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Nell'aria umida e fredda di gennaio un aspro presentimento di cose dolci e nuove

di Francesco Lamendola - 20/01/2009


  Uno di quei mattini di gennaio in cui l'aria è carica di fredda umidità che penetra fino alle ossa, mentre un vento tagliente e cattivo accresce il senso di disagio che non è mai solamente fisico, ma anche spirituale.
Dal cielo grigio e carico di nuvole tristi non cade più la pioggia, ma la terra ne è tutta intrisa; grandi pozzanghere si aprono ovunque e rispecchiano il cielo color cenere e i tronchi nudi e spogli degli alberi, quasi irriconoscibili nella loro veste invernale di penitenti.
L'umido e il freddo sferzano il viso, tagliano le mani e sembrano cercare un varco verso il fondo dell'anima, per invaderla con la loro desolata sterilità e spegnervi ogni luce di bellezza e ogni calore di conforto.
Eppure…
Eppure, non si respira solamente questo, nell'aria del livido mattino di gennaio che pare intirizzire ogni cosa nella sua stretta malinconica. No, c'è anche dell'altro…
Un sorta di profumo, che non è un profumo; una luce, che non è una luce; un ricordo, una speranza, un presentimento, forse - ecco, sì, un presentimento - che, mentre qualcosa è finito per sempre, qualcos'altro, nel medesimo tempo, sta lottando per venire alla luce, come il ventre di una donna nel travaglio del parto.
Difficile dire esattamente cosa sia; anzi, impossibile. Almeno da un punto di vista razionale, oggettivo.
Però c'è, nonostante tutto. Non dovrebbe esserci, ma c'è, questa sensazione del nuovo che avanza, che sappiamo sta avanzando, col suo fresco tocco che sfiora le cose e le rinnova per mezzo di una prodigiosa alchimia, facendole tornare a una seconda vita.
Ecco, è questo, probabilmente: la sensazione del miracolo; del miracolo di un nuovo inizio, dopo la fine.
Quando mai, alla luce della ragione, una cosa morta potrebbe tornare a vivere?
Eppure è proprio questo che sta avvenendo, anche se ancora nessuno può dire di averlo visto.
Nessuno può vantarsi di aver scorto le nuove gemme sui rami; nessuno, di aver visto sbocciare i primi fiori; nessuno, di aver respirato l'alito fresco della primavera.
Ancora non c'è nulla, non si vede nulla; assolutamente nulla.
La neve copre ancora le montagne e, sui campo, solo lentamente si va sciogliendo, dopo la pioggia degli ultimi giorni. Il ghiaccio stringe ancora nella sua morsa i bordi delle strade posti all'ombra, e il cammino è malagevole al passante, che rischia di scivolare ad ogni passo sulla liscia gelata superficie delle pozzanghere più ostinate.
Ogni cosa sembra morta, senza vita; e sappiamo che ciò durerà ancora per molte settimane, per dei mesi: tanto da far sembrare uno scherzo dell'immaginazione il ricordo della campagna di maggio, tutta verde e profumata, rallegrata dai colori vivaci di mille fiori, dal canto di mille uccelli e dal ronzio di milioni d'insetti, di api, di vespe, di calabroni…
Ogni cosa sembra triste e spenta, adesso; eppure, in fondo in fondo, qualche cosa si sta già ridestando, e quella linfa misteriosa, che nessun occhio ha visto, si trasmette per vie segrete, che lei sola conosce, fino ai recessi più solitari e desolati della nostra anima, ravvivando la speranza e facendo alzare le fronti in un gesto di fiducia e di sollievo.

