L'ultima cittadella marxista-leninista si trova all'interno della Chiesa cattolica?
di Francesco Lamendola - 01/01/2009
All'inizio era solo una vaga sensazione.Spesso - non sempre -, quando avevo a che fare con dei sacerdoti cattolici, prevalentemente per ragioni di tipo culturale, avvertivo in essi una profonda diffidenza nei miei confronti, nonostante la mia ingenua convinzione che, se si guarda alle cose che uniscono e non a quelle che dividono, un pezzo di strada insieme sicuramente lo avremmo potuto fare.
Non riuscivo a capire.
Se io - pensavo -, che sono esterno al loro mondo, non ho alcuna prevenzione nei loro confronti, anzi, nutro stima per molti di essi e sono pronto a collaborare lealmente e senza secondi fini su determinati progetti, perché mai questa ritrosia, quest'aria sfuggente nei miei confronti?
Ad esempio, una suora - direttrice di una rivista missionaria - interruppe bruscamente una bella e lunga corrispondenza e non rispose più, dopo che le ebbi ricordato che la tolleranza deve sempre funzionare nei due sensi. Una semplice coincidenza?
Perché, dunque, a quel convegno sull'Africa, i padri di un certo ordine religioso avevano mostrato di non gradire troppo una libera e franca discussione, e meno ancora gli esperti da loro invitati, come quel certo antropologo, docente all'Università di Roma, che apprezzava solo quanti la pensavano in tutto e per tutto come lui?
E quel sacerdote, direttore di una certa rivista diocesana, che aveva lasciato cadere ogni occasione di collaborazione, trincerandosi dietro un sorriso pretesco, nel senso meno bello della parola?
C'era qualcosa che mi sfuggiva e non capivo cosa.
E quella sensazione, che poi trovava conferme sia in atti concreti sia, soprattutto, in una mancanza di atti - appunto, in un tacito rifiuto di collaborare da parte loro - diveniva più forte quando mi trovavo in ambienti ecclesiastici con una spiccata coloritura politico-sociale progressista, ad esempio con sacerdoti che venivano da esperienze pastorali in Africa o in America Latina e che erano vicini alla cosiddetta "teologia della liberazione".
Non con sacerdoti che in quelle terre vivevano e lavoravano da anni: quelli li ho conosciuti di persona, sul posto, e la stima e la simpatia reciproche sono state pressoché immediate, sempre. No: il gelo si creava con quelli che, stando in Italia, pensavano di essere i soli legittimati ad esprimere opinioni sulle situazioni sociali e spirituali di quei Paesi.
A lungo mi stupii del fatto, ma lo consideravo puramente casuale; né, del resto, era di natura tale da turbare - come si suol dire - i miei sonni.
Poi, un giorno, conversando con un carissimo amico cattolico, ho avuto la rivelazione: il mistero mi si è chiarito e i pezzi del disordinato mosaico sono tornati ciascuno al proprio posto.
In breve, questo amico - una delle persone più limpide e intellettualmente oneste che abbia mai conosciuto - mi disse: "Secondo me, la difficoltà di relazionarti con quei sacerdoti ha una spiegazione molto semplice: essi hanno avvertito, di primo acchito e a fior di pelle, che tu non sei marxista; che la cultura marxista non fa parte del tuo mondo".
E poiché io, stupito, gli domandai: "In effetti, non sono mai stato marxista. Ma perché questo dovrebbe essere un problema, per loro?", egli mi rispose:
"Perché, per molti preti, venire dal marxismo è un biglietto di presentazione eccellente, per non dire imprescindibile. Pur con tutto quello che è successo, con il fallimento del socialismo reale e il crollo dei regimi comunisti, essi continuano a vedere nella cultura marxista un valore positivo; e il fatto che essa ti sia estranea, come appare evidente a chi parli con te anche solo per pochi minuti, ti squalifica ai loro occhi, li mette in guardia e li rende sospettosi, come davanti a un potenziale nemico".
