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L'io chiama invano l'altro, in una società che ha di fatto abolito i rapporti interpersonali

di Francesco Lamendola - 03/04/2009

 


Se la lettera che attendevamo non ci è stata recapitata, invano ci recheremo presso l'ufficio postale per domandarne ragione: una impiegata dall'aria molto professionale ci spiegherà che la cosa non la riguarda, perché - incredibile ma vero - i postini fanno capo a un responsabile diverso; e ci darà il numero telefonico «verde» dell'ufficio reclami più vicino, al quale rivolgerci.
Se dobbiamo vendere dei titoli per far fronte a una spesa, e ci accorgiamo di aver subito una perdita secca di alcune centinaia o migliaia di euro, invano andremo in banca per domandare spiegazioni all'impiegato che ce ne aveva, a suo tempo, consigliato l'acquisto: egli citerà le oscillazioni del mercato azionario, i rischi connessi alla Borsa mondiale, e così via: e, alla fine, risulterà che la scomparsa dei nostri sudati risparmi non è colpa di nessuno.
Oppure se ci accorgiamo, poco dopo averla acquistata, che la nostra automobile presenta un difetto strutturale, e ci rivolgiamo al nostro concessionario per risolvere il problema, il fatto di godere - teoricamente - del certificato di garanzia, non ci metterà al sicuro da possibili sorprese poco gradite; può essere che di quel tale difetto (ad esempio, l'abbassamento inspiegabile dei finestrini automatici) non si scopra la causa; e che, alla fine, ci venga detto che il problema è nostro, perché, in base alle verifiche effettuate, il mezzo risulta perfettamente a posto.
E quel che vale per l'automobile, vale anche per il nostro corpo: uno scambio di provette negli esami del sangue può avere conseguenze incalcolabili sulla nostra salute e sulla nostra tranquillità; ma, posto che si arrivi a capire che uno scambio vi sia stato, nessuno se ne assumerà mai, personalmente, la responsabilità; ci verrà risposto che si tratta degli incerti inevitabili di qualunque struttura e di qualunque servizio.
Ovunque si assiste allo stesso fenomeno: sembra proprio che sia scomparso il concetto di responsabilità individuale.
A sua volta, questo fenomeno sembra essere un aspetto di una problematica più generale: i rapporti individuali diretti sono ormai ridotti ai minimi termini; ovunque le macchine, o dei meccanismi burocratici e impersonali, ne hanno preso il posto: dal pagamento del biglietto all'uscita dal casello autostradale, fino all'iscrizione, via posta o via Internet, nelle liste di qualche concorso, ormai il contatto umano è ridotto ai minimi termini.
Che poi questi due fenomeni - la volatilizzazione dei rapporti individuali e quella del senso di responsabilità - abbiano molto a che fare l'uno con l'altro, è una deduzione piuttosto naturale e non certo inverosimile: perché, se sappiamo in partenza che non dovremo confrontarci direttamente e personalmente con l'altro, anche il nostro agire tenderà ad essere meno scrupoloso. Il falegname che consegnava al cliente i mobili fatti nella sua bottega si sentiva investito di una responsabilità immediata circa la loro perfetta funzionalità. Ma se scopriamo che il ferro da stiro acquistato in un centro commerciale non scarica il vapore, nessuno - e tanto meno la commessa del reparto ove abbiamo effettuato l'acquisto - si sentirà responsabile di alcunché. Probabilmente ci cambieranno l'articolo, sperando che questa volta non sia difettoso; ma nessuno diventerà rosso o si mostrerà imbarazzato davanti al nostro reclamo; al contrario: è probabile che sarà proprio la nostra presenza ad irritare qualcuno e a provocare qualche sbuffata d'impazienza.
Ora, la verità di quanto abbiamo sin qui affermato trova la sua conferma più decisiva e drammatica nel fenomeno umano che costituiva il rapporto diretto per eccellenza: la guerra.
La guerra, sia per l'eroe greco, sia per il «miles» romano, sia per il cavaliere medievale, rappresentava - come il torneo - il momento della verità individuale: quando il braccio di Ettore si misura con quello di Achille; il braccio del legionario, con quello del Gallo o del Germano o del parto; e il braccio del Crociato, con il braccio del Saraceno.
Esistono, naturalmente, delle eccezioni alla regola: Cesare, ad Alesia, ha vinto più con l'astuzia che con la forza, prendendo per fame l'esercito di Vercingetorige, e senza che gli assediati si fossero potuti misurare, se non in rare occasioni, con gli assedianti. Similmente, le navi da guerra bizantine armate con il terribile «fuoco greco» erano in condizione di bruciare vivi gli equipaggi delle flotte avversarie, senza bisogno di entrare a contatto diretto con essi. E, infine, gli arcieri inglesi che decimarono la stupenda cavalleria francese ad Azincourt, non arrivarono a misurarsi con i nemici da uomo a uomo, ma ne trapassarono le corazze prima che questi fossero in grado di arrivare a portata di lancia o di spada.
Pure con tutto ciò, rimane il fatto che la guerra, nell'antichità e nel Medioevo, era una faccenda che si risolveva, il più delle volte, all'arma bianca, e quindi con il confronto diretto fra singoli esseri umani; mentre oggi è, sovente, un insieme di procedure talmente  tecnologiche, che acquista più i connotati di un processo industriale, che non quelli del massacro indiscriminato di donne, vecchi e bambini che, in realtà, è divenuta: ad esempio, nel bombardamento aereo di un centro abitato, magari con armi nucleari.
È raro, oggi, che il soldato che uccide veda il proprio nemico negli occhi. E questa svolta nell'arte della guerra si è verificata agli albori della modernità, quando le armi da fuoco si sono definitivamente imposte. Orlando, nel poema dell'Ariosto, getta in acqua, sdegnato, un archibugio, simbolo di un modo vile e anonimo di fare la guerra; ma, all'incirca negli stessi anni, Giovanni dalle Bande Nere, l'uomo che aveva tentato di fermare la calata dei Lanzichenecchi verso Roma per salvarla dal «sacco», muore per le conseguenze di un colpo di falconetto (e, ironia della sorte, pure il Connestabile di Borbone cade ucciso, sotto le mura di Castel Sant'Angelo, da una archibugiata, forse sparata da Benvenuto Cellini).
Se, poi, dall'arte di uccidere su larga scala, ossia dalla guerra, passiamo all'arte di amare, noteremo che anche qui si è ampiamente diffusa una sorta di allergia verso i rapporti personali e diretti di tipo  stabile o, comunque, duraturo, subentrando ad essi una marcata propensione per i rapporti occasionali, fuggevoli e, possibilmente, anonimi, nei quali ci si fa un vanto di non conoscere neppure il nome del proprio partner sessuale, di non sapere nulla di lui e della sua vita, e meno di tutto il luogo in cui vive e lavora; in modo da essere certi non rivederlo, se non - eventualmente - alle proprie condizioni.

