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Ne «L'unico» di Max Stirner culmina la parabola del nichilismo contemporaneo

di Francesco Lamendola - 10/12/2008

«Io ho riposto la mia causa nel nulla»: con queste agghiaccianti parole, proferite con tono orgoglioso, si chiude il trattato di Max Stirner «L'unico e la sua proprietà» (1845), che per molte ragioni si può considerare come il culmine della parabola del nichilismo contemporaneo.
Rispetto alla reazione antihegeliana di Feuerbach, di Kierkegaard o di Schopenhauer, l'egoismo radicale di Stirner possiede un tratto caratteristico che ne fa qualche cosa, appunto, di unico, cioè di assolutamente particolare nel panorama del pensiero occidentale, ma anche, al tempo stesso, di terribilmente conseguente, come se costituisse il logico e naturale approdo di tutte le principali tendenze del pensiero moderno, da Machiavelli a Hobbes a Locke, fino a Kant e ad Hegel.
Esso, infatti, non si rifà ad alcuna definizione dell'uomo e della sua natura in generale, anzi, rifiuta esplicitamente il concetto di «uomo».Per Stirner, non ha alcun senso domandarsi che cosa sia l'uomo, bensì solo e unicamente chi egli sia; e la risposta è che l'uomo sono Io, ossia l'Unico. Non esistono formule verbali o concettuali che mi possano definire: Io sono una forza della natura, una energia vitale che non trova altra giustificazione se non in se stessa e nel fatto di esserci. L'Io singolo è, puramente e semplicemente, volontà di potenza in continua espansione; una energia vitale puramente nichilistica, ossia originata dal nulla e destinata al nulla.
Ecco perché Stirner, che pure si era avvicinato alla sinistra hegeliana e aveva stretto rapporti di amicizia con Bruno Bauer, non condivideva affatto la fiducia di Marx nelle virtù rigeneranti del socialismo: per lui, l'Umanità, la Società, il liberalismo e il socialismo non erano che fantasmi, nuovi feticci con i quali l'uomo singolo si aliena, riproducendo il Dio trascendente del cristianesimo cui giustamente - secondo lui - Feuerbach aveva sostituito, come ente sommo dell'uomo, l'uomo stesso.
Non solo: per Stirner il socialismo, partendo da una generalizzazione della natura umana, non è altro che un tentativo di reintrodurre le gerarchie, il cui scopo ultimo è imporre una forma di dominio dell'uomo sull'uomo, soltanto diversa - ma non migliore - da quella esercitata dal capitalismo.
Marx ed Engels (che ricambiano Stirner, dedicandogli un'ampia sezione della «Ideologia tedesca», in cui è definito ironicamente "san Max") sono da lui criticati perché vorrebbero reintrodurre le categorie del dovere e dell'altruismo, mediante le quali rimettere in catene l'Io singolo, ossia proprio quelle che il cristianesimo aveva utilizzato per due millenni allo scopo di ridurre gli individui in uno stato di alienazione e di sottomissione.
Pertanto, l'Io radicale di cui parla Stirner non presenta, se non superficialmente, una qualche somiglianza con il Singolo di cui parla Kierkegaard (cfr. in particolare il nostro precedente articolo:«La disonestà intellettuale di Hegel è nella sua presunzione di mediare tutto, anche il paradosso», consultabile sul sito di Arianna Editrice).
In realtà, il Singolo di Kierkegaard, pur nascendo dall'esigenza di reagire alla generalizzazione dei problemi umani tipica dello hegelismo, è una rivolta dell'etica contro la logica astratta; mentre la rivolta di Stirner è diretta sia contro la logica astratta, sia contro l'etica stessa (con toni che preannunciano la critica radicale e demolitrice del Nietzsche di «Genealogia della morale»), in nome del puro e semplice nulla.
In questo senso, essa è la forma più coerente ed estrema del nichilismo contemporaneo e possiede, se non altro, il merito della chiarezza e della onestà intellettuale.
