Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Mircea e Maitrey, il cielo oltre la stanza

Mircea e Maitrey, il cielo oltre la stanza

di Annalisa Terranova - 16/02/2006

Fonte: area-online.it

Una storia d’amore può essere esemplare, commovente, romantica. Quella tra Mircea Eliade e Maitreyi Devi possiede tutte e tre queste caratteristiche, oltre ad avere quel tocco di esotismo che sempre attira la curiosità di noi occidentali e che in questo caso si sprigiona da questa inedita coppia formata da una sedicenne indiana che si diletta di poesia e un erudito di 23 anni, rumeno e cristiano, che soggiorna a Calcutta, negli anni Trenta, per imparare il sanscrito e fare pratica yoga.

Il nome di Mircea Eliade (1907-1986) di norma rimanda ad altre questioni, più eteree e filosofiche, evoca la dottrina, la fenomenologia delle religioni nella quale questo studioso riuscì a penetrare più di altri nel corso del Novecento. Al centro del suo pensiero vi era l’idea del mito come apparizione (ierofania) che fonda la storia e nel corso del tempo ritorna ciclicamente. La storia delle religioni diviene dunque storia delle ierofanie che si ripetono nel tempo. Ma l’ammirato e apprezzato storico delle religioni, esperto di sciamanesimo e di spiritualità yoga, amato a destra per la simpatia che lo legava alla Guardia di Ferro di Codreanu, aveva anche un debole per la narrativa. Non a caso a 14 anni pubblicò il suo primo romanzo: Come ho scoperto la pietra filosofale. è del 1933 invece il romanzo Maitreyi (edito in Italia da Jaca Book nel 1988) in cui Eliade narra la passione travolgente per la figlia del filosofo Dasgputa, presso la cui casa a Calcutta è ospite, titolando il suo racconto con il nome della ragazza. Un amore osteggiato dai genitori di lei, che costringeranno lo “straniero” ad allontanarsi.

Oggi viene tradotta in Italia quella che possiamo considerare la risposta di Maitreyi Devi all’antico amante. Un romanzo in cui la poetessa, fervente ammiratrice di Gandhi e allieva di Rabindranath Tagore, descrive l’amore per quel giovane europeo con gli occhi di una fanciulla indiana, marcando le differenze dalla visione occidentale di Eliade, troppo sensuale e a volte così carnale da risultare offensiva per Maitreyi.

Al romanzo (edito dalle Edizioni biografiche) presta il titolo un verso della “Baghavad Gita”, Na hanyatè - Ciò che non muore mai. Maitreyi Devi (che nel racconto è Amrita, dal nome del nettare degli déi che dona l’immortalità) descrive l’attrazione per Mircea (chiamato Euclid, forse per accusarne l’eccessiva razionalità nell’affrontare i sentimenti) attraverso un gioco di sguardi, di dialoghi che spesso sfociano in una reciproca incomprensione, attraverso la sofferenza della lontananza (“Quando sono nella mia stanza e lui è nella sua, sento uno struggimento, quasi un dolore fisico. Sarebbe terribile se lui dovesse partire e non fare più ritorno. Non si accenderebbe alcuna luce per me, solo una densa, impenetrabile oscurità”), lo stupore per fugaci contatti fisici (“Mircea tuffa il suo viso tra le mie mani, il cielo cade sulla terra, il sole si appanna e giace al suolo, inerte, piegato dal peso di un bacio”). 

Ma il libro è anche un atto di accusa: Mircea non le ha mai scritto ma ha raccontato del loro amore in un modo sbagliato: “Perché ha voluto distruggere questo amore che è un dono di Dio? Se in dieci anni avessimo potuto scambiare almeno una sola lettera sarebbe stato sufficiente. Con quella sola lettera avremmo potuto varcare continenti, saremmo diventati due entità che insieme acquistano completezza. Ma gli occidentali possono capire tutto ciò? Per loro il massimo dell’amore viene raggiunto a letto…”.