Scriveva un intellettuale italiano di notevole statura, Enrico Castelli Gattinara di Zubiena (1900-1977) - cui non è mai stata resa piena giustizia nel mondo della cultura, forse per la «colpa» di appartenere al filone religioso dell'esistenzialismo - nel volume miscellaneo «Il Cristo» (Roma, Editrice Studium Christio, 1962, pp. 29-35):

«Quando Riccardo III di Gloucester   chiamò a gran voce il duca di Lancaster a singolar combattimento nella conclusiva battaglia di Bosworth (1485), tre volte l'araldo ripeté il richiamo, ma il duca di Lancaster non si fece avanti. Erano cominciati i tempi moderni.
Così Chesterton.,
Si può dire, infatti, che tutta la storia moderna sia caratterizzata da questa caduta del contato tra individuo e individuo, dal tentativo riuscitissimo di sostituire l'anonimato all'impegno personale: stria caratterizzata dal non rispondere.
Il senso dell'impoverimento dell'individuo è un portato del trionfo della tecnica: costruire senza rendersi conto della costruzione realizzata (tramonto dell'artigianato); distruggere senza sapere che cosa si distrugge (tramonto della presenza del fine nell'azione in corso); uccidere senza vedere chi si uccide. Uccidere senza vedere chi si uccide, può sembrare sotto un certo aspetto un dato positivo; ma sotto un altro aspetto è ciò che vi può essere di più negativo. Il nemico, già diventato avversario per la concezione cristiana della storia, si trasforma nuovamente nel Nemico con la maiuscola, nel concetto dell'inimicizia stessa, perché il nemico in sé e per sé non è un individuo altro che c non come singolo contro il quale si combatte.
Il duca di Lancaster non risponde all'appello, non si cimenta con il rivale. Questo non rispondere all'appello, questo costruire il conflitto sulla concettualità del conflitto stesso, è considerare l'idea della vita come qualche cosa di per sé stante, di materiale. L'idea della vita e della morte, dell'amicizia e dell'inimicizia.
Si colpisce l'idea del nemico uccidendo nemici che non si vedono e con i quali non ci si misura, questa la realtà della storia moderna, questa la negatività della così detta civilizzazione, questa anche la nota essenziale della caduta dell'intimo che la storia contemporanea presenta.
Quando, nei riguardi dell'altro col quale siamo in rapporto, noi introduciamo un elemento mediatore, che è l'elemento di una tecnica costruita per dei fini pratici tutti tendenti a risparmiare  tempo e ad accelerare il processo vitale, inevitabilmente l'elemento mediatore diventa l'elemento separante, perché diventa l'oggetto dove convergono gli interessi delle due parti
In altre parole, se la comunicazione può essere stabilita solo ricorrendo a un terzo termine, che è quello che la tecnica fornisce, il termine mediatore acquista di conseguenza una tale importanza che tutto l'interesse si sposta sul termine stesso anziché sul risultato della comunicazione.
Sembra fatale che il termine mediatore diventi in definitiva l'interesse principale, e la mediazione, che il termine doveva favorire, non si attui proprio perché l'interesse è polarizzato sullo strumento della mediazione, e diventi anzi impossibile. […]
Se si volesse cercare di eliminare tutto questo, di ritrovare l'altro nel colloquio, bisognerebbe abolire tutto ciò che rende impossibile il colloquio stesso e che è stato costruito proprio per accelerare la possibilità del colloquio e per avvicinare gli individui.
Insomma, tutta la storia si una civilizzazione sembra fondata su un equivoco per cui lo strumento civilizzante è diventato l'elemento demoniaco in atto e che ha servito a una società dove tutto sembra concorrere ad un equilibrio sociale, ma dove invece, di fatto, tutto separa e contribuisce a rendere incolmabile la divisione.