Vale dunque la pena di riportare l'ultimo capitolo della seconda parte de «L'unico e la sua proprietà» (titolo originale: «Der Einzige und sein Eigentum»; traduzione italiana a cura della casa Editrice Vulcano, Bergamo, 1977; poi Bussolengo, Verona, Casa Editrice Demetra, 1996, pp. 409-414):

«L'età precristiana e la cristiana perseguono fini l'uno all'altro contrari; la prima vuole idealizzare ciò che è reale, la seconda vuole realizzare l'ideale; la seconda va in cerca dello "spirito santo", la prima della "glorificazione del corpo". Perciò la prima si chiude con l'insensibilità di fronte al reale,  con il "disprezzo del mondo", l'altra finirà con l'abbandono dell'ideale, con il "disprezzo dello spirito".
Il contrasto tra il reale e l'ideale non potrà mai comporsi; 'uno non potrà mai diventar l'altro; se l'ideale si mutasse nel reale, non sarebbe più l'ideale, e se ciò che è reale si mutasse nell'ideale, il reale più non sarebbe. Il dissidio non potrà essere risolto che il giorno in cui si sopprimerà l'uno e l'altro: altrimenti idea e realtà non potranno mai confondersi in una cosa sola. L'idea non può essere attuata rimanendo un'idea, bensì solo dissolvendosi nella realtà. E la stessa cosa, per converso, si deve dire del reale.
Ora noi vediamo negli antichi i seguaci dell'idea, nei moderni i seguaci della realtà. Così quelli come questi non possono liberarsi al contrasto che li avvinghia e anelano sempre a un'altra cosa. Gli uni aspirano allo spirito, poi, quando fu paga la loro brama, quando lo spirito parve finalmente essere venuto, ecco che gli altri vollero subito dare a quello spirito forma corporea, vanamente struggendosi in un inutile sforzo perché resterà  sempre un pio desiderio.
Il pio desiderio  degli antichi era la santità, il pio desiderio dei moderni è l'incarnazione. Ma come l'età antica dovette tramontare il giorno che il suo voto fu pago, così è impossibile attuare il concetto che l'età moderna si prefigge senza uscire del cristianesimo. Al soffio di purificazione che attraversa il mondo antico, corrisponde l'idea dell'incarnazione che penetra il mondo cristiano; Dio scende su questa terra, si fa umana carne per redimerla, cioè per compenetrarla della sua divinità. E poiché Dio è l'"idea" o lo "spirito", così (come appunto in Hegel) si finisce per introdurre l'idea dappertutto e si dimostra che ogni cosa è "l'idea e la ragione". E così a quello che in altri tempi gli stoici ci presentarono con il nome di "saggio" corrisponde nella civiltà odierna "l'uomo": l'uno e l'altro sono astrazioni.
Il "saggio irreale" degli stoici è divenuto un "santo" in carne e ossa per l'incarnazione di Dio. Ebbene, non altrimenti l'uomo, l'io incorporeo, si attuerà veramente nell'io reale: in me stesso. La questione dell'esistenza di Dio affaticò le menti dei cristiani senza tregua e fu incessantemente ripresa perché il bisogno della esistenza, della corporalità, della personalità, della realtà, occupava gli spiriti in quella angosciosissima e penosa indagine  senza mai trovare una soluzione soddisfacente. Finalmente la questione dell'esistenza di Dio si sciolse, ma per risorgere nella tesi dell'esistenza del divino (Feuerbach).  Ma anche questa tesi crollò, e neppure l'ultima credenza nell'attuazione "dell'umano" potrà essere sostenuta per molto tempo. Nessuna idea ha un'esistenza, perché nessuna idea è capace di avere un corpo. La controversia fra realismo e nominalismo non ebbe altro oggetto: continuata dal cristianesimo, non potrà finire all'interno di esso.
Il mondo cristiano vuol dare forma alle idee nelle varie condizioni della vita, nelle istituzioni e nelle leggi della Chiesa e dello Stato; ma le idee si ribellano, dacché è in esse qualcosa che assolutamente non si può attuare. È uno sforzo continuo verso un fine vanamente perseguito e non mai raggiunto.
