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Requiem per una società che insegue una cultura non di vita, ma di morte

di Francesco Lamendola - 10/02/2009

 

Ora che la vicenda di Eluana Englaro è finita come doveva finire - come si è voluto ostinatamente, pervicacemente che finisse, con il placet della Corte di Cassazione e con l'avallo del Presidente della Repubblica - si può fare una prima riflessione sulla cultura che ha reso possibile che tutto ciò accadesse, e che accadesse in queste forme.
Una persona in coma, ma viva; che non era sostenuta da alcun intervento artificiale, all'infuori dell'alimentazione e della idratazione; che aveva ancora le mestruazioni; che tossiva continuamente, tanto da dover essere sedata con dosi massicce di calmanti; che si muoveva nel letto e che si è mossa, nella lettiga, per tutto il tempo del suo ultimo viaggio verso la morte, è stata condannata a morire di fame e di sete, non solo da alcune sentenze della magistratura e dai giochi incrociati della politica, ma anche e soprattutto da una diffusa cultura di morte.
Questa cultura di morte non osa presentarsi con il suo vero volto, non osa presentarsi come tale, né adopera le parole appropriate per definirsi.
Tanto per fare un esempio, è stato detto e ripetuto, con incredibile cinismo e con intollerabile ipocrisia, che una équipe medica «ha accompagnato Eluana verso la fine, facendo in modo di alleviarle quanto più possibile il dolore». A parte il fatto che i medici dovrebbero difendere la vita, e non spegnerla; a parte il fatto che, se davvero Eluana fosse morta diciassette anni fa, non si vede perché si è dovuto somministrarle farmaci sedativi; a parte il fatto che le suore di Lecco, che l'avevano assistita con amore per tanti anni, erano dispostissime, anzi, desiderose di poter continuare a tenerla presso di loro: che cosa mai significa una espressione come «accompagnare Eluana verso la fine»? Eluana non è stata affatto «accompagnata»: è stata spinta, deliberatamente e con fredda determinazione, verso la morte.
E che senso ha avuto che suo padre abbia invitato il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio a venire a vederla, per rendersi conto di persona delle sue condizioni? Quando quelle parole furono pronunciate, già da tre giorni erano state sospese l'alimentazione e l'idratazione della giovane donna: di certo ella non poteva presentarsi in buone condizioni. Nemmeno un individuo sano sarebbe apparso in buone condizioni, a quel punto: la totale mancanza d'acqua, come è noto, può provocare il blocco renale e uno stato di deperimento organico irreversibile nel giro di pochi giorni. A maggior ragione in un corpo così provato, come quello di una persona in coma vegetativo da tanto tempo.
A rendere ancora più inquietante, ancora più sinistra questa vicenda, c'è il fatto che la volontà di morire, espressa da Eluana a suo tempo, era solo presunta: tutto si basava sulla testimonianza di suo padre. Nessuna legislazione al mondo, per quanto tendenzialmente favorevole all'eutanasia - come lo è in alcuni Paesi che si dicono all'avanguardia - si spinge fino a un tale estremo: che sia possibile, cioè, provocare la morte di un paziente, in una struttura ospedaliera, in base alle parole di un'altra persona, e sia pure di un parente stretto. Nessun tribunale al mondo potrebbe prendere per buona una tale volontà presunta, a parte il caso di Terry Schiavo.
Si è voluto fare del caso Englaro, da parte dei radicali e di alcune altre forze politiche, una battaglia di libertà. Ma quale libertà? La libertà di condannare a morte un essere vivente le cui funzioni vitali sono ancora integre, con la sola eccezione dell'alimentazione? No, qui bisogna essere onesti e chiamare le cose con il loro nome: si è trattato di un omicidio, né più, né meno. Un omicidio giudiziario, con tutti i timbri e le firme previsti dalla legge: ma pur sempre un omicidio.
Illustri costituzionalisti difendono e difenderanno l'operato del Presidente della Repubblica, davanti alla presentazione irrituale di un decreto-legge chiaramente varato ad hoc e che egli si è rifiutato di controfirmare.
Benissimo. Sta di fatto che il Presidente della Repubblica aveva già firmato diversi decreti-legge di dubbia costituzionalità, anche quando, da più parti, si erano levati degli appelli affinché egli non li firmasse. Solo davanti a questo decreto-legge, Napolitano ha puntato i piedi e ha detto «no»; eppure, era l'unico che implicava il salvataggio di una vita umana.
Può darsi che gli argomenti giuridici, con i quali egli ha motivato il suo (irritato) «non possumus», siano formalmente ineccepibili; può darsi. Ma il punto non è questo. Il punto è che la legge è fatta per l'uomo, e non l'uomo per la legge; che il sabato è fatto per l'uomo, e non viceversa. Una legge che, per far valere la propria lettera, calpesta il fondamentale diritto alla vita di ogni cittadino, compresi i più deboli e inermi, è una legge farisaica.

