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L'ombra di un complotto antibizantino dietro la spedizione di Costante II in Italia

di Francesco Lamendola - 11/03/2009


 

La spedizione italiana dell'imperatore bizantino Costante II (642-668) è un episodio a dir poco curioso nella storia di quel millenario organismo politico che fu l'Impero Romano d'Oriente; anzi, essa fu un vero e proprio «unicum».
Costante II fu l'unico sovrano bizantino a muovere personalmente verso la parte occidentale del suo impero, o quel che di essa rimaneva; a far visita al papa nell'antichissima capitale, della quale Bisanzio si proclamava fieramente l'erede e la continuatrice; fu l'unico, infine, che tentò di trasferire in Occidente la capitale, in tutto l'immenso arco di storia che va dalla morte di Teodosio il Grande e la conseguente divisione dell'Impero tra i suoi figli, Onorio e Arcadio, nel 395, fino alla morte in battaglia dell'ultimo imperatore Costantino XI e alla caduta di Costantinopoli in mano alle truppe turche del sultano Mohammed II, nel 1453.
Ce n'è più che a sufficienza per suscitare la curiosità degli storici, anche dei più distratti fra essi; e per suggerire che la follia o altre incerte spiegazioni psicologiche e morali (ad esempio, il rimorso per l'assassinio del fratello) non possono certo bastare a spiegare le ragioni della politica italiana di Costante II; o, se potevano bastare agli storici medievali e, in una certa misura, anche a quelli del XVIII e XIX secolo (Edward Gibbon e Ferdinand Gregorovius), di sicuro non riescono a soddisfare le esigenze della scaltrita storiografia contemporanea.
Per lo storico tedesco Ferdinand Gregorovius, ad esempio, la spedizione di Costante II in Italia si trasforma in una splendida occasione per mettere in scena una delle sue superbe, incomparabili rappresentazioni di «paesaggio con rovine» di gusto prettamente romantico, dove la malinconia per la passata grandezza di Roma si mescola al fascino dell'insolito e del barbarico, rappresentato, in questo caso, dallo stupefacente arrivo di un imperatore bizantino nella vecchia capitale decaduta, le cui strade da circa due secoli non erano più state calcate dal piede di un imperatore: per la precisione, dall'epoca di Antemio e Ricimero e del sacco di Roma operato nel 472 dalle truppe del secondo (cfr. i nostro precedente saggio «La caduta dell'Impero Romano d'Occidente, 455-476 » e «Ferdinand Gregorovius: uno storico poeta (1821-1891)», entrambi consultabili sul sito di Arianna Editrice).
Ecco come egli ne rievoca i momenti salienti nella sua monumentale «Storia della città di Roma nel Medioevo» (titolo originale: «Geschichte  der Stadt Rom in Mittelalter», traduzione a cura di Luigi Trompeo, casa Editrice Fratelli Melita, 1988, vol., 2, pp. 179-85):

«Avrebbe per noi grande attrattiva poter gettare uno sguardo al palazzo dei Cesari, nello stato in cui era allora, e seguire l'imperatore bizantino nelle feste che là gli furono date, tra le rovine miserabili del tempo passato, o se potessimo sapere come la nobiltà o la magistratura si atteggiavano nelle loro vesti di broccato d'oro, dalle fogge orientali, e come il popolo romano trascinasse la vita. Un silenzio impenetrabile ravvolge invece quell'età. Non vi è notizia di giuochi o di largizioni di denaro o di pane, che l'imperatore distribuisse al popolo; né sappiano di restauri che ordinasse. Ed è colpa pure della manchevolezza dei cronisti se non sappiamo con qual danaro, munto dal tesoro della Chiesa, l'imperatore si facesse pagare l'onore della sua visita. Costante non vide Roma con quel senso di venerazione che un tempo aveva riempito l'animo del figliuolo di Costatino, quando, nel 357, venne a Roma. Dobbiamo ricordare con quali parole Ammiano descriveva lo stupore dal quale era colpito l'imperatore, vedendo la moltitudine del popolo e la magnificenza di Roma. Costanzo ammirava soprattutto il Campidoglio, le terme, l'Anfiteatro di Tito, il Pantheon, il tempio di Venere e di Roma, le colonne degli imperatori, il foro della Pace, il teatro di Pompeo, l'Odeon, lo stadio di Domiziano e, specialmente, il foro di Traiano. Dopo trecento e sei anni di una storia piena di avvenimenti, in parte spaventosi, un imperatore romano stava nuovamente innanzi a quei monumenti: la sua barbara ignoranza avrà appena conosciuto qualcuno di quei nomi di cui s'era impadronita la leggenda, poiché gli studiosi di antichità della città di allora, se anche qualcuno di essi lo avrà accompagnato, erano incapaci di illustrarli con la parola erudita di Cassiodoro.  