Colui che vuol dare corpo alle astrazioni poco si cura delle cose reali, non d'altro desideroso che dell'attuazione delle sue idee; per ciò appunto egli riprende mille volte a esaminare se in ciò che si avvera di giorno in giorno sia insita realmente l'idea che deve formare il nocciolo di ogni cosa, e disperatamente si affanna nell'indagine se l'idea possa o non possa tradursi nel vero.
La famiglia, lo Stato, non hanno importanza per il cristiano in quanto realtà vera: egli non è tenuto, come l'antico, a sacrificarsi a esse perché esse devono servire unicamente all'incarnazione dello spirito. La famiglia reale è divenuta indifferente; una famiglia ideale, la sola vera, dovrebbe sorgere da quella: una famiglia sacra, benedetta da Dio o, secondo il concetto liberale, "una famiglia secondo ragione". Presso gli antichi, la famiglia, lo Stato, la patria, eccetera, avevano carattere divino quali cose esistenti; presso i moderni esse non sono che destinate a diventare divine, ma in sé sono peccaminose e terrene e hanno bisogno di essere redente. Il senso di tutto ciò è in somma questo: ciò che veramente esiste non è la famiglia o lo Stato, ma il divino; che poi quella famiglia compenetrandosi del divino (la sola realtà vera) possa attuarsi, è ciò che continuamente si spera. Cosicché il compito del singolo non è, per costoro, di servire ala famiglia come a cosa sacra,  ma invece di servire il divino e insinuarlo nella famiglia levando su tutto il vessillo dell'idea e attuando l'idea in ogni cosa.
Ma siccome tanto per il mondo antico quanto per quello cristiano, ciò che importa è sempre il divino, così per cammini opposti l'uno e ; perché esso sussiste ancor oggi non altrimenti che quale aspirazione  redimerla. Ma finché la civiltà cristiana prevale, il "divino", che è l'anima "del mondo", non può diventare il mondo stesso: rimangono troppe cose che sotto il nome di "malvagie", "irragionevoli", "egoistiche", si ribellano ad accoglierlo.
Il cristianesimo incomincia con l'incarnazione di Dio e in ogni sua opera e in tutti i tempi si affatica a preparare l'uomo ad accogliere Dio; tutto il suo compito si riduce a preparare un asilo per lo "spirito".
Se alla fine si affermò il concetto dell'uomo e dell'umanità, ciò si è fatto per proclamare nuovamente l'idea: L'uomo non muore! Si credette così che l'attuazione di questa idea fosse finalmente trovata: l'uomo è l'io della storia, della storia universale; egli, questo essere ideale, tende a incarnarsi. Egli è il vero "reale", perché il suo corpo è la storia, e di questo corpo i singoli sono i membri. Cristo rappresenta l'io della storia universale; se nel concetto moderno l'io è l'uomo, ciò avviene perché l'immagine del Cristo  si è trasformata in quella dell'uomo per eccellenza. Nell'uomo si riaffaccia l'origine mistica; perché l'uomo è un essere immaginario al pari del Cristo. L'uomo, quale io, chiude nella storia il ciclo delle concezioni cristiane.
Il cristianesimo vedrebbe infranto il suo magico cerchio se cessasse il contrasto tra l'essere e l'ideale, vale a dire , tra l'io qual è, e l'io quale dovrebbe essere; perché esso sussiste ancor oggi non altrimenti che quale aspirazione a incarnare l'idea ed è destinato a perire il giorno che quel dissidio sarà composto. L'idea incarnata, lo spirito fatto carne o "perfetto", sta dinanzi agli occhi dei cristiani come la "fine dei giorni", come la "meta della storia": è immaginazione di un futuro, non realtà del presente.