Di che amore parla Maitreyi-Amrita? Di quello teoricamente descritto anche da Ananda K. Coomaraswamy: “L’India non ha mai potuto sfuggire alla convinzione che l’amore sessuale ha un profondo significato spirituale, l’unione mistica del finito con l’infinito che lo circonda - questa esperienza unica la cui prova è in se stessa - non può essere paragonata meglio che allo stato degli amanti terrestri che dimenticano il loro io nell’abbraccio, quando ognuno è in entrambi”.

In India l’amore è energia, forza che supera le contraddizioni del molteplice e del diverso e dunque “sostanza ultima” della conoscenza. “Krshna e la sua sposa Radha sono gli archetipi di questa umana vicenda di soddisfacimento e di privazione, di conoscenza e dominio di sé che nella separazione raggiunge paradossalmente quell’amore più intenso e libero chiamato ‘prema’, sentimento limpido e scevro da smodatezza, simile alla devozione del fedele per il suo Dio” (così Andrea Piras in uno dei saggi dei Quaderni di Avallon dedicati all’amore e agli archetipi femminili).

In Ciò che non muore mai tutto questo assume la forma concreta e poetica di una vicenda reale, che unisce due esseri in carne e ossa e lascia ferite non rimarginate, memorie dolcissime e al tempo stesso dolorose, ricordi fragili ma indistruttibili come il cristallo.

Nel romanzo, alla fine, le due visioni amorose, quella orientale e quella occidentale, si riconciliano proprio grazie alla forza di un sentimento che non può morire: lo si comprende nelle pagine finali, quelle che descrivono l’incontro nel 1972 all’università di Chicago tra un Mircea Eliade ormai anziano e una Maitreyi sessantenne. Benché non più giovani, e nonostante il tempo trascorso in un pesante e reciproco silenzio, i due riescono a spiegarsi e a comprendersi, a riconoscersi ancora come eterni amanti. Lui evita di guardarla, le dà le spalle. Lei insiste perché si volti. Lui replica: “Come posso guardarti, credi che Dante abbia mai pensato che avrebbe potuto rivedere Beatrice con occhi vivi?”. Lei lo implora di guardarla, osserva che non è un fantasma, che da quell’incontro chiede solo un po’ di pace. Finalmente l’incontro cattura anche gli sguardi.

“Io sono venuta a vedere te, che nessun’arma può ferire, né fuoco bruciare. Lui rispose in sanscrito: “Na hanyatè animane sarire. Ciò che non muore quando il corpo muore”. “Bene, e allora cosa? Che sono venuta a vedere quello che è in te, ciò che non ha inizio né fine e se tu mi guardi, credimi, in un attimo ti farò tornare indietro di quarant’anni, esattamente nel posto dove ci siamo incontrati la prima volta”. Mircea alzò il viso, i suoi occhi erano vitrei. Le mie peggiori paure erano vere, i suoi occhi erano diventati di pietra. No, non mi avrebbe vista di nuovo. Cosa posso fare ora? Non sono capace di dare luce a quegli occhi, non ho più la lampada in mano, attraverso tutto questo cammino chi sa quando l’olio si è consumato e lo stoppino bruciato? La paura aveva cambiato anche me, ero tornata ad essere un normale mortale, non ero più Amrita. Pensavo come lui in termini di anni, quarant’anni, veramente troppo, troppo tardi… Avvertii la sofferenza che dal mio cuore spezzato si levò come un sospiro e vagò per la stanza. Mi avviai verso la porta cercando di evitare le montagne di libri quando sentii la voce di Mircea: “Amrita, aspetta, perché crolli proprio ora, quando per tanti anni sei stata così coraggiosa? Te lo prometto, tornerò da te e lì sulle sponde della nostra sacra Ganga, ti mostrerò il mio vero essere”. Non sono una pessimista. Dentro il mio cuore il piccolo uccello della speranza aveva le ali spezzate; ma non appena le parole di Mircea lo raggiunsero, anche il piccolo uccello riprese a vivere e si trasformò in una fenice. Qualcuno di voi ha mai visto una fenice? Questo grande e bellissimo uccello allargò le ali e mi trasportò sempre più in alto, il tetto dello studio di Mircea si aprì, i muri sparirono e tutti quei libri di pietra si trasformarono in onde e sentii il rumore dell’acqua che scorreva…”.