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Balucistan, un conflitto dimenticato

di Enrico Piovesana - 27/02/2006

Fonte: peacereporter.net

 

Reportage dal Pakistan occidentale, dove è riesplosa la guerra tra indipendentisti baluci e governo


 
 
Guerrieri baluci (Foto Banares Khan, Balochistan Doday)I vetri delle finestre della piccola casa dove siamo ospitati tremano per il fragore assordante che risuona ogni mattina nei cieli di Quetta: un rombo così forte che copre perfino il canto del muezzin della vicina moschea. “Sono i Mirage della Paf, le forze aeree pachistane, che decollano dall’aeroporto militare per andare a bombardare le postazioni dei guerriglieri sulle montagne di Dera Bugti e Kholu”, dice Zeeshan offrendoci la colazione: tè nero al latte e uova strapazzate.
Da dicembre in Pakistan si combatte una nuova guerra di cui nessuno sembra essersi accorto, una guerra che contrappone il potente esercito di Islamabad ai pittoreschi guerriglieri tribali del Balucistan. Hanno il turbante, la barba lunga, gli occhi truccati e il kalashnihov a tracolla. Pregano Allah ma non sono talebani, né fondamentalisti islamici. Forse per questo la stampa mondiale non s’interessa a loro. Scrivono in caratteri arabi ma parlano una lingua simile a quella dei Curdi, popolo di cui condividono, oltre alle lontane origini, anche il destino di ‘nazione senza Stato’ divisa da confini tracciati a tavolino dai colonialisti britannici. I Baluci, pastori e contadini, vivono nell’ovest dell’Iran, nell’estremo sud dell’Afghanistan e soprattutto qui nelle regioni desertiche del Pakistan occidentale, cuore storico del loro regno tribale, rimasto sostanzialmente indipendente fino alla nascita del Pakistan nel 1947.
 
La storia di un conflitto che dura da sessant’anni. “Fu allora che i Punjabi che dominavano il neonato Stato islamico decisero di annettere con la forza delle armi la nostra regione, ricchissima di risorse naturali (gas, petrolio, minerali preziosi) e strategica per la sua lunga costa sul Mare Arabico, proprio davanti alle rotte del petrolio mediorientale”, spiega Surat Khan Marri, anziano intellettuale e scrittore che vive a Quetta e che da sempre si batte per l’indipendenza del Balucistan. “Provammo a resistere, ma fu inutile: la nostra terra venne sottoposta a un regime di occupazione militare e di selvaggio sfruttamento di tipo coloniale. Negli anni ’50 il gas del giacimento di Sui iniziò a fluire verso il ricco Punjab, senza che a noi venisse dato nulla in cambio. Il Balucistan venne saccheggiato delle proprie ricchezze rimanendo una regione povera, arretrata, senza infrastrutture, né servizi sociali di alcun genere. Alla popolazione locale non furono lasciati nemmeno i posti di lavoro nei nuovi impianti: tutte le mansioni qualificate vennero assegnate a ‘coloni’ Punjabi; a noi non rimaneva che fare gli autisti, i guardiani, i meccanici. Questa situazione – spiega Marri sorseggiando il suo tè al latte – fece nascere tra i Baluci un sentimento nazionalista e indipendentista, e iniziarono le prime rivolte organizzate dai capi delle tribù Marri e Bugti, quelle delle regioni attorno a Sui. Negli anni ’50 e ’60 il potente esercito pachistano non ebbe difficoltà a schiacciare la nascente guerriglia nazionalista balucia. Negli anni ’70 però le cose cambiarono: l’Unione Sovietica era interessata alla nascita di uno Stato Balucio amico che desse a Mosca uno sbocco sulle ‘acque calde’. Per non parlare dell’India, sempre pronta a indebolire il suo nemico storico. Con il loro aiuto il nostro movimento guadagnò forza. Ma il Pakistan e gli Stati Uniti non rimasero a guardare: scatenarono contro di noi una guerra totale; bombardarono con il napalm i nostri villaggi, uccidendo migliaia di civili. Nessuno si ricorda di quella guerra perché fu spudoratamente censurata dai mass media occidentali. In quegli anni Henry Kissinger arrivò a dire: ‘Non riconoscerei l’esistenza della questione balucia nemmeno se mi colpisse dritta in faccia’. Da allora la situazione qui in  Balucistan non ha fatto che peggiorare: il governo ha avviato nuovi progetti di sfruttamento, ha costruito caserme e militarizzato il territorio e ha iniziato a perseguitare gli attivisti baluci, migliaia dei quali sono semplicemente scomparsi nel nulla. Negli anni ’80 e ’90 il nostro movimento era troppo indebolito per continuare la lotta armata, quindi abbiamo imboccato la strada della lotta politica e sindacale. Abbiamo provato la via della protesta non violenta. Abbiamo cercato di trattare con il regime militare di Musharraf, ma non abbiamo ottenuto nulla: solo repressione e nuove provocazioni. Finché la parola è tornata alle armi”.