I tre secoli, Roma s'era trasformata come una crisalide. Il tempio di Giove era rovinato da molto tempo; abbandonate e cadute erano le terme; le fontane non gettavano più una goccia d'acqua; l'erba cresceva folta nell'anfiteatro e le sue mura crollavano. Una piccola parte del palazzo imperiale  serviva di dimora, rovinato il resto; il foro della Pace e tutti gli altri fori, seminati di ruderi o deserti;  solo la colonna del foro di Traiano, come quella di Marc'Aurelio, si ergeva maestosamente tranquilla tra templi vacillanti e biblioteche vuote, dove qua e là, contro la caduta e l'oblio, lottava ancora qualche statua annerita di qualche genio greco o romano.  Circo e teatri, da molto tempo curvati sotto il peso dell'età, erano in piena decadenza; il gran tempio di Venere e di Roma, che solo recentemente era stato scoperchiato del suo tetto, era precipitato a metà.  E dovunque si posava lo sguardo tra i monumenti cadenti per vecchiaia, si vedevano chiese fatte coi materiali di quelli, o conventi che si addossavano ad essi, oppure infine  templi cambiati in chiese. Dovunque, Roma era sopravvissuta alla trasformazione ed alla trasposizione dei suoi monumenti,  vedendosi ora templi mutati in basiliche, e marmi e colonne e architravi divelti dagli edifici per ornare chiese vicine o lontane.
Una duplice Roma perciò si mostrava agli occhi di Costante:  una antica ed una nuova, come accade ancora oggi.  E, come oggi, l'anfiteatro di Tito era il centro dell'antica Roma. (…)
È difficile che l'imperatore greco meditasse mestamente sulle sorti della capitale del mondo; e piuttosto, quando con vacua e rapida curiosità faceva correre lo sguardo sui ruderi di Roma, roba sua, trovava che restavano ancora degli oggetti per appagare la sua cupidigia. Parecchie statue, di bronzo, si ergevano ancora nelle vie e nelle piazze, come le aveva già viste Procopio, e può darsi che i bizantini, i quali andavano in giro frugando,  le cercassero avidamente anche nei templi chiusi. Il pontefice mostrava al suo ospite il Pantheon, dono imperiale fatto alla Chiesa; Costante ne vide il tetto di bronzo dorato sfavillare sotto i raggi del sole , e, senza che lo trattenesse il rispetto alla Vergine e a tutti quanti i martiri,  ordinò che sul suo naviglio si caricassero quelle tegole preziosissime.  A malincuore risparmiò i quadrelli dorati che ricoprivano il tetto di S. Pietro, poiché impediva di strapparli la santità della basilica oppure il timore di far sollevare i romani. Dodici giorni soli dimorò Costante a Roma, e tanto bastò perché la città  fosse derubata de' suo ultimi tesori antichi di bronzo, fino ai più piccoli avanzi. La splendida statua equestre di marco Aurelio, in bronzo dorato,  sfuggì solo come per miracolo all'avidità del predone bizantino. (…)
Nel giorno della sua partenza l'imperatore volle assistere ancora una volta alla messa sulla tomba dell'apostolo; poi, accomiatatosi dal papa, veleggiò col suo bottino per Napoli. Ma né egli né Costantinopoli dovevano godere del saccheggio di Roma.  Nell'antica Siracusa - dove Costante aveva fissato la sua dimora nell'isola Ortigia, in cui accumulava il danaro spremuto, con balzelli, dalla Sicilia,  dalle Calabrie, dall'Africa e dalla Sardegna, e dove ammassava perfino gli arredi  d'altare delle chiese - quattro anni dopo era ucciso, mentre era nel bagno; uno schiavo gagliardo gli rompeva il cranio con un vaso di bronzo. I capolavori artistici di Roma, deposti nella città isolana, cadevano subito dopo nelle mani dei Saraceni, allorché essi conquistarono Siracusa.»

