tu non ti interessassi appunto al "poco".
- Ti turba? Come? Per il suo corpo?
- Se vuoi: per il suo modo di essere fisico, perché di lei non conosco altro. Praticamente non ci siamo mai rivolti la parola. D'altra parte, avrei avuto molta difficoltà a parlarle.
- Ma guarda, ti intimidisce!
- Sì, mi sento assolutamente impotente di fronte alle ragazze come lei. Capisci che cosa voglio dire?…
- Sì, ci sono stati dei ragazzi molto beli che mi hanno fatto lo stesso effetto. È buffo che tu mi confessi di essere timido.
- Ma io sono timidissimo! In genere evito con ogni cura di fare il primo passo. Non ho mai corteggiato una ragazza che non sentissi disponibile fin dall'inizio.
- E questa?
- Sta' a sentire, è una cosa stranissima. Provoca in me un certo desiderio, ma non finalizzato, e tanto più forte in quanto tale. Un puro desiderio, un desiderio di "nulla". Non ho l'intenzione di far niente, ma il fatto di provare questo desiderio mi dà fastidio: credevo che non avrei più trovato desiderabile nessuna donna. E poi, non la voglio. Se anche si gettasse tra le mie braccia, la respingerei.
- Gelosia?
- No. Eppure, anche se non la voglio, ho l'impressione di avere una specie di diritto su di lei: un diritto che nasce dalla forza stessa del mio desiderio. Sono convinto di meritarla più di chiunque altro.  Ieri, per esempio, al tennis, guardavo lei e il suo innamorato, e mi dicevo che in qualsiasi donna c'è un punto vulnerabile. Per qualcuna è la base del collo, per altre la vita o le mani. Per Claire, in quella posizione e sotto quella luce, era il ginocchio. Vedi, era come il polo magnetico del mio desiderio, il punto esatto in cui, se mi fosse stato permesso di seguire quel desiderio e nient'altro, avrei posato prima di tutto la mano. E proprio là dove il suo amichetto aveva posato la sua, di mano, in assoluta innocenza e in totale imbecillità. Più di ogni altra cosa, era quella mano ebete che mi disturbava.
- Be', non è difficile: mettile una mano sul ginocchio. È tutto qui, l'esorcismo!
-Ti sbagli. È difficilissimo. Una carezza dev'essere autorizzata. Sarebbe più semplice sedurla.»

L'occasione di toccare quell'oggetto proibito del desiderio, invece, si presenta in modo insperato e del tutto casuale, pochi giorni dopo.
In una domenica di pioggia, Jérôme - piccato dal fare scostante di Claire, e già per suo conto maldisposto verso Gilles, il fidanzato di lei - le racconta di aver visto quest'ultimo in compagnia di una bionda, mentre a lei aveva raccontato un'altra storia.
La rivelazione del tradimento provoca nella ragazza un momento di sconforto: ella si mette a piangere irrefrenabilmente  e l'inattesa situazione venutasi a creare, con loro due soli e lontani dagli sguardi di tutti, permette a Jérôme di carezzarle il ginocchio, come per consolarla, con la massima innocenza.
Si tratta di un gesto affettuoso, quasi paterno; né il giovane si spinge oltre.
Solo così egli riesce a liberarsi, realizzandola, di quella morbosa fantasia, che da qualche tempo lo stava letteralmente ossessionando. Ora, dissipati i fantasmi, è pronto per affrontare le nozze e la vita coniugale che lo attende.
Rohmer - il quale, oltre che un grande regista, mostra di essere anche uno scrittore di buon livello, descrive la scena con quella sua caratteristica sobrietà, che potremmo quasi definire  documentaristica (Op. cit., p. 166-67):