La riesplosione del conflitto armato dopo trent’anni di tregua. Per capire come e perché, dopo quasi trent’anni di relativa calma, si sia tornati a combattere siamo andati a trovare Yar Jaan Badini, direttore del settimanale Balochistan Today, pubblicazione che sostiene la causa del popolo balucio.
“Negli ultimi anni l’atteggiamento del governo si è fatto sempre più aggressivo e provocatorio. La mano d’opera locale impiegata negli impianti di Sui e negli altri cosiddetti ‘progetti di sviluppo’ è stata licenziata e sostituita con lavoratori Punjabi fatti arrivare da Islamabad, Lahore e Karachi. Sono seguiti scioperi e proteste, regolarmente ignorati o repressi dalle autorità. Così sono iniziati gli atti di sabotaggio contro i gasdotti governativi. Per proteggerli, il governo ha costruito tre nuove grandi basi militari. E soprattutto sono iniziati i lavori, in collaborazione con i cinesi, per il megaporto commerciale di Gwadar, sulla costa balucia: un progetto enorme che in prospettiva creerà almeno quattro milioni di posti di lavoro, tutti riservati a manodopera proveniente dal Punjab. Nel 2004 i partiti baluci hanno chiesto al governo di smantellare le basi militari e di rispettare la Costituzione federale pachistana, facendo partecipare la nostra provincia alla gestione e agli utili dei progetti di sfruttamento delle risorse locali. Ma il governo non ne ha voluto sapere. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata, nel gennaio 2005, la violenza sessuale subita da una dottoressa locale, Shazia Khalid, da parte di un ufficiale dell’esercito. Le tribù locali, in base al codice d’onore balucio, hanno preteso che il responsabile venisse punito, ma lo stesso Musharraf ha pubblicamente difeso il militare colpevole. Una vicenda perfettamente emblematica della nostra situazione: impunemente stuprati dai Punjabi. Nelle settimane successive si sono moltiplicati gli attacchi alle caserme e ai gasdotti. Finché a marzo l’esercito ha risposto bombardando Dera Bugti con una pioggia di granate, uccidendo 72 persone, in maggioranza donne e bambini, e ferendone oltre 200. Questo non ha fatto che infiammare la situazione, che alla fine è esplosa a metà dicembre 2005, quando – in risposta al lancio di alcuni razzi in occasione di una visita di Musharraf – il governo ha ordinato un’offensiva militare su vasta scala nelle regioni dove operano le due tribù baluce più combattive, i Bugti e i Marri. Da allora, nei distretti di Dera Bugti e Kholu, è guerra aperta. Si contano già trecento morti tra i baluci e decine tra i soldati e la situazione sembra peggiorare di giorno in giorno”.
 
Parla il braccio destro del maggiore capo guerrigliero. Ce lo conferma Agha Shahid Bugti, portavoce del leader indipendentista e capo guerrigliero Nawab Akbar Bugti. “Contro di noi usano l’aviazione, gli elicotteri da combattimento, i carri armati e l’artiglieria pesante. Tutta la tecnologia militare che gli americani hanno dato a Musharraf per combattere al Qaeda, lui la sta usando contro di noi, uccidendo uomini, anziani, donne e bambini. Abbiamo trovato cadaveri bruciati in modo tale da far pensare all’utilizzo di bombe incendiarie: napalm, fosforo o chissà cosa. Per farvi capire la situazione voglio raccontarvi una storia successa di recente: l’11 gennaio un camion militare dei Frontier Corps salta su un mina vicino al piccolissimo villaggio di Pattarnala. Tre soldati, rimasti gravemente feriti, muoiono durante la notte. Mezz’ora dopo i loro compagni decidono di vendicarsi, arrestando tutti gli uomini adulti che trovano a Pattarnala, dodici in tutto. Il mattino dopo la televisione nazionale dà la notizia di dodici ‘miscredenti’ uccisi in combattimento. Le donne del villaggio vanno subito al forte dei Frontier Corps per reclamare i corpi dei loro uomini. Ma non vengono nemmeno fatte entrare. Ci riprovano il giorno dopo, ma con lo stesso risultato. Così il 14 gennaio vanno al forte due anziani del villaggio, ma non fanno più ritorno. L’indomani i militari restituiscono i dodici cadaveri più i due degli anziani: tutti uccisi con un colpo ravvicinato alla testa: giustiziati! Questo dà l’idea di quello che sta succedendo”.
 
“La questione balucia si risolve solo con fine della dittatura in Pakistan”. Kachkol Ali è il leader dell’opposizione nazionalista balucia al Parlamento Provinciale del Balucistan. “Finché il Pakistan sarà governato da una dittatura militare, finché a comandare sarà l’esercito, non sarà possibile stabilire nessun dialogo con le autorità, dato che per i militari esiste solo un modo per risolvere i problemi: la forza. Le rivendicazioni del popolo del Balucistan potrebbero essere risolte semplicemente attuando la Costituzione federalista pachistana del 1973, che oggi è lettera morta, posto che il federalismo è assolutamente incompatibile con un regime militare, che per sua natura concepisce solo un’organizzazione centralistica del potere. Quindi torniamo sempre lì: il vero ostacolo è rappresentato dalla dittatura militare. Solo un governo civile e democratico potrà risolvere il problema balucio. Per questo chiediamo il sostegno dell’Occidente, dell’Unione europea e soprattutto degli Stati Uniti. Non in nome di astratti ideali: non siamo ingenui e sappiamo che gli americani non si muovono per promuovere la democrazia o il diritto di un popolo all’autodeterminazione. Noi facciamo appello al loro stesso interesse, poiché il regime di Musharraf non solo non sta facendo nulla per combattere il terrorismo, ma con il progetto cinese di Gwadar – che non sarà solo porto commerciale ma anche militare – darà al regime di Pechino la possibilità di posizionare la sua nuova flotta da guerra nelle ‘acque calde’ e petrolifere del Mare Arabico. Non penso che questo convenga a Washingotn”.