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Se Botticelli è su Facebook

di Anna K. Valerio - 10/01/2009

Fonte: cultrura

 

 

Non si sa per quale gaglioffa circostanza, per quale ‘neuronico’ busillis, per quale inghippo spaziotemporale: Botticelli è su Facebook, esposto ai frizzi e ai lazzi della pubblica opinione, alle contrazioni e agli strizzamenti dei sociali visceri in comunione. Poniamo il caso che accadesse, il triviale caso.

Se c’è qualcosa di assolutamente e sommamente bello, di perfettamente consanguineo della luce, di nobilmente limpido e bianco, grazia espansa in paesaggio, in iridi, in figure, in fanciulli e fanciulle di estatico splendore, è la pittura di Botticelli. Platone con il dono delle policromie, Omero riscattato a tutti e cinque i sensi, “klèos” dell’arte di grande stile. Non c’è messaggio riposto, cifrato, nelle sue tele: il significato e l’espressione fanno tutt’uno, e ripetono, sorgive di marmo: la bellezza, la bellezza, la bellezza. La bellezza che è diffusione della luce nel romanzo del tempo, che è luce di ogni più alta gloria umana e divina, che fa l’uomo e il dio consimili, che fa l’uomo, se è bello, superiore a un dio sgraziato. La bellezza, preghiera senza genuflessione, liturgia senza gesti, trascendenza schiusa nel mondo, differenza che annulla il differire, che semplifica il reale secondo il discrimine più ingenuo, più estremo: ciò che è (bello), ciò che non è (bello). Essenza della sostanza, sostanza di pura essenza, accordo estatico tra il moto ascendente, che desidera il nulla, e il moto discendente, che considera il tutto. Botticelli è questo, significa questo. Non si può avere opinioni su di lui, sulla bellezza. Ma su nulla si può avere opinioni: o si aderisce alla realtà, o ci si discosta da essa, delirando. Il vero è assolutista.

Eppure, se Botticelli fosse su Facebook, garantito che troverebbe i detrattori. E’ uno dei più odiati, malgrado l’ossessiva replica mercantile delle sue opere. La nipotona d’arte (un nonno futurista per svariati chili di troppo), mestamente professoressa al liceo d’élite, si dà alla comparazione: “La sua linea è troppo pesante: a me piace lo sfumato di Leonardo”… La collega (di cui risparmiamo il ritratto per non sconfinare nell’iperrealistico) sbotta: “Uff, fatevelo da soli: mi ha stufato”… La secchiona anoressica con l’hobby di sedare le nevrosi e di scaldare i geloni disegnicchiando: “Guarda che brutte mani e brutti piedi che fa”…

Come potrebbero, d’altronde, tollerarlo, tutto quell’oro, quelle ali, quei boccoli, quella distanza, quel sole che li smaschera e li svergogna solo essendo, splendendo - senza nemmeno (e questa è davvero la pena più terribile) badarli?