La cosa mi ha colpito, ma mi ha fatto riflettere; e mi sono reso conto che il mio amico aveva, quasi certamente, ragione.
Si faccia attenzione che qui non stiamo parlando, genericamente, della cultura cattolica, ma proprio della Chiesa cattolica; o, per essere più precisi, di una parte di essa.
C'è una parte della Chiesa cattolica che apprezza, stima, ammira la visione marxista della società; che la considera, nel bagaglio politico e culturale di una persona, come un degno biglietto da visita; che si pone automaticamente in un atteggiamento di diffidenza nei confronti di quanti non la condividono (stavo per dire: non la professano, dato che il marxismo è stato vissuto dai suoi seguaci né più né meno che come una religione soteriologica).
E questo non più in tempi di contestazione generale, di teologie progressiste postconciliari e di cattocomunismo, ma nel primo decennio del terzo millennio: quando non solo le infamie ed i crimini dello stalinismo sono passati alla storia, ma l'intero sistema politico mondiale basato sui principi marxisti e leninisti è miseramente imploso, trascinando nelle sua rovinosa caduta interi popoli e seminando vaste aree del globo di macerie, materiali e morali.
La cosa può sembrare paradossale, eppure ha tutta l'aria di essere vera: l'ultima agguerrita cittadella del marxismo-leninismo non si trova, ormai, nei piccoli partiti politici dell'estrema sinistra, sempre più in via di estinzione, ma all'interno della Chiesa cattolica, del suo clero, delle sue riviste.
C'è un brano, nel libro di Vittorio Messori "Pensare la storia" (Edizioni Paoline, 1992, pp. 302-305), nel quale si riporta uno scambio di battute fra l'Autore e il filosofo Gianni Vattimo, che - a questo proposito - merita di essere riportato:
"Molti, e non soltanto in Italia, considerano Gianni Vattimo, dell'Università di Torino, uno dei filosofi più interessanti del nostro tempo. Paradossalmente, lo giudicano uno dei pensatori più "moderni". Dico "paradossalmente", perché Vattimo è uno dei teorici più convinti della "fine della modernità". Per lui - e per molti altri che, nel mondo, riflettono - la morte dell'idea di progresso, cuore e motore della cultura iniziata nel Settecento, ha significato la fine di quella cultura stessa e l'ingresso nella terra inesplorata del post-moderno.
Non certo a caso, l'ideologia che poggi più va - e sempre più andrà - per la maggiore, è quella ecologista, basata non più sul mito del futuro (e, dunque, del progresso) ma, al contrario, su quello del passato ( (il sogno del ritorno a un mondo incontaminato, pre-moderno). Il rosso "progressista" trascolora nel verde "reazionario": il Paradiso Terrestre non è più "avanti", ma "indietro". E non a caso, in quella dimensione rivelatrice che è il gusto artistico, il prestigio dell'antico, o anche solo del vecchio non è mai stato acuto come ora, sino al punto di disputarsi a colpi di miliardi qualunque opera od oggetto anche mediocre, purché "d'epoca".
La spesso inconfessata disistima per il nostro tempo, accompagnata dalla stima altissima per il tempo di coloro che ci hanno preceduti è provata, tra i mille esempi possibili, dall'urbanistica: la borghesia dell'Ottocento e dei primi decenni del nostro secolo, sicura della bontà del progresso (e, dunque, di tutto ciò che è nuovo) non esitava a sventrare le città e a ricostruire a suo giusto i centri storici. Del resto, nessuna altra epoca, prima della nostra, ebbe mai paura di demolire per riedificare. Noi, ora, tuteliamo anche i vespasiani liberty e le insegne dei negozi; pretendiamo il restauro, e il più fedele possibile, di qualunque cosa abbia qualche decina d'anni, sicuri che ciò che riedificheremmo al suo posto sarebbe peggiore.