Tutto l'episodio della spedizione di Costante II in Italia, peraltro, risulta pressoché incomprensibile se non lo si colloca nel contesto più generale della situazione politico-militare del Mediterraneo nel VII secolo, con il centro vitale dell'Impero Bizantino sempre più sbilanciato verso Oriente, dove, scomparsa alle frontiere sud-orientali la secolare minaccia persiana, si era ad essa sostituita quella, ben più irruenta e temibile, degli Arabi animati dalla nuova religione predicata dal profeta Mohammed.
Fin dal 638 questi ultimi avevano conquistato Gerusalemme e Antiochia, dopo aver vinto le armate bizantine nella decisiva battaglia dello Yarmuk (636); nel 642 erano dilagati in Egitto e avevano conquistato Alessandria (riconquistata dai Greci, via mare, nel 645, ma per breve tempo); nel 649, trasformatisi in ardimentosi marinai, avevano lanciato l'attacco contro l'isola di Cipro e, nel 655,  avevano addirittura sbaragliato la potente flotta bizantina nella battaglia navale di Phoinix, davanti alle coste della Licia.
In un simile frangente, con gli Arabi che si facevano sempre più forti sul mare e che erano in grado di minacciare, via terra, la stessa Asia Minore, nucleo dell'Impero Bizantino, l'idea di distrarre forze verso Occidente, ove gran parte dell'Italia - riconquistata dagli eserciti di Giustiniano con la guerra greco gotica (535-553), ma in gran parte perduta con l'invasione dei Longobardi di Alboino del 568  -, doveva apparire a dir poco bizzarra, così come l'idea di trasferire la capitale dell'Impero da Costantinopoli a Roma o, magari, a Siracusa.
Che cosa poté spingere, dunque, l'imperatore Costante II a tentare un simile azzardo, impegnandovi tutte le sue risorse, il suo prestigio e, alla fine, la sua stessa vita (morirà assassinato a Siracusa nel 668, in una congiura di palazzo), se si escludono - come è giusto - improbabili ragioni di tipo strettamente privato?
Lo storico tedesco Ralph-Johannes Lilie così riassume questo strano episodio nella sua importante opera «Bisanzio. La seconda Roma», peraltro ricadendo lui pure nella vecchia spiegazione di ordine privato circa le motivazioni di fondo dell'impresa (titolo originale: «Byzanz. Das zweite Rom», Berlin, Siedler Verlag, 2003; traduzione italiana di Giorgio Montinari, Roma, Newton & Compton Editori, 2005, pp. 97-99):

«In questo periodo [cioè verso il 662] si ebbe una delle azioni più bizzarre dell'ormai trentenne Costante II. Nell'estate del 662 egli riunì l'esercito e, passando per Tessalonica, marciò su Atene,, dove fece una breve sosta, per procedere poi verso occidente e approdare infine in Italia. Qui assediò, senza successo, la longobarda Benevento e si diresse poi verso Roma, dove fece un ingresso trionfale in quanto primo imperatore d'Oriente a recarsi in visita nell'antica capitale, dopo la divisione dell'impero nel 395! Lo scalpore fu corrispondente all'entità del fatto. Ma l'imperatore si trattenne per poco anche nella Città Eterna. Dopo aver estorto un contributo consistente a Roma  (si dice che abbia portato addirittura con sé i tetti di rame delle chiese), voltò le spalle alla città e al papa e si recò in Sicilia,  dove dichiarò sua capotale Siracusa e dove, nel 668, fu assassinato  da un membro della sua corte. La motivazione di tutto questo è sconosciuta.