«Ha appena iniziato a raccontare la sua scoperta che Claire scoppia in singhiozzi.
Jérôme tenta di dirle qualche parola di consolazione, ma non ottiene che di raddoppiare l'intensità del suo pianto. Segue una pausa di silenzio, rotta soltanto dai singhiozzi della ragazza, dal rumore della pioggia sul tetto della rimessa e dal brontolio lontano del tuono. Claire cerca invano un fazzoletto nella tasca della giacca. Jérôme le porge il suo, che lei prende continuando a singhiozzare sommessamente. Ha una gamba tesa e l'altra ripiegata: il suo ginocchio si staglia come un punto luminoso sull'oscurità del pavimento. Jérôme, prima tutto preso dal pianto della ragazza, abbassa gli occhi in quella direzione. Il suo sguardo risale lungo la coscia, lungo il ventre che si solleva al ritmo dei singhiozzi, poi ridiscende pian piano… A questo punto, con gesto netto e deciso, poggia la mano sulla punta del ginocchio, e con altrettanta determinazione comincia ad accarezzarlo con un movimento circolare della palma.
Claire non reagisce. Si è limitata, con una frazione di secondo di ritardo, a lanciare un'occhiata a quella mano, probabilmente decisa a troncare la carezza se l'avesse sentita farsi più ardita. Il che non accade. Tutto rimane così com'è, mentre il pianto via via si placa e la mano, senza lasciare il suo posto, ribadisce la propria presa e il proprio ritmo. Il temporale tace. La pioggia cessa. Claire ora ha gli occhi quasi asciutti, lo sguardo perso nel vuoto. Una lacrima che le cola lungo la guancia si illumina per un attimo dei riflessi dell'arcobaleno, concentrando tutta l'attenzione di Jérôme. Quando è arrivata alla commessura delle labbra, lui toglie la mano dal ginocchio e si alza:  "Andiamo a casa!" »

Rohmer, da artista raffinato qual è, riesce ad inscrivere questa vicenda, apparentemente banale, in un contesto psicologico e poetico di notevole spessore.
Di fatto, invece, nella vita reale, queste forme di feticismo hanno ben poco di poetico, e si traducono in una forma di "sfruttamento" di singole parti del corpo, che ignorano con pesante indelicatezza la totalità della persona che è oggetto di un tal genere di interesse.

Ancora più negativi sono i risvolti di questo tipo di riduzionismo, allorché si passa dal gioco dei corpi a quello dell'affettività.
In questo caso, infatti, la persona che ne è oggetto si sente ancora più usata; e, se nel caso del corpo si può pensare che entrambi i soggetti giocassero allo stesso gioco, e quindi nessuno sia stato ingannato, in questo ambito le cose stanno altrimenti.
Un uomo o una donna che divengano oggetto di attenzione affettiva ed, eventualmente, sessuale e poi si rendano conto che l'altro non era realmente interessato a loro, ma solo ad un singolo aspetto del loro essere - l'intelligenza, ad esempio, o la cultura; e, nei casi più "bassi", il denaro o lo stato sociale - prova un amaro senso di frustrazione e di disincanto.
Non è una bella scoperta, per nessuno, accorgersi che l'altro è interessato a noi non per quello che siamo, ma ad un singolo aspetto della nostra personalità o della nostra posizione; che desidera solo quello, nella misura e nei tempi che a lui servono; e che nulla gli importa di noi in quanto esseri umani, cioè in quanto esseri totali.
Si può discutere, sul piano filosofico - e lo abbiamo fatto, in parecchi precedenti articoli - se la pretesa unitarietà della coscienza sia un fatto reale, o soltanto ipotetico; se, cioè, alla base delle nostre emozioni, sentimenti, pensieri, valori e ideali vi sia realmente un nucleo ontologico coeso, oppure se il nostro presunto "io" altro non sia che una galassia di operazioni mentali sempre mutevoli e cangianti (cfr., fra gli altri, «Esiste l'anima dell'uomo nella filosofia buddhista?», sempre sul sito di Arianna Editrice).
Questa tematica è divenuta particolarmente viva nel corso del Novecento, quando il contesto generale della cultura europeo ha assistito a una crisi generalizzata delle certezze razionali fondate sull'ideologia positivista. In tale contesto, non solo psicologi come Freud, Jung e Adler, ma anche scrittori come Dostojevskij (il Dostojevskij di «Memorie del sottosuolo», Pirandello, Unamuno, Kafka, Thomas Mann, Cezar Petrescu (nella prima parte del suo percorso letterario) ne hanno fatto oggetto di attenta e sottile indagine.
Ad ogni modo, si tratta di una questione squisitamente filosofica; e, per quanto da essa discendano certo importantissime conseguenze antropologiche, quello che più è esiziale, nelle relazioni interpersonali, è il riduzionismo spicciolo, concreto, quotidiano: quello che ferisce la nostra coscienza di essere persone.
Nessuno avrebbe il diritto di trattare un altro essere umano altrimenti che come una persona: e, se ciò vale nei rapporti economici e politici, non vale certo di meno nei rapporti diretti che si stabiliscono da individuo a individuo, specialmente se essi sono di tipo affettivo.
Trattare un altro essere umano come un insieme separato di aspetti, mostrando apertamente di ricercarne uno solo, ignorando la totalità in cui si inscrive, significa violentare l'altro in un senso non meno profondo di quello fisico. Significa commettere un oltraggio alla sua integrità e, di conseguenza, uno sfregio alla sua dignità.
La dignità dovuta alla persona consiste, infatti, nel riconoscimento della sua unità di corpo, anima e spirito.
Nel riduzionismo pratico, presente in un certo tipo di relazioni interpersonali, tale unità viene misconosciuta, mediante un atteggiamento che non è semplicemente indelicato, ma offensivo, nel senso più grave del termine; un atteggiamento che, in un certo senso, si potrebbe anche definire come pornografico.
Che altro è la pornografia, infatti, se non il misconoscimento dell'unità della persona e la decontestualizzazione di uno dei suoi aspetti costituitivi, ossia la sessualità?
Ebbene: così come esiste una pornografia sessuale, esiste anche una pornografia affettiva: che consiste, appunto, nel calpestare l'unità della persona altrui e nel ricercare ed "usare", con freddo calcolo opportunistico, un solo aspetto del suo essere globale.

