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L'uomo felice è davvero in grado di immedesimarsi nel dolore dell'altro?

di Francesco Lamendola - 18/01/2009


 

Nella stupenda prima ecologa delle «Bucoliche» di Virgilio vengono messi a confronto il dolore del pastore Melibeo, costretto ad andarsene per sempre dal suo podere, occupato con la forza da un veterano delle guerre civili, con l'olimpica serenità del suo vicino Titiro, il quale - al contrario - ha potuto conservare le sue terre grazie all'intercessione di Cesare Ottaviano e si gode, all'ombra di un faggio dalle ampie fronde, la dolce melodia del proprio flauto e la soddisfazione per lo scampato pericolo.
Non si potrebbe immaginare un contrasto più grande fra due stati d'animo: Melibeo, lacerato dal dolore del distacco dalle cose più care e dallo sgomento per l'ignoto, che spinge innanzi a sé, quasi con disperazione, il gregge delle sue caprette, né sa dove lo porterà il destino; l'altro, tutto colmo di gioia per la possibilità di godere ancora a lungo la propria casa e la propria terra, dopo che un precedente viaggio a Roma gli ha consentito di riscattarsi dalla condizione servile, e tutto infervorato dalla sconfinata gratitudine per l'uomo che, simile a un Dio, gli ha concesso il bene inestimabile di poter conservare il podere.
La giornata autunnale e l'avanzare delle ombre della sera, che scendono rapide giù dai monti, mentre il fumo si alza dai camini delle dimore sparse per la campagna mantovana (accogliamo qui l'opinione prevalente dei filologi, per quanto l'albero di faggio farebbe pensare piuttosto a un luogo di montagna), conferiscono a tale contrasto un tono ancor più intenso e struggente, venando di malinconia lo scambio di battute che si svolge fra i due protagonisti; idealmente presente anche un terzo personaggio, Amarillide, la donna di Titiro, affettuosamente rievocata dall'amico, là dove si parla del precedente viaggio a Roma di quello, per riscattarsi dal proprio padrone che, evidentemente, viveva nella capitale.
È difficile immaginare una insensibilità più grande di quella mostrata da Titiro, che si gode la sua sicurezza e racconta all'amico tutta la sua felicità, senza darsi la minima pena del dolore e dell'angoscia di lui; e solo alla fine, allorché Melibeo fa per rimettersi in cammino con le sue caprette, gli dice in tono piuttosto ipocrita che avrebbe potuto fermarsi a mangiare qualcosa con lui e trascorrere la notte al coperto, prima di proseguire.
Quell'imperfetto indicativo di «possum», quel «poteras» del verso 79, è tutto un programma di solidarietà distratta e quasi di carità pelosa: «Potevi fermarti», dice Titiro all'amico; ma aspetta, per dirglielo, che questi si sia congedato e avviato nuovamente lungo la strada.
Pure, non abbiamo l'impressione di una meschinità calcolata o di una cattiveria voluta, quanto piuttosto della assoluta impossibilità, per l'uomo che vive circondato dalle sicurezze, di farsi spiritualmente carico di tutto lo smarrimento e di tutta l'amarezza di chi, da un momento all'altro, ha perduto ogni cosa e ha dovuto partire, quasi fuggendo, mentre un «impius miles», un «barbarus», si è appropriato del suo fondo e si godrà i frutti del suo lavoro.
Virgilio, grandissimo conoscitore dell'animo umano e insuperabile maestro di vita, ha colto qui un nodo essenziale della dialettica delle relazioni umane: l'estraneità reciproca e, si direbbe, quasi l'incommensurabilità dello stato d'animo dell'uomo spensierato, pago del tranquillo godimento dei propri  beni e del legame con la propria terra natia, rispetto allo stato d'animo di chi, viceversa, si trova di colpo a non possedere più nulla, né sa dove lo sospingerà il destino, verso quali paesi e sotto quali cieli.
È come se i due amici fossero divenuti improvvisamente due estranei: si parlano, condividono ricordi e momenti di un passato felice, ma non possiedono più alcuna sintonia spirituale: è come se ormai  parlassero due lingue diverse, impossibilitati ad intendersi.
Ma, per la verità, mentre il pastore sfortunato, Melibeo, riesce a comprendere la felicità dell'altro, e ne prova una invidia priva di rancore; l'altro, da parte sua, non sembra assolutamente in grado di immedesimarsi nel dramma del vicino.
Riportiamo la seconda metà dell'ecologa, ove più evidente è il contrasto delle situazioni e degli stati d'animo (vv. 46-83):

«MELIBOEUS:
Fortunate senex! Ergo tua rura manebunt,
et tibi magna satis, quamvis lapis omnia nudus
limosque palus obducat pascua iunco.
Non insueta graves temptabunt pabula fetas,
nec mala vicini pecoris contagia laedent.
Fortunate senex! Hic inter flumina nota
et fontes sacros  frigus captabis opacum.
Hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes,
Hyblaeis apibus florem depasta salicti,
saepe levi somnum suadebit inire susurro.
Hinc alta sub rupe canet frondator ad auras;
nec tamen interea raucae, tua cura, palumbes
nec gemere aëria cessabit turtur ab ulmo.