Ma cosa voleva Costante in Italia? Molti sono stati gli interrogativi sulla questione, ma non esiste ancora una risposta definitiva. Forse aveva intenzione di liberare dai Longobardi l'Italia? In realtà si impegnò appena contro di loro, . Già l'assedio di Benevento rese evidente la debolezza delle truppe bizantine e Benevento era soltanto un piccolo principato dell'Italia meridionale. Se l'esercito imperiale non aveva conseguito la vittoria in questo caso, come poteva pensare di prevalere sul re longobardo nel Nord Italia e di riconquistare i territori lì situati? Ma Costante non tentò neanche  un'impresa del genere, ma si diresse velocemente verso la Sicilia, che pareva più sicura. Voleva, come si è supposto, predisporre un catenaccio contro la penetrazione araba nel Mediterraneo occidentale?  Ma la forza di Bisanzio era concentrata in Oriente, le sue province occidentali  (il Nord Africa, la Sicilia, la Sardegna e alcune altre isole) erano, al confronto, più piccole e deboli militarmente.  Inoltre Costate non aveva alcun motivo per fornire il suo sostegno ai Visigoti e ai Franchi, per non parlare del fatto che questi due popoli non rientravano, già da lungo tempo, nella sfera d'interesse di Bisanzio.
Forse le motivazioni dell'imperatore sono da ricercare piuttosto nell'ambito privato. Sembra che Costante godesse di scarsa popolarità a Costantinopoli. I suoi insuccessi contro gli Arabi, come la sua politica in campo religioso, gli garantirono la simpatia di pochi amici. Gli ortodossi avevano espresso tutto il loro odio per l'imperatore per la crudele punizione inflitta a massimo e ai suoi seguaci, con la loro conseguente morte , come per la morte di papa Martino I durante l'esilio in Crimea. L'uccisione, imputata al suo volere, dell'amato fratello minore Teodosio nel 660, incrementò ancor di più l'astio contro Costante. A Costantinopoli. Potrebbe essere quindi che egli vagheggiasse di ricominciare una nuova vita in Occidente e ritenesse, negando totalmente la realtà, di incontrare maggior favore in Sicilia che a Costantinopoli.
Egli chiese alla mogie e ai figli di raggiungerlo, ma questi furono fermati dall'opposizione dei governatori della capotale. Così Costante fu tagliato fuori in modo definitivo. Non si ostinò a fare ritorno a Costantinopoli, ma continuò il suo soggiorno in Sicilia. Anche se fosse vissuto più a lungo non avrebbe più potuto esercitare alcuna influenza sul corso politico dell'impero. Il temporaneo spostamento della residenza imperiale in Occidente rimase un episodio senza conseguenze.»

Mistero, dunque, come si vede, sull'intera vicenda della spedizione in Italia di Costante II, nonché - soprattutto - sulle sue reali motivazioni. Sembra trattarsi di uno di quei casi nei quali, per mancanza di adeguata documentazione, lo storico si vede costretto ad accontentarsi della ricostruzione dei fatti, rinunciando però alla ricerca delle loro cause.
Un bel passo indietro perfino rispetto ai tempi di Tucidide, che già definiva come compito della storia quello di individuare il perché delle azioni umane; un vuoto di approfondimento che, come si è visto, gli storici hanno sovente tentato di «riempire», facendo ora appello alla tavolozza suggestiva del pittore d'immagini romantiche e malinconiche, ora puntando su improbabili spiegazioni di tipo prettamente psicologico.
Ad esempio, Gregorovius - che pure è stato un grande storico, oltre che un incomparabile scrittore - insiste in modo perfino ossessivo sulla «avidità» di Costante, che si rese responsabile della spoliazione di alcune chiese di Roma (tema ripreso dal suo connazionale Lilie); ma non sembra interessato a individuare le cause di quello spasmodico bisogno di denaro - le disperate necessità  della guerra contro Arabi e Longobardi -, né a domandarsi fino a che punto il risentimento delle popolazioni per la sua esosa fiscalità possano aver contribuito all'isolamento politico di Costante II e alla sua sorprendente decisione di lasciare per sempre Costantinopoli, alla ricerca di un nuovo baricentro amministrativo per l'Impero.