Davanti a tanto accanimento, a tanta pervicacia nel voler perseguire ad ogni costo la morte di Eluana, quando già il Parlamento si apprestava a votare una legge che l'avrebbe certamente salvata, non si può non rimanere profondamente pensierosi.
Si dice e si ripete che, ora più che mai, bisogna rispettare il dolore della famiglia. Giusto; ma al diritto alla vita di Eluana, che è stato fatto a brandelli in maniera così esplicita, non ci deve pensare più nessuno? Il dolore, di per sé, non rende immuni dalle critiche e non estingue l'altrui diritto al  dissenso: vi sono migliaia di persone nella stessa condizione di Eluana, che portano avanti con coraggio e dignità, ma anche in silenzio, il proprio dolore. Perché si deve parlare solo del dolore di papà Englaro? È stato lui a voler trasformare la vicenda di sua figlia in un evento mediatico, ad andare in televisione, a leggere cominciati stampa: ciò autorizza chiunque ad esprimere la propria opinione, pur rispettando il dolore di quei due genitori.

Se questa vicenda ha potuto arrivare fino al suo tragico epilogo, senza che nessuno - medici, amministratori, politici - osasse interporsi prima che fosse troppo tardi, è perché la nostra società, sazia e opulenta, è pervasa da una diffusa cultura di morte. La cultura di morte è il rovescio della medaglia dell'edonismo e del materialismo oggi dilaganti: se quello che conta è il benessere, è chiaro che una vita privata del benessere, come avviene nel caso di una gravissima malattia, perde ogni valore, ogni diritto all'esistenza.
Così, si giunge all'assurdo di sopprimere la vita in nome della sua qualità: se una vita non rientra negli standard del benessere comunemente accettati, essa può venire eliminata, e quella eutanasia verrà presentata come una forma di pietà, oltre che come un sacrosanto esercizio della libertà personale.
C'è un filo rosso che lega l'eutanasia all'aborto. Il becero ritornello scandito dalle femministe di  quarant'anni fa, «L'utero è mio e me lo gestisco io», potrebbe fare rima (se solo i radicali e i loro sostenitori avessero il coraggio di presentarsi per quel che sono realmente) con quest'altro ritornello, «La morte è mia e me la gestisco io». Invece, ipocritamente, essi parlano di gestire la propria vita, non la propria morte o (come nel caso di Eluana) quella di un altro essere umano. Siamo dunque arrivati a questo: sventolare il diritto alla soppressione della vita come una battaglia di civiltà, come un progresso sociale.
Una società che assiste passivamente a tutto ciò, o, peggio, che lo approva, è una civiltà che ha smarrito il confine tra il bene e il male; una società che non crede più nelle proprie ragioni esistenziali; una società che, appunto, si è arresa ad una cultura di morte.
È inutile che noi Europei ci facciamo belli perché abbiamo abolito quasi ovunque la pena di morte e abbiamo bandito il ricorso alla guerra come soluzione delle controversie internazionali, quando nei nostri ospedali si praticano migliaia e migliaia di aborti e si aprono le porte all'eutanasia per i malati terminali o per le persone in stato di coma cerebrale.
Noi non amiamo più la vita; e il crollo vertiginoso del tasso di natalità ne è una ulteriore conferma. Non crediamo più nel futuro, nostro e dei nostri figli; non crediamo più nell'amore.
In tutta la tristissima, straziante  vicenda di Eluana, non abbiamo mai sentito pronunciare la parola «amore»; se non, sommessamente ma fattivamente, dalle suore di Lecco, presenza discreta nel suo Calvario, per tutti questi anni.