TITYRUS:
Ante leves ergo pascentur in aethere cervi,
et freta destituent nudos in litore pisces,
ante, pererratis amborum finibus, exul
aut Ararim Parthus bibet aut Germania Tigrim.
Quam nostro illius labatur pectore voltus.

MELIBOEUS:
At nos hinc alii sitientes ibimus Afros,
pars Scythiam et rapidum creatae veniemus Oaxen
et penitus toto divisos orbe Britannos.
En unquam patrios longo post tempora finis,
pauperis et tuguri congestum cespite culmen,
post aliquot mea regna videns mirabor aristas?
Impius haec tam culta novalia miles habebit,
barbarus has segetes? En quo discordia cives
produxit miseros, his nos consevimus agros.
Insere nunc, Meliboee, piros, pone ordine vites.
   Ite, meae, felix quoindam pecus, ite, capellae.
Non ego vos posthac, viridi proiectus in antro,
dumosa pendere procul de rupe videbo;
carmina nulla canam; non, me pascente, capellae,
florentem cytisum et salices carpetis amaras.

TITYRUS:
Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem
fronde super viridi; sunt nobis poma,
castaneae molles et pressi copia lactis:
et iam summa procul villarum culmina fumant,
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.»

Ed ecco la traduzione di Luca Canali (in: Virgilio, «Bucoliche», a cura di Antonio La Penna, Milano, Rizzoli, 1978, 1986, pp. 59-63):

«MELIBEO:
Fortunato vecchio! Dunque i campi resteranno tuoi,
e grandi abbastanza per te, sebbene nude pietre
e palude invadano tutti i pascoli con fangosi giunchi.
Ma pascoli inconsueti non nuoceranno alle pecore gravide,
non ti arrecherà danno il contagio d'un armento vicino.
Fortunato vecchio, qui tra noti fiumi
E sacre fonti godrai una frescura ombrosa:
da un lato la siepe sul vicino confine di sempre,
delibata dalle api iblee nel fiore del salice,
spesso con lieve sussurro ti concilierà il sonno;
dall'altro ai piedi di un'alta rupe canterà all'aria
il potatore; ma frattanto le roche colombe , tua cura,
e la tortora non cesseranno di gemere dall'alto dell'olmo.

TITIRO:
Dunque pascoleranno in cielo leggeri i cervi
e le acque lasceranno in secco sulla riva i pesci,
e avendo errato a lungo l'uno nei territori dell'altro,
l'esule Parto berrà nell'Arari, il Germano nel Tigri,
prima che l'immagine di lui svanisca nel mio cuore.
[Il riferimento è ad Ottaviano, che gli ha salvato il podere.]

MELIBEO
Noi invece di qui andremo tra gli Africani assetati,
parte verremo alla Scizia e parte all'Oassi turbinoso
d'argilla, e agli estremi Britanni esclusi da tutto il mondo.
Giammai fra lungo tempo rivedendo la terra dei padri,
e il tetto del povero tugurio elevato con zolle d'erba
- era il mio regno - potrò ammirare le spighe?
Un empio soldato possiederà maggesi così coltivati?
un barbaro queste messi? Ecco dove la discordia
ha trascinato gli sventurati cittadini; per costoro seminavamo i campi.
Innesta i peri, o Melibeo, disponi in filari le viti.
Andate, o mie capre, gregge un tempo beato:
d'ora in avanti non vi vedrò più, sdraiato
in una verde grotta, pendere su un'erta spinosa:
non canterò più canzoni: non sarò il pastore, o capre,
quando brucherete il citiso in fiore e gli amari salici.

TITIRO:
Tuttavia stanotte potevi riposare qui con me
Su un giaciglio di verdi frasche; abbiamo frutti maturi,
tenere castagne e latte rappreso in abbondanza.
E già lontano fumano i tetti dei casolari
e più lunghe dall'alto dei monti discendono le ombre.»