Ora, una spiegazione del tutto diversa è quella avanzata, nell'immediato secondo dopoguerra, da uno studioso di storia medievale e di storia giuridica oggi, purtroppo, quasi dimenticato: il milanese Gian Piero Bognetti.
In una serie di scritti che iniziano con «S. Maria foris portas di Casteleseprio», del 1948, e che sono poi stati raccolti nel volume postumo miscellaneo «L'età longobarda» (I-IV, Milano, 1966-68), il Bognetti ha avanzato l'ipotesi che la spedizione italiana di Costante II sia stata motivata dalla necessità di sventare un disegno offensivo concertato arabo-longobardo contro i domini bizantini in Italia e contro il Mediterraneo centrale (Sardegna, Sicilia, provincia d'Africa); disegno la cui tessitura sarebbe stata svolta, in pratica - e questa è la parte più originale e interessante della sua tesi -, dalle comunità ebraiche locali.
Questa interpretazione - che, a suo tempo, mise a rumore il mondo accademico e degli specialisti di storia bizantina, ma la cui eco non è mai arrivata, a quanto ci risulta, agli orecchi del grande pubblico dei non specialisti - troverebbe sostegno in alcuni elementi di tipo epigrafico ed archeologico, oltre che nell'analogia con il dato ormai acclarato del ruolo svolto dalle comunità ebraiche in Siria, Egitto e Cirenaica nel favorire l'invasione e la conquista persiana e poi araba, dalle  quali si ripromettevano migliori condizioni di vita e di pratica del proprio culto, rispetto a quelle di cui godevano sotto un regime politico di religione cristiana.
Ora, noi sappiamo che, in seguito alla temporanea riconquista dell'Egitto e della Siria da parte di Eraclio, dopo l'invasione persiana, l'imperatore Eraclio aveva ordinato, o quanto meno permesso, la pratica massiccia delle conversioni forzate al cristianesimo nei confronti delle comunità ebraiche, volendo cautelarsi drasticamente, una volta per tutte, dal ripetersi di quanto era già accaduto alla metà del VII secolo: che, cioè, quelle comunità - insieme ad altre minoranze religiose, come i monofisiti - agissero da quinta colonna degli eserciti nemici.
Come si vede, una situazione che ricorda, per molti aspretti, quella che si sarebbe verificata nella Spagna dopo la «Reconquista» da parte dei sovrani cattolici, e culminata nell'espulsione di tutti i «moriscos» e i « marranos» ad opera di Filippo II d'Asburgo, ai primi del 1600.
Quanto al disegno di Arabi e Longobardi di agire di conserva per infliggere un colpo decisivo a ciò che rimaneva del dominio bizantino in Italia e nelle isole vicine, oltre che nella provincia d'Africa, esso non deve stupire, dato che gli interessi delle due parti convergevano obiettivamente, specialmente dopo che gli Arabi si erano dotati di una flotta ed erano divenuti, come si è visto, una potenza marittima di prima grandezza, mentre i Longobardi perseguivano il disegno di riunire il ducato di Benevento al resto del loro regno e, quindi, di estromettere definitivamente i Bizantini non solo da Ravenna e dalla Pentapoli, ma anche dall'Italia centro-meridionale e dalla Sardegna, dalla quale ultima la flotta greca era pur sempre in condizioni di ostacolare i loro piani.
Le comunità giudaiche nell'Italia meridionale, fiorenti e numerose, si sarebbero prestate, dunque, a fare da tramite tra Arabi e Longobardi per mettere a punto i dettagli di una offensiva simultanea, di cui sarebbe giunta notizia a Costantinopoli, inducendo Costante II a lasciare le rive del Bosforo per accorrere nella parte dell'Impero che stava per essere maggiormente minacciata, e per assalire i suoi nemici prima che potessero operare con forze congiunte.