Quasi di colpo, qualche brandello di nuvola si apre e un tenue azzurro s'intravede negli squarci, ma senza che un solo raggio di sole filtri verso la terra; poi, con altrettanta rapidità, gli squarci si richiudono e la nebbia avvolge ogni cosa.
Per qualche minuto, tuttavia, mi sono apparse le montagne, bianche e maestose, solenni nel paesaggio invernale; ed una, in particolare, proprio di fronte a me, dalla forma piramidale, ma con la sommità curiosamente avvolta in una nuvola bassa, che la inghiotte interamente: spettacolo strano, reso ancor più incongruo da una tenue sfumatura rosata che si dipinge sui bordi della nuvola, passando poi velocemente all'indaco e al viola.
Ed ecco, mi volto e poi torno a guardare - e non vi sono più né nuvola, né montagna, né vallata; ma ogni cosa è stata ingoiata in un grigiore uniforme; una pioggerella fredda e sottile ricomincia a cadere, insistente, monotona; e il crudo squallore dell'inverno torna a far valere i suoi diritti sovrani su questa mattino intirizzito nel grigiore.
Pure, per qualche minuto, il cielo è sembrato sul punto di aprirsi; e quella montagna si è stagliata in piena luce, con il capo avvolto fra le nubi, come un tronco di cono evocato da una fiaba dimenticata e, al tempo stesso, rimasta sempre in fondo al cuore.
Scena stranissima, quasi fiabesca: chissà perché, quella montagna tronca, con la vetta celata nella nuvola rosea, mi ha fatto venire in mente un essere umano che vorrebbe aprirsi, eppure si nasconde e fugge a precipizio, spaventato dai rumori del silenzio: simile a un cane che abbaia alla luna, sentendosi sfiorato da chissà quali fantasmi.
Come la vetta di quel monte si acquattava dietro una cortina di nubi, così vi sono persone che si acquattano dietro paure improvvise, che nascondono il proprio sguardo dietro la fissità delle pupille, rifugiandosi all'interno di esso.
E anche questo è normale, come il cielo di gennaio che accenna ad aprirsi e poi subito si richiude, cercando rifugio dietro le nubi corrucciate e il vento umido e tagliente che sembra volersi aprire una strada sino in fondo all'anima dei viventi.
Tutti abbiamo paura, in fondo.
Paura che la primavera non ritorni, che la luce delle nostre speranze rimanga tradita e offuscata irreparabilmente; che la vita non mantenga le sue promesse.
Quando si è giovani, ogni giorno si leva carico di splendide possibilità; poi, a poco a poco, le possibilità diminuiscono, il grigiore avanza e inghiotte i giorni, l'uno dopo l'altro, allineandoli in fila come tante croci nel silenzioso cimitero di paese.
Arriva un momento in cui ci si alza al mattino e sembra che il gelo dell'inverno non passerà mai più; che l'anima intirizzita non verrà mai più riscaldata dai dolci raggi tiepidi di un'altra primavera, di un'altra stagione di possibilità.
L'orizzonte si restringe, la monotonia penetra nelle ossa come un veleno sottile, appanna la bellezza delle cose e se la porta via con sé, chissà dove. Sappiamo che la primavera tornerà a scaldare il mondo, ma dubitiamo che lo potrà fare anche per noi.
La stanchezza, le delusioni, le sconfitte, le amarezze, il disincanto, sembrano prendere il sopravvento sulle nostre difese, sempre più deboli e sempre più incerte.
Arriva il momento in cui ci si sente svuotati, esausti, minati da una pesantezza invincibile, che intorpidisce la sensibilità e ottunde il piacere della vita.
Ecco, in quei momenti sembra proprio che niente abbia più importanza; non si ha più voglia di lottare, di sperare, di credere; non si ha più voglia di niente e fastidio di tutto. Non ci si sente più in armonia con le cose, col mondo. Ci si sente estranei, fuori posto.
Allora, come i nostri poveri alpini in Russia, durante la ritirata sul Don, si avrebbe solo il desiderio di fermarsi, di sedere sulla neve soffice e bianca, di riposare un poco; ma sapendo, in qualche remoto angolo della coscienza, che non sarà solo per un poco: che sarà per sempre. E anche, in qualche angolino buio della coscienza, desiderandolo.
Che importa se tornerà la primavera, dato che il sole tiepido non brillerà per noi, e il canto degli uccelli sui rami non ci riscalderà il cuore, come soleva fare in passato?

Questa è l'ora della grande tentazione.
La tentazione della resa, di sedere sulla neve bianca e soffice, in attesa della fine che appare quasi dolce, dopo tanto patire e tanto inutile lottare.
Nessun essere umano degno di questo nome può dire di non averla mai provata, di non averla mai vissuta. Se è così, vuol dire che è ancora un ragazzo.
Non è motivo di vergogna aver vissuto la grande tentazione: la tentazione di odiare la vita, di maledire ogni cosa e di arrendersi una volta per tutte. È una prova necessaria, come un rito di passaggio: chi la supera, vedrà poi le cose con occhio infinitamente più saggio, più sereno e più misericordioso. Potrà dire di aver conosciuto veramente se stesso, e potrà tentare di conoscere anche gli altri: ma solo dopo esserci passato.
La vergogna non è nell'essere stati tentati, ma - semmai - nell'essersi arresi senza lottare. La vita non è una passeggiata estiva in riva al mare: è un cammino aspro e difficile, a volte francamente disperante. Ma è, tuttavia, un'avventura bellissima, la quale merita i sacrifici che richiede: come una ripida montagna che ci ripaga solo in vetta, con lo splendido e grandioso panorama spalancato ai nostri piedi, dei duri sforzi affrontati per ascenderla.
Quando ci sentiamo più tentati, dobbiamo sempre ricordare che non siamo soli; che qualcuno o qualcosa ci assiste, se sappiamo essere abbastanza umili da invocarlo, e abbastanza consapevoli da ringraziarlo con tutta l'anima.
Anche nelle giornate più tetre e squallide, come quando l'inverno stringe in pugno la natura e fa rabbrividire ogni cosa nella morsa del gelo, dobbiamo ricordare che non siamo soli, perché veniamo dall'Essere e non è senza una ragione se siamo stati chiamati al mondo.
E l'Essere, al quale aspiriamo a ritornare, ci offrirà sostegno, ci infonderà coraggio e speranza, ogni qualvolta ne avremo bisogno.
Che cos'è, del resto, questo profumo di marzo nell'aria, che non è un profumo; questa trasalimento di luce, che non è luce; questo presentimento di gioia, di vita, di calore, che non trova riscontro in alcun elemento oggettivo- né sui rami spogli degli alberi, né nei nidi vuoti delle rondini o nel cielo deserto di voli - e che tuttavia ci invade misteriosamente l'anima, riempiendoci di commozione e di dolcezza?
Non si sa come, eppure l'anima lo sente: lo sente in modo indubitabile, questo presentimento della soave carezza di primavera, anche nei giorni più crudi dell'inverno. È come una caparra d'infinito, una promessa di cose fresche e nuove che verranno.
È il segno - uno dei tanti -  che non siamo fatti per la morte, ma per la vita; che tutto il nostro essere chiama e invoca il suo reintegro nell'Essere; che non il nulla e il buio avranno l'ultima parola, ma la pienezza della luce.
È il segno che noi stessi siamo una scintilla di luce eterna: una scintilla che brilla, forse, per rischiarare la via a tanti altri che percorrono il medesimo cammino; e perché essi la rischiarino, a loro volta, proprio a noi.
Perciò, coraggio.
Non c'è inverno così crudo che possa annullare quel profumo d'infinito; non c'è vento così tagliente che possa spegnere le nostre fiammelle, deboli solo in apparenza, ma in realtà inestinguibili: perché radicate nell'Essere, che sempre le alimenta e le rinnova.