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…la crisi finanziaria

di Riccardo Torsoli - 10/11/2008

 

Nelle ultime settimane molti economisti e commentatori finanziari  sono concordi nel definire questa crisi finanziaria la più grande dal 1930 ad oggi, ma anche che paragonare questa crisi con quella del ‘29 sia eccessivo e fuorviante e, per dirla tutta, un po’ catastrofista.  Infatti, dal punto di vista economico e monetario ci sono grandi differenze a cominciare dal sistema aureo in vigore in quegli anni, sospeso a partire dal 1931 e ripreso negli accordi di Bretton Woods del 1944. Però, leggendo un articolo economico di Ambrose Evans-Pritchard un brivido mi ha percorso repentinamente la schiena, riportandomi alla memoria nefaste coincidenze con la situazione dei primi anni 30.

 

 

In tale articolo,  L’Europa alla vigilia del disastro valutario, veniva dipinto il fosco quadro della situazione bancaria austriaca esposta per l’85% del PIL verso i paesi dell’Est Europa e si ricordava espressamente la crisi bancaria europea innescata nel maggio del 1931 dal  fallimento della banca viennese Creditanstalt. Tutto cominciò successivamente alla Prima guerra mondiale, con una serie di accadimenti che destabilizzarono il sistema bancario austriaco. Una delle prime cause fu la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico e la conseguente perdita di influenza sui territori profittevoli di Trieste e dei Sudeti. Successivamente, nel 1924, una fallita speculazione al ribasso sul franco francese portò ad una serie di crack nei comparti bancari (Allgemeine Industriebank, Austro-Polnische Bank, OrientBank). Infine, il fallimento della Bodencreditanstalt nel 1929 e la successiva fusione con Creditanstalt portò quest’ultima a detenere il 60% dell’intero comparto industriale austriaco ed ad imbarcarsi le notevoli perdite derivanti dalle partecipazioni azionarie nelle aziende provate dalla crisi economica (tali partecipazioni provenivano dalla conversione dei crediti inesigibili in azioni ordinarie).

 

 

La banca austriaca Creditanstant aveva una forte esposizione, come del resto anche le banche tedesche, con il flusso creditizio estero. Il successivo blocco, dovuto in parte a motivi geopolitici, con la Francia che mise come condizione lo scioglimento dell’unione doganale tra Austria e Germania e, in parte, alla fuga di capitali per paura di insolvenza, portò al crollo dell’Istituto bancario in pochi mesi. A nulla valsero i tentativi di innalzare i tassi di interesse e i tentativi di finanziamento da parte della BIS e dei Rothschild che detenevano la proprietà della banca.

 

 

Il crollo della banca viennese creò una situazione di panico che in breve tempo portò al blocco dei crediti alle banche europee, soprattutto da parte degli Usa, e dette vita ad una serie di crolli bancari, che inasprirono ulteriormente la depressione in corso. A dir poco tardiva fu la moratoria del Presidente Hoover per bloccare i risarcimenti di guerra dovuti dalla Germania: ormai il sistema finanziario europeo era definitivamente compromesso.

 

 

Oggi la Creditanstalt fa parte del gruppo tedesco HypoVereinsbank il quale ha come capofila il gruppo bancario italiano Unicredito, che ha esposizioni nell’area dell’Europa centrale e nei paesi balcanici per 130 miliardi di euro: quasi il triplo di Banca Intesa. Comunque, l’Unicredito è in buona compagnia: nella stessa area la Spagna è esposta per il 23% del PIL, la Svizzera per il 50%, la Svezia per il 25%, il Regno Unito per il 24% infine gli Usa solo per il 4%. In questi giorni i paesi dell’Europa dell’Est stanno disperatamente cercando di difendere le valute nazionali nell’occhio del ciclone: l’Ungheria nei giorni scorsi ha portato i tassi di interesse dal 3% all’11%, ma senza risultati tangibili; in Romania, addirittura il tasso overnight per i prestiti interbancari è stato portato al 900%: una mossa che ricorda da vicino quelle prese in concomitanza del crollo bancario svedese dei primi anni ‘90.

 

 

Questa situazione del sistema bancario europeo, principalmente tedesco ed italiano ricorda molto da vicino la situazione dei primi anni ‘30 del secolo scorso e, esattamente come nella depressione del 1929, prima crollano i mercati, poi inizia una spirale di disoccupazione e fallimenti aziendali condita da tensioni valutarie, poi saltano i sistemi bancari ed infine anche gli stati sovrani.