L'assedio di Benevento, sia prima che dopo la visita di Costante II a Roma, e il successivo trasferimento dell'imperatore a Napoli e in Sicilia, a Siracusa, avrebbero obbedito ad un tale disegno, così come la campagna marittima e terrestre, sempre da lui voluta e organizzata, che si concluse con la riconquista di Cartagine; successo, benché temporaneo - come, del resto, quello di Alessandria d'Egitto - valse, probabilmente, a disorganizzare i piani avversari e a rallentare l'imminente attacco arabo contro l'Africa e contro la Sicilia stessa, ritardandone efficacemente l'attuazione.
Costante II era un uomo che possedeva larghezza di vedute, prontezza di decisioni, vastità di piani, oltre che un notevole grado di dinamismo e una non comune capacità di emanciparsi dalla tradizione del suo tempo. Quando stupì i suoi sudditi con la partenza da Costantinopoli alla volta di Roma, ad esempio, pare abbia detto che la madre, ossia Roma, era più degna delle cure imperiali della figlia, ossia Costantinopoli. Così pure, siamo a conoscenza del fatto che, per fronteggiare la minaccia araba contro il cuore dell'Asia Minore, egli inviò degli ambasciatori alla corte dell'imperatore cinese, Taisum, i confini del cui impero erano del pari minacciati dalla rapida avanzata araba nel settore dell'odierno Turkestan orientale.
Un uomo che pensava in grande, quindi; non un debole, perseguitato dai fantasmi (come quello del fratello Teodosio il quale, ogni notte, lo avrebbe invitato a bere un calice di sangue); e che non si sarebbe mai deciso a mettere in gioco, nella spedizione italiana, le sue ultime risorse militari e finanziarie, il suo prestigio e la sua stessa vita, se non vi fosse stato indotto dalla convinzione che era necessario che egli vi svolgesse il compito che già aveva portato a termine, con successo, nei Balcani, respingendo l'invasione degli Slavi: quello di scongiurare un pericoloso attacco nemico, prima che esso avesse il tempo di organizzarsi e di colpire con tutta la sua forza.
Costante II non fu solamente un imperatore che pensava in grande, ma anche un uomo d'azione, capace di agire tempestivamente di fronte a un pericolo, immediato o potenziale. Anche se non sempre la fortuna delle armi fu dalla sua (dalla battaglia navale di Phoinix, ad esempio, in cui perirono 20.000 Bizantini, egli stesso riuscì a salvarsi a stento), nel complesso si può dire che egli lasciò l'esercito bizantino in condizioni migliori di quelle in cui l'aveva trovato. Inoltre era un uomo deciso ed estremamente energico: a lui si devono, infatti, due riforme che assicurarono un lungo periodo di respiro all'Impero, dilaniato da lotte intestine e minacciato su quasi tutti i confini: l'istituzione dei «temi» (un tempo attribuita ad Eraclio), province militarizzate la cui difesa era affidata direttamente ad eserciti di soldati-contadini; e la promulgazione dell'editto («Tipo») con il quale, allo scopo di imporre la pace religiosa, vietava ai suoi sudditi di discutere ulteriormente  sul monotelismo.
Non solo: egli era inesorabile nel colpire gli avversari interni, come si vide allorché, dopo aver sventato una congiura ai suoi danni, spedì il papa in esilio in Crimea  e l'abate Massimo ancora più lontano, ai piedi del Caucaso; inoltre, sventò il tentativo dell'esarca Olimpio di crearsi un dominio personale a Ravenna, sedando la rivolta e riconquistando la città adriatica.
Ma torniamo al ruolo che gli Ebrei d'Italia e delle due maggiori isole, Sicilia e soprattutto Sardegna, avrebbero svolto nel fare da tramite fra i Longobardi e gli Arabi, per una offensiva congiunta contro i Bizantini nell'Italia meridionale.