Di questo cambio di èra, di questa svolta davvero epocale, Vattimo ha preso lucidamente atto. Il suo libro più noto (e tradotto in mezzo mondo) si chiama appunto "La fine della modernità". "È finita la modernità - constata - nel momento in cui abbiamo riconosciuto che il nuovo non è sempre il meglio, che conservare è spesso meglio che cambiare". Vattino è un ex cattolico (negli anni Cinquanta, con Umberto Eco e Furio Colombo, guidava l'Azione Cattolica giovanile torinese), è passato attraverso il consueto travaglio degli intellettuali del nostro tempo, prendendo anche lui sul serio ideologie come quella marxista e poi radicale, prima di accorgersi che sapevano di cadavere, che tra i segni maggiori della fine della modernità c'era giusto la fine delle ideologie.
Di recente su "La Stampa" , di cui è tra i collaboratori più prestigiosi, questo agnostico che non ha cessato di osservare con attenzione il mondo religioso, ha scritto di "quelle istituzioni cariche di una storia secolare che accettano e fanno propri ideali e valori solo quando sono superati". Aggiungendo: "Oggi, per esempio, il marxismo-leninismo è professato quasi esclusivamente entro la Chiesa cattolica".è un'osservazione che, con ironia, Vattimo mi aveva già anticipato in nostri precedenti incontri. E io non avevo potuto fare a meno di ricordargli la predizione di Jean Guitton: "Dei preti saranno gli ultimi che crederanno nel comunismo quando sarà ormai morto e sepolto e nessun laico oserà più dirsi tale". Sembrava una battuta paradossale. E, invece, si è rapidamente realizzata. Così, non fa sorpresa, neppure scandalo, soltanto un po' di tristezza, constatare che il direttore di una rivista missionaria, un frate, si presenta come capolista , alle elezioni europee, per "Democrazia Proletaria" (e chissà chi è ancora ricco solo di prole - proletario - in un Occidente dove ogni coppia ha meno di un figlio; e chissà mai cosa c'è da sperare da una "democrazia proletaria", dalla quale i popoli dell'Est hanno da dirci cose poco carine, dopo averla ben provata…).
Candidature a parte, è pur vero che, mentre da decenni in Occidente e da qualche tempo anche in Italia, "comunista" è un termine da archeologia della modernità ormai defunta solo in un certo mondo clericale gli ex marxisti, in crisi mortale di identità, trovano attenzione, solidarietà, proposte di alleanza.
Poiché - come da direttive del Concilio - occorre ascoltare le "voci dei non credenti", sarà forse da meditare anche quanto aggiunge Vattimo: "L'ansia della modernizzazione e dell'aggiornamento spazza come un vento potente ormai soltanto i corridoi di istituzioni in ritardo." Tra le quali mette la Chiesa., Dove, come mi diceva lo stesso filosofo in una intervista, "solo certi teologi che hanno scoperto da poco il mondo sono angosciati dall'idea di stare al passo con i tempi. I quali, però, camminano su altre strade da quelle che quei volonterosi immaginano. Così, per questo osservatore esterno, la Chiesa doveva semmai "aggiornarsi" al momento giusto, quando il "moderno" era vincente, non negli anni Sessanta del nostro secolo mentre la modernità moriva (il '68 fu l'inizio dei lunghi funerali).
Per Vattimo, quella che oggi, nella Chiesa, viene denunciata da coloro che chiama "anacronistici progressisti" come un'esecrabile "restaurazione", sarebbe invece la ricetta giusta per la nuova èra in cui entriamo e dove ciò che paga - lo scoprono persino i manager americani e giapponesi per dare prestigio ai loro prodotti - è la Tradizione. "Voi cattolici - mi diceva il filosofo con il suo gusto ironico - avete resistito impavidi per quasi due secoli all'assedio della modernità. Avete ceduto proprio poco prima che il mondo vi desse ragione. Se tenevate duro ancora per un po', si sarebbe scoperto che gli "aggiornati", i profeti del futuro "post-moderno" eravate proprio voi, i conservatori. Peccato. Un consiglio da laico: : se proprio volte cambiare ancora, restaurate, non riformate. È tornando indietro, verso una Tradizione che tutti vi invidiavano e che avete gettato via, che sarete più in sintonia con il mondo d'oggi, che uscirete dall'insignificanza in cui siete finiti, "aggiornandovi" in ritardo. Con quali risultati, poi? Chi avete convertito, da quando avete cercato di rincorrerci sulla strada sbagliata?