Al singolo non altro compito si riconosce fuor che quello di partecipare alla fondazione del regno dei cieli, cioè, con parole moderne, all'evoluzione e alla storia dell'umanità; e solo nella misura in cui egli vi partecipa gli si riconosce un valore cristiano o, nel senso moderno, umano: tutto il resto è polvere e fango.
Ma che il singolo sia per sé solo una storia del mondo e che il rimanente della storia universale sia cosa sua, è concetto che oltrepassa l'idea cristiana. Per il cristiano la storia rappresenta qualcosa di superiore all'individuo, perché essa è la storia di Cristo, ossia dell'uomo per eccellenza; per l'egoista invece non ha valore che la storia propria, perché egli non intende svolgere l'idea dell'umanità, non i progetti divini, non le intenzioni della provvidenza, non la libertà. Egli non vede in se stesso uno strumento dell'idea, un vaso divino; egli non riconosce a sé prefissa alcuna missione; egli non ritiene di esistere per contribuire alo sviluppo della società umana; egli vive senza curarsi se ciò per l'umanità sia un bene o un male.
Se non temessi di essere frainteso, facendo credere che io intenda lodare lo stato di natura, vorrei ricordare qui la poesia di Lenau, «I tre zingari». O che sono io forse al mondo per attuare delle idee? Per contribuire con il sacrificio del mio io a incarnare il concetto dello "Stato", o a dar corpo all'idea della famiglia ammogliandomi e procreando dei figli? Che importa a me di tale missione? Io vivo tanto poco per una vocazione, quanto il fiore per il profumo.
L'ideale dell'uomo non si attuerà se non quando si sarà invertita la tesi del concetto cristiano. Io, l'Unico, sono l'uomo. La questione: "che cosa è l'uomo?", si muta così nella questione: "chi è l'uomo"? Nel "che cosa" si cercava il concetto; nel "chi" la questione è senz'altro risolta, perché la risposta è data da quello stesso che interroga.  La risposta a quella domanda viene da sé.
Si dice a proposito di Dio: "Non v'ha nome che valga a definirti". La stessa cosa è dell'Io; nessun concetto può esprimerlo, nessuna parola definirlo adeguatamente. E si dice ancora di Dio, che egli è perfetto e che perciò non gli incombe alcuna missione che miri alla perfezione. Ebbene, la stessa cosa si deve pur dire dell'Io.
Padrone della mia forza sono io, nel momento in cui acquisto consapevolezza di essere unico. Nell'unico il possesso si dissolve nel nulla creatore, dal quale  nato. Qualunque essere superiore a me, sia esso dio o l'uomo, impallidisce al sole di questa mia coscienza di essere l'Unico. Se in me stesso, nell'Unico, io faccio convergere la mia causa, essa diventa proprietà del singolo da cui tutto si crea e che ogni cosa e se stesso consuma, e io potrò dire:
Io ho riposto la mia causa nel nulla.»

Max Stirner era uno pseudonimo.
Il suo vero nome, molto più prosaicamente borghese, era Johann Kaspar Schmidt, nato a Bayreuth nel 1806 e morto a Berlino nel 1856.
Oltre a quello che è considerato il suo capolavoro, «L'unico e la sua proprietà», Stirner non ha scritto molto: una «Storia della reazione» in due volumi (1852) e una serie di scritti minori, di carattere polemico e occasionale. In pratica, tutta la sua fama è affidata a quell'unico libro, che fa di lui il massimo esponente dell'individualismo anarchico.
Nel brano che sopra abbiamo riportato, e che può dare un'idea del modo di filosofare del Nostro (quantunque sia opportuno leggere l'opera integralmente), appaiono diverse semplificazioni non adeguatamente motivate, ad esempio egli quando mostra di considerare l'esistenza come una forma di corporeità e cade in pieno nel più vieto riduzionismo materialista, secondo la formula: esistente = ciò che è materiale. Solo così si può intendere una frase come: «Nessuna idea ha un'esistenza, perché nessuna idea è capace di avere un corpo».