Le tesi di Gian Piero Bognetti sono state efficacemente riassunte da un altro storico italiano di valore, noto purtroppo quasi solo agli specialisti di storia medievale, Pasquale Corsi, nel suo eccellente saggio «La spedizione italiana di Costante II» (Bologna, Pàtron Editore, 1983, pp. 89-103), il quale, peraltro, fa notare che, allo stato attuale, mancano elementi assolutamente probanti per decidere a favore del disegno di attacco congiunto arabo-longobardo contro i Bizantini, così come, a maggior ragione, del ruolo che in tale disegno avrebbero svolto gli Ebrei dell'Italia meridionale e delle isole.

«[Secondo lo storico greco A. Stratos] scopo dei Costante fu, dunque, l'organizzazione della difesa dell'occidente contro gli Arabi, cui si aggiunse il tentativo di riconquistare l'Italia meridionale,  traendo profitto dalle favorevoli circostanze venute a crearsi  per le lotte di successone al trono di Pavia.
Dallo Stratos, tuttavia, è stata ignorata l'importate teoria formulata da Gian Piero Bognetti alcuni decenni or sono e più volte ripresa nei suoi scritti, di una probabile intesa antibizantina fra Arabi e Longobardi, con la mediazione delle colonie ebraiche dell'Italia meridionale. Questa ipotesi ha avito giustamente larga eco nel mondo degli studi poiché ha prospettato in una luce nuova, di vasto respiro, gli avvenimenti connessi alla spedizione di Costante. Certo, si potrà discutere a lungo sulla validità complessiva di questa ricostruzione e di alcuni suoi particolari aspetti: è innegabile, ad esempio, che manchi ogni certezza intorno ad alcuni dati cronologici fondamentali e che il discorso si sviluppi necessariamente sul puntello delle probabilità ed analogie, ma ciò dipende dalla povertà ed ambiguità delle fonti finora disponibili, più che dall'audacia della formulazione. A parte comunque il giudizio che se ne può dare, l'ipotesi del Bognetti resta - a mio parere - di particolare importanza  per la comprensione generale di questo momento storico e delle forze che lo determinarono; in secondo luogo, segna una nuova tappa  .- certo non definitiva né inconfutabile - della riflessione storiografica su questa vicenda così controversa.
Il Bognetti, dunque, respinse nettamente le motivazioni date intorno alla partenza di Costante, non collegabile né ad una presunta impopolarità dell'imperatore né ad un anacronistico trasferimento della capitale in Occidente, azione quest'ultima di un'eleganza simbolica del tutto estranea alla durezza dei tempi e contrastante, per di più, col ruolo predominante dell'Oriente nell'equilibrio politico bizantino. La ricerca delle cause deve, invece, spostarsi sul piano dei contemporanei rapporti internazionali e della reciproca connessione dei fattori in gioco; in questa sfera appare almeno singolare la concomitanza di alcuni movimenti delle forze arabe e longobarde, , come lascia intuire il probabile attacco concordato alla Sardegna. Tali episodi s'illuminano di una luce inquietante, se vengono inseriti in un sistema tendenzialmente convergente verso l'alleanza arabo-longobarda: la crisi della monarchia pavese, dopo la morte di Ariperto I,  avrebbe trovato in Grimoaldo e nella corrente ariana che lo sosteneva  uno sbocco pericoloso per le stesse sorti del papato e della Chiesa,  oltre che delle terre bizantine d'Italia; la possibilità di un accordo con gli Arabi, muniti ormai di una propria marina da guerra, era divenuta quanto mai concreta, sulla spinta del comune interesse ad eliminare la presenza bizantina dal centro del Mediterraneo. I precedenti in tal senso non mancavano, di manovre cioè a vasto raggio per sorprendere il nemico alle spalle, ed i contatti si potevano agevolmente sviluppare lungo i canali della diaspora ebraica, presente con fiorenti comunità nell'Italia meridionale, come ad esempio quella di Venosa. La spedizione di Costante servì appunto a scongiurare i gravi pericoli di questa intesa, operando con l'alleanza dei Franchi  contro il ducato di Benevento, incuneato fra le terre bizantine del Meridione, e svolgendo un'intensa attività antimusulmana durante il soggiorno siciliano. (…)
In Italia gli Ebrei dovevano essere numerosi ed organizzati  in comunità prospere ed attive, particolarmente  nell'Italia del Sud e in Sicilia; pur ignorando molti particolari della loro vita, le testimonianze reperibili lasciano intuire che il loro sviluppo non aveva incontrato ostacoli particolari.