 

 

In questi ultimi anni sono stati concessi prestiti ingenti ai paesi dell’Est Europa, i cui cittadini e imprese hanno contratto mutui legati a valute forti come il franco svizzero e lo yen giapponese ed adesso si trovano impossibilitati a far fronte ai pagamenti, a causa della severa svalutazione alla quale sono sottoposte le loro monete nazionali, mettendo così a serio rischio la stabilità finanziaria europea. E’ proprio di questi giorni la dichiarazione del Primo ministro della Romania, Calin Popescu Tariceanu, i cui titoli di stato sono stati declassati a spazzatura, che ha paragonato il suo paese all’iceberg che ha affondato il Titanic, in questo caso l’Europa.

 

 

Il FMI sta cercando disperatamente di accordare finanziamenti ai paesi dell’Est europeo, ma la mole dei debiti contratti e la perdurante svalutazione monetaria combinata con il rapido calo delle esportazioni verso i paesi più industrializzati rendono molto probabile un rischio insolvenza da parte dei cosiddetti paesi emergenti. Le cifre sono implacabili: la Repubblica Ceca esporta nei paesi dell’area euro per il 40% del proprio Pil, l’Ucraina per il 39,9% con la sola industria siderurgica che fornisce il 27% del proprio Pil, la Bulgaria per il 62%. Senza contare che il FMI è pure a corto di liquidità e i premier occidentali, con a capo Gordon Brown, stanno mendicando dai paesi del Golfo Persico il carico di rimpinguare le casse vuote dell’Istituto. L’impressione è che siamo agli sgoccioli: il sistema capitalista sta imbarcando acqua da tutte le parti.

 

 

Nei paesi dell’area euro, invece, la situazione si va progressivamente aggravando. Nella scorsa asta di titoli di stato, vari paesi hanno dovuto rinunciare all’emissione dei loro titoli per mancanza di acquirenti e nel prossimo anno ci saranno pesanti scadenze. Morgan Stanley ha calcolato che in Italia arrivano a scadenza 198 miliardi di euro in titoli di stato, in Germania 173 miliardi, in Francia 135 miliardi e 57 miliardi in Spagna. Senza contare che il differenziale tra i buoni del tesoro tedeschi e di quelli italiani è salito implacabilmente fino a 126%, ed i CDS (Credit Default Swap) su Spagna, Italia e Grecia sono i maggiormente trattati negli ultimi giorni, a conferma del livello di sfiducia raggiunto da questi paesi.

 

 

In caso di forte turbolenza bancaria e di eccessivo indebitamento da parte dell’Italia si potrebbe profilare una possibile fuoriuscita del nostro Paese dall’area euro, con drammatiche ricadute interne. In ogni caso, è tutto il cosiddetto Club Med che soffre. La Spagna, anche se ha un debito pubblico minore, si trova con un sistema bancario fortemente esposto incentrato sul settore immobiliare in drammatica crisi. Stesso discorso per la Grecia che ha fortemente ridotto il trasporto marittimo e si trova con un pesante indebitamento di oltre il 90% del PIL e con un sistema bancario che vede con preoccupazione i tanti investimenti operati nell’area balcanica.

 

 

Questo quadro desolante porterà a drammatiche tensioni nell’area euro se non saranno prese misure drastiche di natura monetaria ed economica. Giappone, Stati Uniti e Gran Bretagna si stanno dirigendo verso un corposo taglio dei tassi che porterà ad un regime di tassi negativi (tassi nominali al netto del tasso di inflazione) che innescherà una maggiore circolazione monetaria (nessuno terrà denaro che perde valore nel tempo), spingendo gli investimenti e l’inflazione che ne deriverà, piano piano eroderà il debito. In Europa , invece, si va in direzione opposta, cercando di tenere il tasso di interesse ad un livello superiore all’inflazione che produrrà una marcata deflazione e una disgregazione dell’area euro, perfettamente aderente al pensiero tedesco, dominante a Francoforte ma con conseguenze drammatiche nel resto del continente.

 

 

Si ritornerà molto probabilmente a politiche autarchiche e protezioniste, alla faccia della libera circolazione dei capitali e delle persone che hanno avuto la meglio in questi ultimi decenni. La disoccupazione crescente e la perdita di potere di acquisto in una condizione di domanda interna depressa porterà sicuramente a politiche forti di contenimento dei prezzi e a vasti piani di investimenti nazionali. Anche Barack Obama, nuovo Presidente degli Stati uniti ha promesso forti incentivi alle aziende che produrranno posti di lavoro e forti penalizzazioni alle imprese che delocalizzeranno all’estero.

 

 

E il liberismo? “Signori, capolinea: si scende!”. Era ora.

 

 

 

 

 

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