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«Il mito della crescita va sfatato»: intervisa a Della Seta

di greenreport.it - 15/02/2006

Fonte: greenreport.it

Parla il presidente nazionale di Legambiente. «La crisi dei consumi non significa più attenzione per l´ambiente».

 

ROMA. «Quando la riduzione dei consumi non è il frutto di scelte consapevoli, ma un comportamento forzato da un impoverimento complessivo, non ci sono effetti positivi sull’ambiente. Anzi, in questa situazione c’è il rischio di una riduzione notevole sul fronte dell’attenzione sull’ambiente». Così Roberto Della Seta (nella foto), presidente nazionale di Legambiente, si inserisce nel dibattito su crescita, consumi e stili di vita, avviato da greenreport con una serie di interviste.
Destra e sinistra, storicamente, si sono contraddistinte, l’una per perseguire una crescita economica con meno vincoli possibili, l’altra per perseguire una crescita economica orientata secondo progetti e una più giusta redistribuzione della ricchezza. Sia per l’una che per l’altra, la crescita economica è stata comunque un obiettivo indiscutibile. Cosa pensa del fatto che, ultimamente, una parte della sinistra metta in discussione sia il concetto che la prassi della crescita?
«Mettere in discussione il mito della crescita è un fatto sacrosanto, è stato uno dei principali contributi del mondo ambientalista alla storia delle idee. Vuol dire mettere in discussione il collegamento automatico fra costante aumento della produzione e miglioramento del benessere. Ormai è evidente che una crescita purché sia, senza criteri di qualità ambientali non solo non migliora il benessere, ma rischia di peggiorarlo. Oggi aumentare i consumi di energia, ad esempio, è un grave errore. E’ un concetto alla base dell’ambientalismo contemporaneo. Ciò non significa che sia positivo teorizzare la decrescita e l’abbassamento del livello di consumo. Io guardo le forze politiche più vicine a queste idee: nella pratica poi, hanno atteggiamenti sostanzialmente diversi anche per i loro riferimenti sociali. Penso a forze come Rifondazione comunista, che sono quelle maggiormente preoccupate che la vecchia industria possa essere sacrificata sull’altare dell’innovazione anche ambientale. Insomma, si nota una qualche contraddizione fra suggestioni accreditate e prassi consolidate».
La messa in discussione della crescita economica è basata su un assunto difficilmente contestabile: una crescita infinita su un pianeta finito è fisicamente impossibile. Cosa pensa al proposito?
«Se per crescita si intende prelievo di materie prime e di energia è chiaro che non si puà pensare a una crescita infinita. Anche perché pure la capacità di assorbimento degli ecosistemi non è infinita. Credo che sia possibile accrescere il benessere anche materiale delle persone senza aumentare prelievo, di questo sono convinto».
Qualche anno fa si pensava che con l’avvento della società e dell’economia dell’informazione fossimo avviati verso una «dematerializzazione» delle produzioni e dei consumi e quindi verso la sostenibilità ambientale. Così non è stato e non è. Secondo lei perché?
«Perché è mancata la parte di chi compie le scelte di governo e di una larga maggioranza del mondo produttivo. Però ci sono esempi e casi interessanti. Ne faccio uno: quest’anno è il ventesimo anniversario di un fatto che ha segnato le cronache italiane, quello dello scandalo del vino al metanolo, nel 1986 provocò una ventina di morti. Fu una grande tragedia, dal valore simbolico molto grande. Quella data segna il punto più basso dell’enologia italiana: il nostro vino veniva esportato e utilizzato come taglio per vini più pregiati. A distanza di vent’anni i dati dicono che oggi produciamo il 40% in meno del vino che producevamo nel 1986, ma la produzione ha un valore tre volte più alto: si è puntato sulla qualità, il vino italiano è riconosciuto come di assoluta qualità. Si è fortemente dematerializzato, ma si è aumentato il valore del fatturato. E’ possibile, insomma, ridurre consumi di materie prime e al tempo stesso produrre ricchezza. Legambiente questo ragionamento tenta di allargarlo a tanti altri settori della nostra società, la soft economy è proprio questo: l’idea che l’Italia possa e debba puntare su produzioni ad alto contenuto di conoscenza e ad alto valore aggiunto immateriale. Mai competeremo su costo del lavoro e sulla quantità con molti paesi emergenti, l’unico terremo di competizione riguarda la qualità e l’immaterialità».