E tuttavia, nonostante l'evidente povertà speculativa di simili enunciati, Stirner ha fatto scuola, se oggi applauditissimi mâitres-à-penser, come Umberto Galimberti, ripresentano la sua concezione fondamentale senza neanche prendersi la fatica di rielaborarla, e affermano che la mente è corpo, dunque che l'uomo è solo ed esclusivamente corpo; anzi, che tutto è corpo.
Stirner, d'altra parte, ha avuto il merito di vedere che la tendenza della modernità a pensare gli uomini per categorie astratte (la nazione, la classe, ecc.) costituiva un pericolo reale per la concretezza esistenziale dei singoli individui; e, come Kierkegaard, ha lanciato un grido d'allarme, rivendicando al singolo la priorità assoluta.
Solo che, mentre in Kierkegaard la priorità del singolo è rispetto all'atto puro del pensiero, ossia ad una verità puramente logico-razionale che si disinteressa dell'esistenza, ma trova il suo inveramento nella decisione rispetto alla vita etica e quindi rispetto all'Assoluto, in Stirner essa è diretta contro qualunque forma di concetto, a cominciare dall'etica, e si fonda sul nulla, il che è filosoficamente contraddittorio o, parlando più propriamente, aporetico.
Nulla si può fondare sul nulla, a meno di voler fare dei paradossi logici e non della sana filosofia; oppure, come nel caso di Kierkegaard, a meno di avere il coraggio concettuale di ammettere che là dove la ragione umana si arresta, la fede ci chiede un salto nel paradosso di ciò che non può essere dimostrato o, eventualmente, confutato, ma che è radicalmente altro, dunque inspiegabile con le categorie classiche del Logos.
Tuttavia, per voler cogliere un aspetto fecondo del pensiero di Stirner, diremo che la sua denuncia del socialismo come nuova forma di negazione della concretezza delle esigenze individuali in nome di un ideale astratto, che è solo il travestimento di una concezione gerarchica della società, presenta aspetti ancor oggi validi e, a nostro parere, decisivi nella critica del marxismo.
E una prova del fatto che Stirner, nella sua critica del socialismo, aveva colto nel segno, è data dalla virulenza dell'attacco che gli venne portato da Marx in persona, il quale sembra aver visto in lui, insieme a Proudhon, il più pericoloso avversario della sua concezione autoritaria del socialismo.
Marx ed Engels, nel loro caratteristico livore chiesastico verso l'«eretico» Stirner, definiscono il suo libro «una lunga brodaglia di 491 pagine», scritta alla maniera delle chiacchiere hegeliane e berlinesi; sentono però il bisogno, per confutarlo, di dedicargli circa 350 pagine su un totale di meno di 550 che compongono «L'ideologia tedesca»: mostrando con ciò, implicitamente, di non ritenerlo poi tanto insulso.
Insulsa, invece, è la parodia di tipo religioso che ne fanno, e che vorrebbe essere ironica e spiritosa, mentre è rozzamente pesante e inutilmente volgare (K. Marx- F. Engels, «L'ideologia tedesca» (titolo originale: «Der Deutsche Ideologie»; traduzione italiana di Fausto Codino, Roma, Editori Riuniti, 1958,  p. 252):

«Nel principio era il Verbo, il Logos. In esso era la vita, e la vita era la luce degli uomini. E la luce risplende nella tenebra e la tenebra non l'ha compresa. Essa era la vera luce, era nel mondo, e il mondo non l'ha conosciuta. Egli venne nella sua proprietà e i suoi non l'hanno ricevuto. ma a tutti cloro che l'hanno ricevuto, egli ha dato il potere di diventare proprietari, i quali credono nel nome dell'Unico. Ma chi ha mai visto l'Unico?»

D'altra parte, è un fatto che l'atteggiamento di totale e programmatica deresponsabilizzazione dell'individuo rispetto alla famiglia, alla società, allo Stato, teorizzata nel libro di Stirner, non potrebbe che condurre alla dissoluzione del corpo sociale, se venisse coerentemente perseguita non già dalla maggioranza, ma anche soltanto da una significativa minoranza dei membri di una determinata comunità.