Abbiamo sentito parlare, e molto, di diritti, di libertà, di rispetto della volontà (presunta, ripetiamo) di Eluana: non di amore.
Si dirà che l'amore è un sentimento talmente intimo, talmente privato, che non vi è bisogno di pronunciarlo per manifestarlo; giustissimo. Ma qui non lo si è visto nemmeno manifestato: quel che si è visto, è stata una ostinata, intransigente, inflessibile volontà di morte. L'obiettivo di dare la morte ad Eluana è stato presentato come una battaglia di civiltà. Questo è stato veramente inaccettabile; qui, veramente, si è passato il segno della decenza e del pudore.
No: bisogna avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Un assassinio è un assassinio, anche se motivato da nobili intenzioni. Ma le buone intenzioni non bastano, o non dovrebbero bastare, quando è in gioco il rispetto della vita.
Qui si vede l'opera nefasta che un relativismo sistematicamente diffuso da cattivi maestri del  pensiero ha prodotto nei tessuti della nostra società, avvelenandoli a poco a poco, senza quasi che ce ne avvedessimo in tempo.
Secondo tale relativismo, non esiste un criterio di verità e non esistono valori fondanti: tutto è relativo, tutto è discutibile; e, siccome siamo in democrazia, tutte le opinioni e tutte le pratiche hanno ugualmente diritto di cittadinanza e pari dignità etica, filosofica, politica e sociale. Non esiste più una verità, ma esistono sei miliardi di verità: la mia, la tua, la sua, eccetera. Ciascuno ha la propria verità, e ogni verità vale quanto l'altra. Tutto è vero e tutto è lecito: tutto e il contrario di tutto.
Così, dal relativismo, si è caduti nel nichilismo più sfrenato.
La società nichilista è la società che rincorre il Nulla, il Caos e la Morte: quello che stiamo facendo noi.
Lo stiamo facendo da decenni, in tutte le forme possibili e immaginabili: da quelle minime alle massime, dai fumetti e dalla musica leggera fino alla letteratura, alla filosofia, alla politica. I nostri bambini crescono in una cultura satura di morte, dalla televisione a Internet, dal cinema ai videogiochi. Morte per gioco, si dirà; certo: ma, per un bambino, si tratta pur sempre un messaggio devastante.
E, infine, perché dovremmo amare ancora qualcuno, visto che ormai tendiamo a riversare tutto il nostro amore sulle cose? Noi amiamo le automobili di lusso e i vestiti firmati, i telefonini dell'ultima generazione e i computer ultra sofisticati: queste cose sì, che le amiamo. E quando non ci piacciono più, le gettiamo via e le sostituiamo con i modelli più recenti.
Le persone in carne ed ossa, quelle no, non le amiamo altrettanto. Sono troppo difficili da gestire, irritanti, imprevedibili; richiedono troppe cure, troppe attenzioni. E poi, quando non ci servono più, non possiamo gettarle via con la stessa facilità con cui ci sbarazziamo degli oggetti.
Tutto questo ha un nome ben preciso: si chiama cultura della morte.
Noi stiamo diventando i cittadini necrofili di una società senz'anima, che insegue e corteggia non più. la vita, ma la morte.
E la corteggia con menzognere parole di libertà, con la proclamazione demagogica di sempre nuovi diritti (ma senza corrispondenti doveri), con l'irresponsabile pratica di un edonismo che riduce le persone ad oggetti intercambiabili.
Se non troveremo la forza di avere un soprassalto di consapevolezza, non ci sarà alcun domani per la nostra società.
E, ai nostri figli, lasceremo in eredità l'Inferno.