Provocazioni, certo., ma non inutili, mentre si scopre che aveva ragione Simone Weil ("non le religioni, ma le rivoluzioni saranno riconosciute come l'oppio dei popoli"). E mentre intellettuali in "clergy-man" si agitano per una chiesa ancora più moderna. ("E niente sarebbe meno moderno di una Chiesa come la vorrebbero loro", dice beffardo Vattimo, a nome di quella cultura "laica" con la quale certuni si illudono di dialogare meglio. Mentre ciò che oggi interessa il "mondo" non è la teologia computerizzata, ma il pellegrinaggio al santuario o l'esorcismo; non è un Vangelo razionalizzato, ma lo scandalo del Mistero; non è la profanità, ma il Sacro)."
Mi sembra che si possa sottoscrivere la sostanza di questo ragionamento, pur muovendo da altra prospettiva di quella di Messori (e di Vattimo); poiché, se non sono mai stato marxista, non sono però mai stato nemmeno un anticomunista viscerale: e mi sembra che confondere i due termini, "comunismo" e "marxismo", la dica lunga sulle semplificazioni ideologiche che stanno dietro una certa cultura cattolica "di destra").
Sottoscrivibile, però, la sostanza del ragionamento: credendo di aggiornarsi, la Chiesa cattolica ha svenduto una buona parte di ciò che costituiva il suo patrimonio spirituale specifico, ossia la custodia della Tradizione; e adesso, quando il marxismo non è più figlio di nessuno - perché la vittoria ha molti figli, ma la sconfitta nessun padre -, pare proprio che i suoi ultimi, irriducibili soldati giapponesi nella giungla siano certi membri del clero.
Intendiamoci: la Chiesa ha anche una dimensione profetica, ed è giusto che essa ascolti la voce della profezia; così come essa ha una dottrina sociale che non si appiattisce per niente sulla celebrazione dell'esistente, cioè del capitalismo: e allora evviva i don Zeno che fondano Nomadelfia, dove il denaro è abolito, ed evviva gli Zanotelli, che se ne vanno a lavorare per gli ultimi degli ultimi, ossia gli abitanti della miserabile "bidonville" di Nairobi.
Però, attenzione: la Chiesa non è solo profezia; e non tutte le profezie devono essere, per forza, progressive, se con questo termine si intende che esse siano basate sulla celebrazione del progresso come categoria laica, e cioè in senso puramente profano e immanente. Altrimenti la profezia religiosa perde ciò che essa possiede di specifico, ossia la prevalenza della dimensione del sacro, del trascendente, dell'invisibile, e si riduce a una brutta copia della profezia profana, ossia di un messaggio di salvezza basato sulla fiducia esclusiva nella dimensione umana della storia.
Tipico esempio di profezia profana, divenuta addirittura religione immanente di salvezza, è stato, appunto, il marxismo, come abbiamo altra volta cercato di argomentare dettagliatamente (cfr. F. Lamendola, "Il marxismo e il suo esito fallimentare: quale la sua eredità nell'epoca della tecnologia?", consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice e su quello dell'Associazione Ecofilosofica). E questa dimensione salvifica ed escatologica del marxismo è, per l'appunto, il "trait d'union" fra esso e certi membri della Chiesa cattolica: quelli che sembrano essersi dimenticati della dimensione trascendente della profezia e tendono a ridurla ad annuncio di salvezza immanente. Magari con il mitra in mano, come fece Camilo Torres, in Colombia, all'epoca della teologia della liberazione.
Intendiamoci: vi sono situazioni sociali e politiche, nell'America Latina e altrove, che gridano vendetta al cielo: con i latifondisti che spadroneggiano ancora come signorotti feudali e si servono degli "squadroni della morte" per reprimere nel sangue ogni sacrosanto anelito dei contadini ad un minimo di giustizia terrena.