Ci piace aggiungere qui, a suggello dei versi citati, le commoventi parole con le quali il latinista Carlo Piazzino ha commentato la scena (in: C. Piazzino, «Antologia delle Biucoliche e delle Georgiche virgiliane», Torino, Paravia, 1953, pp. 24-25):

«… Melibeo sta mettendosi in cammino con il suo gregge  quando Titiro gli fa osservare che, almeno per quella notte (hanc… noctem, compl. Di tempo continuato, avrebbe potuto fermarsi a dormire a casa sua (hic… mecum poteras requiescere; alcuni commentatori danno a "poteras" valore di presente: potresti; direi che è preferibile quello,  pur voluto dalla sintassi, di passato: avresti potuto, quasi un invito tardivo, fatto forse più per convenienza che per compassione verso l'amico, compassione, se mai, essa pure tardiva; tale interpretazione sembra più aderente al carattere di Titiro il quale, tutto chiuso nella sua felicità, ha mai espresso, nei confronti di Melibeo, sentimenti di pietà o di commiserazione), riposando sopra un giaciglio di frasche ("fronde super viridi"); il cibo non gli manca: frutta matura ("sunt nobis mitia poma") e tenere castagne ("castaneae molles") e grande quantità di cacio ("pressi… lactis" = "casei"; "pressi" richiama "premeretur" del v. 34; si noti l'abbondanza degli epiteti che ben s'accompagnano alla dovizia delle risorse, la cui natura lascia logicamente supporre che la scena si svolga in autunno), molto più che già si vedono in distanza fumare ("procul… fumant") i comignoli delle case coloniche) ("summa… villarum culmina"; segno che i contadini stanno preparandosi la cena; villa è la casa di campagna, mentre per le case di città si usa per lo più il termine "domus"), e dall'alto dei monti ("altis de montibus") sempre più lunghe si stendono sulla pianura le ombre della notte (quanto più il sole scende al di là dei monti, tanto "maiores" si profilano le ombre alla parte opposta).
Ogni commento sciuperebbe la divina poesia di questi versi immortali, che compendiano l'incanto di un tramonto autunnale vissuto nella soave mestizia della campagna, quando, come scrive il Funaioli, sulla tragedia umana, intessuta di lacrime amare, di ricordi, di commozioni, di spasimi, scende come un oblio lene della faticosa vita la sera di un pomeriggio d'autunno, coi suoi casolari fumanti di lontano, colle sue ombre che sempre più grandi cadono dai monti e scolorano le cose e ne velano il pianto.»

Virgilio, dunque, ha toccato qui, con tratto magistrale e squisita sensibilità, da maestro sommo par suo, un aspetto fondamentale del mistero dell'animo umano: che l'uomo infelice, cioè, può riuscire ad entrare idealmente nel mondo dell'uomo felice, specialmente se lo uniscono a quello legami di amicizia e ricordi comuni; ma ben difficilmente avviene il contrario.
Eppure, talvolta, questo miracolo accade: e sarà proprio Virgilio a descriverlo nei primi quattro libri dell'«Eneide», là dove narra come  la regina Didone - bella, intelligente, generosa - si innamori perdutamente di Enea, proprio a partire dal sentimento della compassione per un proprio simile infelice, ramingo e colpito dalla sventura; ma ne sarà ripagata nel più tragico dei modi (non tanto dalla nera ingratitudine di lui, quanto dagli imperscrutabili voleri del Fato, che chiama Enea a salpare per nuovi lidi).
La conclusione è chiara. L'uomo felice ben difficilmente riesce a compatire veramente il proprio simile sofferente, nel senso etimologico di «cum patire», di soffrire insieme; possono riuscirvi, talvolta, coloro che (come Didone) hanno provato a loro volta le angosce della solitudine, del dolore, dello smarrimento.
Il filosofo potrebbe trarre almeno una conclusione interessante da una simile constatazione: ossia  che l'animo umano aspira con tanta forza alla felicità, che, quando per caso l'ha raggiunta, non riesce neppure a concepire la situazione spirituale di chi è travolto dalla sofferenza; mentre quest'ultimo riesce ad immaginare benissimo le sensazioni e i pensieri dell'uomo felice, perché sono quelle che vorrebbe provare lui.
Ad esse, pertanto, si abbandona come in un languido sogno ad occhi aperti, simile a chi sente di possedere un tesoro prezioso, ma non sa più dove esso si trovi; oppure si accorge di averne smarrito la chiave, forse per sempre, e si consuma in una dolorosa nostalgia.
Questo, almeno, è ciò che accade nel piano del finito.
Ma è proprio lì che la nostalgia della patria perduta può consentire all'essere umano di effettuare il movimento decisivo, cioè il salto verso il piano dell'Assoluto: nel quale soltanto egli potrà appagare quella sete ardente di bellezza, bontà e verità che sempre lo accompagna e che sembra essergli stata data come caparra dell'infinito e come stimolo verso l'eterno.