Le colonie ebraiche di Puglia avevano radici molto antiche, risalenti all'epoca romana, ed è probabile che avessero raggiunto sin dal secolo VII un notevole livello culturale e politico; in Sicilia gli Ebrei di Siracusa chiedevano l'intervento dell'autorità statale bizantina contro il vescovo Zosimo, che contrastava la ricostruzione della loro sinagoga distrutta da un'incursione saracena. Sugli Ebrei insediati nel territorio di Benevento il Bognetti ha formulato l'ipotesi di una loro partecipazione alle funzioni amministrative, al posto dei vescovi scomparsi per le vicissitudini della conquista; Grimoaldo, anzi, ne avrebbe portato con sé un certo numero a Pavia, in qualità di collaboratori e consiglieri.  Questo particolare favore di cui godettero ai tempi di Grimoaldo potrebbe forse spiegare, a suo parere, l'insolita violenza della persecuzione messa in atto dai suoi successori cattolici..
Mi pare, quindi, che sia molto problematico - allo stato attuale delle conoscenze - determinare con un sufficiente grado di certezza il ruolo svolto dagli Ebrei nelle vicende connesse alla spedizione di Costante; non vi sono però elementi tali da far escludere a priori l'eventualità  di una loro mediazione tra Arabi e Longobardi, così come ipotizzato dal Bognetti.
Se la questione non può essere risolta da un capo, si potrebbe tentare di risolverla dall'altro, scambiandone i termini: il Bognetti, appunto, pensò di aver trovato la prova dell'effettivo conseguimento di un accordo tra le forze antibizantine in un loro attacco congiunto, durante il regno di Grimoaldo, alle coste settentrionali.»

Questo avvenimento è attestato da un'iscrizione  incisa in un blocco di marmo,  appartenente ad una architrave della chiesa di San Gavino, a Porto Torres, che venne casualmente rinvenuta nel 1927. Il testo, studiato da filologi e storici della statura del De Sanctis e del Mazzarino, celebra la vittoria conseguita da un duca bizantino di nome Costantino contro una incursione di Longobardi e altri barbari, non meglio precisati, contro la costa della Sardegna.
Esiste tuttavia una discordanza di opinioni fra gli studiosi quanto alla datazione dell'iscrizione, per cui la tesi del Bognetti, che la riferisce al periodo di Costante II, e, più precisamente, all'epoca immediatamente precedente la sua spedizione in Italia (per cui gli «altri barbari» sarebbero gli Arabi), non risulta universalmente accettata.
Un altro indizio su cui poggia la teoria di Bognetti è costituito da una epigrafe funeraria di Venosa, dedicata a una fanciulla di nome Faustina e databile alla metà del VII secolo. Essa attesterebbe la presenza di due «apustuli», ossia gli incaricati di mantenere i contatti tra gli organismi centrali del giudaismo e le comunità periferiche. Tali «apustuli» potrebbero essere  gli inviati ufficiali dell'esilarca di Babilonia (allora in mano agli Arabi) presso i maggiorenti della comunità di Venosa. Si tratterebbe di un elemento di conferma circa la possibilità che gli Ebrei svolgessero effettivamente la funzione di intermediari fra i Longobardi del ducato di Benevento e gli Arabi, padroni della Mesopotamia, della Siria e dominatori delle acque del Mediterraneo orientale, proprio nel medesimo torno di tempo.
Un indizio, dunque, e un indizio interessante; non una prova.
La questione dell'attacco concertato di Longobardi ed Arabi ai possedimenti longobardi nell'Italia meridionale resta, pertanto, aperta; così come rimane aperta la questione relativa al ruolo eventualmente svolto in tale congiuntura dalle comunità giudaiche del Meridione.
In ogni caso, una ipotesi di lavoro meritevole di ulteriori ricerche ed approfondimenti.