Quando Stirner afferma che l'egoista «non vede in se stesso uno strumento dell'idea, un vaso divino; egli non riconosce a sé prefissa alcuna missione; egli non ritiene di esistere per contribuire alo sviluppo della società umana; egli vive senza curarsi se ciò per l'umanità sia un bene o un male», egli esprime un ribellismo che si può anche comprendere, sul piano psicologico, a fronte del disconoscimento del singolo da parte della cultura allora dominante; ma che è assurdo sul piano filosofico e devastante sul piano politico-sociale.
Tra l'altro, l'inevitabile conseguenza di una simile concezione dell'io è quella che ciascun individuo non può che vedere nei propri simili dei rivali e dei concorrenti, se non addirittura dei nemici; e non è un caso che tale impostazione dell'esistenzialismo sia poi culminata, con Jean Paul Sartre, nell'affermazione che «l'inferno, sono gli altri», massima espressione del bellum omnium contra omnes descritto da Hobbes.

Un bilancio complessivo del messaggio de «L'unico e la sua proprietà» (che ebbe un momento di grande notorietà per poi finire rapidamente dimenticato, tanto che Stirner morì solo e in estrema miseria) è tratteggiato da George Woodcock in «L'anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari» (titolo originale: «Anarchism. A History of libertarian ideas and movements», 1962; traduzione italiana di Elena Vaccari, Milano, Feltrinelli, 1966, 1980, pp. 86-87):

«La prima cosa che colpisce il lettore de "L'Unico" è l'appassionato antinitellettualismo. Mentre per Godwin principio supremo è la ragione, Stirner parla in nome della volontà e degli istinti, e cerca di abbattere le strutture del mito e della filosofia, tutte le costruzioni artificiose del pensiero umano, per giungere all'io elementare. Nega la realtà di concetti astratti e generalizzati come Uomo e Umanità; l'individuo umano è l'unica cosa di cui abbiamo sicura conoscenza, e ogni individuo è unico. Questa unicità ogni uomo deve coltivare; l'io è l'unica legge, al di fuori del quale non esistono obblighi nei confronti di nessun codice, credo o concezione filosofica. Non esistono diritti, esiste solo la forza dell'io in lotta contro il resto dell'umanità e del mondo. per quanto riguarda concetti di tipo godwiniano come quelli di dovere e di una legge morale immutabile, Stirner li nega completamente: una regola di condotta per l'individuo  che ha realizzato se stesso sono le sue necessità e i suoi desideri.
Persino la libertà, la grande meta di quasi tutti gli anarchici, passa in seconda linea rispetto all'unicità od originalità dell'individuo, essa può essere soltanto parziale, libertà da certe cose: la natura stessa della vita rende irrealizzabile la libertà assoluta.»

Se, da un lato, l'idea di una lotta incessante del singolo contro tutto il resto del mondo sa tanto di titanismo romantico e trova le sue radici ideologiche in una sorta di byronismo trasportato dalla sfera dell'estetica a quello dell'egoismo puro e semplice, dall'altro l'esaltazione del vitalismo originario e amorale del singolo sfocerà dritta dritta nel superomismo nietzschiano, mostrando che il pensiero di Stirner non è tanto una rivolta contro il pensiero e la morale, quando un fenomeno tipico della cultura tedesca del XIX secolo, che ha conosciuto il suo momento di grazia ed è stato poi riconosciuto come datato e velleitario.
Ci congediamo, perciò, dal pensiero di «san Max», senza lo sferzante disdegno di Marx ed Engels, ma anche con la consapevolezza di quanto esso sia stato foriero di gravi traviamenti per un pubblico di lettori, specialmente giovani, portati all'entusiasmo irruento e generoso, ma inconsapevoli delle gravissime conseguenze che la sua applicazione causerebbe al corpo sociale, qualora fosse preso sul serio e ciascuno tentasse, a suo modo, di realizzarlo, all'insegna di uno sfrenato egoismo individuale.