Ciò è la conseguenza dell'affermarsi di una visione meccanicistica della natura, che ha preso piede a partire dalla cosiddetta rivoluzione scientifica del XVII secolo.
Se la natura non è più un organismo, ma un meccanismo senz'anima, allora anche l'essere umano, che è parte della natura, può essere considerato nella medesima prospettiva.
Naturalmente, i primi a subire le conseguenze di questo cambiamento di paradigma sono stati i nostri fratelli minori, gli animali, visto come semplice res extensa e, quindi, manipolabili sino al limite estremo, quello della vivisezione.
Per quanto riguarda l'essere umano, hanno incominciato la fisiologia e, di conseguenza, la medicina; poi, una alla volta, tutte le scienze attinenti la persona hanno imboccato la via del riduzionismo; ultime, l'economia e la psicologia: l'una, vedendo nella persona solo la forza-lavoro dell'operaio (o le potenzialità del consumatore), l'altra, pretendendo di studiare, nonché di "curare", i vari aspetti della vita psichica come se fosse possibile considerarli separatamente sia dal sistema corporeo, sia dai loro rapporti reciproci (sessualità, affettività, intelligenza, memoria, attenzione:  fino alle più recenti aberrazioni del comportamentismo).
Anche il crescente, esponenziale aumento del livello di specializzazione delle scienze ha giocato la sua parte in tutto questo. Più le scienze si sono specializzate, ritagliandosi ambiti sempre più ristretti di realtà da osservare e da studiare, più si è affermata la tendenza a una visione frammentaria e disorganica dell'uomo, divenuto oggetto di studio di tante scienze diverse.
Religione e filosofia, in teoria, avrebbero dovuto controbilanciare tale tendenza alla frammentazione; ma, in pratica, non è stato così: l'una e l'altra si sono accontentate di un posto in ultima fila nella grande platea delle scienze, in cambio del diritto a essere tollerate, nonostante la loro palese inadeguatezza alle caratteristiche del metodo scientifico.
Questo approccio riduzionistico al fattore "persona" ha avuto anche, com'era inevitabile, l'effetto di incrinare la visione unitaria della vita, patrimonio indispensabile degli esseri umani per poter assolvere degnamente il proprio progetto esistenziale (cfr. il nostro precedente articolo «Per essere persone e non pecore nel gregge è necessaria una visione unificatrice della vita», sempre sul sito di Arianna Editrice).
Per uscire dal presente vicolo cieco non vi sono altri modi che riconoscere francamente l'errore madornale che è stato fatto, allorché si è sostituita all'immagine di un cosmo vivo, nel quale l'uomo è immerso e del quale è parte, quella di un grande meccanismo smontabile e rimontabile a piacere, senza limite alcuno alla volontà di manipolazione da parte dell'«homo tecnologicus» (cfr. il nostro articolo «Manipolazione spietata di cose, vegetali e animali nella "Nuova Atlantide" di Francesco Bacone», sul sito di Arianna).
Questo, a livello filosofico.
Al livello della vita pratica, noi dobbiamo recuperare il concetto della dignità della persona, per poter vedere nell'altro non già un insieme slegato di parti, ma un tutto unitario e armonioso, e nel porlo attraverso il pronome personale: tu.
Non: il tuo corpo (il tuo ginocchio?), i tuoi soldi, la tua intelligenza, e così via; ma tu e basta; tu e nient'altro che tu.
«Tu» come valore in se stesso, autoevidente ed autonomo.
Ma saremo capaci di farlo?