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Eluana, che sgomento la vita decisa nei tribunali

di Susanna Tamaro - 19/11/2008

Fonte: susannatamaro

I progressi della scienza ci portano ad affrontare problemi etici fino a pochi anni fa impensabili. Se avessi detto a mio nonno, nato nell’Ottocento e sopravvissuto a due guerre mondiali, che avrebbe potuto decidere, con l’aiuto di un atto notarile, in che modo morire penso onestamente che sarebbe inorridito. Come si fa a decidere prima una cosa di una gravità e di una complessità del genere? Certo, nessun essere umano sano di mente augura a se stesso e ai suoi cari di vivere in stato di incoscienza per anni o di dipendere dal funzionamento di una macchina. Ma una cosa è avere un timore, un’altra affrontare la realtà, quando si presenta.

Se capitasse a me, ad esempio, magari in quel momento vedrò lo sguardo della persona che amo e capirò che voglio continuare a vederlo o forse proverò curiosità per questa nuova fase della mia vita che si sta aprendo, un po’ come se visitassi una terra inesplorata. Oppure sarò sola, disperata, nessuno risponderà alla mia tristezza allora, certo, vorrò porre fine ai miei giorni. Ma come faccio a saperlo adesso, a decidere in un momento così lontano e così diverso? E se poi questa mia scelta autorizzasse qualcun altro a decidere per me? Contrariamente a quanto ci viene continuamente ripetuto, io penso che sappiamo ancora pochissimo sulla vita, su quello che c’è nella nostra mente, nel nostro corpo e che questo senso di ignoranza debba condurre al massimo timore, al massimo rispetto.

Nessuno di noi sa cosa provi veramente Eluana, nella sua attuale condizione, come non sappiamo perché le sia successo questo incidente, che senso abbia nella sua vita e in quella dei suoi genitori né perché il suo corpo continui ad essere così straordinariamente vitale. Questa vicenda provoca in me un senso di dolorosa compassione. Compassione per la sofferenza dei genitori, per quanto abbia dovuto soffrire - e per quanto ancora avrà da soffrire - la loro figlia; compassione per le suore che, per tanti anni e con tanto amore, si sono prese cura di lei. Ma oltre alla compassione, provo anche un senso di gelo e di sgomento perché l’idea che un tribunale non penale possa decidere della vita di un essere umano è qualcosa che esula dalla mia visione del mondo.

Sono profondamente contraria all’accanimento terapeutico, quando ci sono delle malattie devastanti e progressive, ma un tumore o una malattia metabolica sono ben diverse da uno stato vegetativo. Una delle cose che più mi sorprende, di questi nostri tempi, è la grande quantità di certezze che ci vengono proposte come verità assolute. L’uomo, ci viene ripetuto da più parti, ha una sola dimensione - quella razionale - e tramite questa razionalità è in grado di determinare ogni istante della sua vita in modo che l’imprevisto, quest’ospite scomodo e inquietante, scompaia definitivamente dall’orizzonte.

La vita che ci preparano i devoti della razionalità è una vita di estrema tristezza, dominata dall’ansia e dalla paura, una vita segnata dal continuo ricorso ai tribunali per avere una qualche certezza di essere nel giusto. Una vita, insomma, in cui l’uomo non è che una cosa tra le cose. Se vado in un negozio, infatti, non compro certo un oggetto guasto o scaduto e, se per caso mi capita di farlo, lo porto indietro, chiedendo un rimborso. L’essere cosa tra le cose ci porta a chiedere la perfezione, a bandire dal nostro orizzonte l’imprevisto della malattia, del dolore, lo spettro della morte. Sgombrato infatti il campo dalla necessità di interrogarsi sul mistero che avvolge le cose - perché il mistero non esiste, in quanto non provabile scientificamente - non rimane che appellarsi alla legge degli uomini, invocare una sentenza che confermi la correttezza del nostro sentire. Il tribunale è diventato il cuore attorno a cui ruota la nostra civiltà. La vita è, alla fine, un’avventura amara e, siccome non abbiamo chiesto di venire al mondo e non ne capiamo il senso, abbiamo il diritto di essere risarciti fino alle più piccole contrarietà che ci capitano.
Ricordo il caso di una ragazza che, avendo trovato un insetto in un pacchetto di patatine fritte, ha fatto causa alla ditta produttrice chiedendo i danni biologici per lo spavento provocato, danni che le sono stati peraltro riconosciuti. O casi di genitori che hanno denunciato un medico per un figlio nato con difetto di deambulazione. Ma è davvero questo il senso della nostra vita? Vivere accerchiati da pensieri ostili, da potenziali nemici, rivendicando continui danni subiti? Lo spirito del nostro tempo è quello del risentimento. Ma il risentimento è come una potente erba infestante, ha radici profonde, invasive e con il suo espandersi riduce fino ad eliminare la possibilità di provare un sentimento.

Si vuol far credere che il mistero - e dunque la domanda sulla trascendenza - sia un obsoleto retaggio del mondo clericale, mentre forse bisognerebbe dire che riguarda sempre e comunque ogni uomo, per la complessità della sua natura, per la presenza delle tenebre, per l’assoluta certezza della morte. Se contemplassimo con timore - altra grande parola scomparsa dal nostro orizzonte - questo mistero, forse saremmo costretti a interrogarci, a metterci in cammino, a entrare nell’idea che ogni cosa che accade nelle nostre vite ha un senso profondo e che crescere come esseri umani vuol dire proprio riuscire a capire questo senso, facendolo lievitare in qualcosa di più grande, di più alto, di più luminoso. La vita non è uno status quo da difendere con le unghie e con i denti, ma una condizione di continuo cambiamento, di cui, solo in parte, siamo responsabili. Ogni mattina, quando apro gli occhi, non so se arriverò alla sera o se ci arriveranno le persone a cui voglio bene. Siamo continuamente esposti all’impatto devastante del dolore, alla lacerazione del distacco, alla sofferenza delle persone amate. Proprio per questo, bisogna essere grati per ogni istante che ci viene donato, per tutte le cose, belle e meno belle, che avvengono nel corso dei giorni perché nel loro insieme costituiscono l’unicità del nostro cammino.

Sono anche profondamente convinta che ogni vita abbia la sua morte e che questi due eventi si illuminino di senso a vicenda. E che l’unicità della vita umana stia proprio nella capacità di creare rapporti d’amore. Qualche tempo fa, sono andata a trovare un’amica molto anziana ormai esasperata dall’essere ancora viva. «Dio si è dimenticato di me. Perché non muoio?», mi chiedeva. «Forse non muori perché devi ancora capire qualcosa», le ho risposto scherzosamente. «Forse perché quella pianta che hai sul davanzale domani fiorirà e tu rimarrai stupita dal suo colore, dalla bellezza che esploderà tra il grigiore dei palazzi». «Ma dov’è la misericordia di Dio?», ha incalzato lei. «Quella di Dio non lo so, ma so dove noi dobbiamo coltivarla. Nei nostri cuori».