Soltanto, ci domandiamo: è compito della Chiesa cattolica quello di predicare la rivoluzione sociale e politica?
La questione non è, si badi, comunismo sì o comunismo no: perché l'ideologia sociale della Chiesa è stata per secoli e secoli il comunismo, e negarlo (ecco il punto debole di posizioni come quella di Vittorio Messori) significa chiudere gli occhi davanti agli aspetti della storia che non piacciono a qualcuno. Basta leggere gli "Atti degli Apostoli" per rendersi conto che le prime comunità cristiane si organizzavano in senso comunistico (e senza alcuna indulgenza per i trasgressori: vedi l'episodio di Anania e Saffira). Del resto, il canonista e teologo medievale Graziano, nel suo "Decretum", non aveva forse affermato: "Communis enim usus omnium quae sunt in hoc mundo omnibus hominibus esse debuit"? Sono parole abbastanza chiare, per chi le voglia intendere.
Ma il punto è un altro. Il punto è se rientri fra i compiti e le finalità della Chiesa quello di predicare un cambiamento economico-sociale mediante i mezzi della lotta politica, compresa la conquista violenta del potere; o se ciò - per quanto dettato da buone intenzioni - non costituisca un tradimento della sua natura e della sua missione.
I casi sono due: o si crede o non si crede che Dio guida la storia.
Sì, dicono i preti comunisti: però aiutati che Dio ti aiuta; se la giustizia tarda troppo a venire, meglio dare una piccola spinta alla divina Provvidenza.
Anche Marx pensava che la giustizia avrebbe trionfato, perché - da buon discepolo di Hegel - riteneva che tutto ciò che è razionale è anche reale, per cui "verum et factum convertuntur".
Anche lui, però, era impaziente: perché aspettare il Regno della Giustizia domani, quando possiamo averlo già oggi? Così, contraddicendo la sua certezza che il proletariato avrebbe trionfato in seguito all'autodistruzione della borghesia, lo incitava a non perder tempo e a ribellarsi subito, senza più attendere neanche un minuto.
Non è vero che Marx era ateo: nessun ebreo lo è mai veramente (valga per tutti il caso di Freud); e, se crede di esserlo, trasferisce in qualche principio di quaggiù le caratteristiche del Dio trascendente.
Così, esaminando bene le rispettive premesse ideologiche, appare addirittura scontato che certi preti sono destinati a incontrarsi con il marxismo e a divenire dei marxisti ancora più rocciosi e tetragoni di quelli "laici". Prova ne sia che, mentre il marxismo è praticamente scomparso ovunque come ideologia politica, ci sono ancora numerosi preti che pensano, sentono e sperano da perfetti marxisti-leninisti.
Rispettiamo la loro posizione dal punto di vista umano, ma troviamo che essa sia contraddittoria e incoerente dal loro punto di vista, ossia quello ecclesiale.
Le cose vanno bene allorché, in una società, si confrontano posizioni diverse, ciascuna portando avanti - con coerenza e con chiarezza - le proprie convinzioni. Ma oggi, per un senso malinteso di libertà che si traduce, di fatto, nella confusione più totale e nella demagogia più sfrenata, ci sono troppi individui e troppe istituzioni che non fanno il proprio mestiere, ma quello che spetterebbe ad altri; né si deve chiamare ciò con i nomi ingannevoli di pluralismo e di apertura. Pluralismo ed apertura culturale sono cose bellissime, ma non possono nascere dal pasticcio derivante da uno scambio di ruoli; al contrario, sono possibili e auspicabili quando ciascuno porta avanti il proprio progetto, presentandosi francamente per quello che è.
La collaborazione nasce dalla logica dei distinti che si confrontano da posizioni diverse, non dalla Babele dei diversi che si mescolano in un guazzabuglio inestricabile, annacquando le differenze e, addirittura, invertendo i propri ruoli.