Inutile illudersi nei riguardi della tecnica costruita. Il buon uso presuppone molte cose, prima di tutto una buona volontà che non sia soltanto una "forma mentis" nei riguardi di un oggetto indeterminato (voler fare il bene per il bene), ma di una buona volontà nei riguardi di un fine determinato: voler fare del bene agli altri, a quegli altri però che siano approssimati, cioè diventato prossimo, quel prossimo che quanto è più prossimo tanto più sembra paralizzare la nostra azione e diventare a noi ostile, cosicché esiste un deplorevole impulso a respingere l'umanità troppo approssimata e ad amare il prossimo quando è lontano.
Ora questa buona volontà trova un ostacolo quasi insormontabile nell'offerta che la tecnica ci presenta, la tecnica della vita sociale, della vita associata, che è tecnica di ritrovati meccanici. Da questi ritrovati meccanici non si può prescindere perché chi volesse farlo si metterebbe nelle condizioni più sgradevoli nei riguardi dell'intesa col prossimo; tanto più sgradevoli in quanto il prossimo vuole economizzare il suo tempo, e per fargli sentire che una certa economia è un modo come un altro di dissipazione, è un modo come un altro di dissipare il patrimonio tempo, per far sentire quanto occorre indulgere alle esigenze altrui, che sono quelle che esigono di valersi di tutti i mezzi che la tecnica ha messo a disposizione e soprattutto di quelli che accelerano i tempi.
È un circolo chiuso dal quale non si sa come uscire. Rendersene conto vuol dire in gran parte mettersi in condizione di vantaggio, ma non vuol dire trovare una via d'uscita. Vuol dire soltanto mettersi in quelle condizioni, date le quali una soluzione imprevedibile, umanamente parlando, si potrà forse presentare.
La crisi del senso del sovrannaturale (connesso a ciò che è più recondito) è in fondo la crisi della nostra epoca e si potrebbe definire il tentativo quasi inconsapevole di rifiutare tutte le inezie di cui è composta la vita di un uomo per lasciar sussistere lo scheletro di una idealità della quale non si capisce la nota essenziale, di una idealità inessenziale, cioè un assurdo.
Che il senso del sovrannaturale costituisca la nota dominante del mondo di ieri, risulta dall'esame delle condizioni di vita della generazione precedente la nostra. Condizioni simili a quelle nelle quali viveva un uomo all'epoca della guerra delle Due Rose, sebbene apparentemente differenti.
Quando Riccardo III, chiamando il suo rivale, abbatteva uno dopo l'altro gli avversari, ripetendo una sola parola: "Ribellione", intendeva esprimere il suo disprezzo per i mancatori di parola, quello stesso disprezzo che manifestavano i nostri padri per coloro che testimoniavano il falso. "La sfida gridata da Riccardo III echeggiò in tutti i secoli che vennero dopo senza risposta; nessun re inglese, scrive Chesterton, combatté alla maniera di Riccardo. Così finì la guerra degli usurpatori; e l'ultimo e più dubbio di tutti gli usurpatori,, trovò la corona di Inghilterra tra le spine di un roveto.»

Gli antichi, invece, rispondevano sempre alla chiamata dell'altro: anche se si trattava di una chiamata di morte. Si prendevano la propria responsabilità, senza nascondersi dietro il paravento delle leggi o del diritto internazionale.
Il che non vuol dire che agissero in modo morale, se, con questo termine, si intende «conforme al bene»; ma certo si sforzavano di agire conforme al bene della «polis» o, almeno, entro quell'orizzonte etico.
Allorché gli Ateniesi vennero fatti prigionieri nella ingloriosa battaglia di Egospotami (405 a. C.), che segnò la svolta decisiva nella guerra del Peloponneso, caddero nelle mani degli Spartani anche coloro i quali avevano praticato forme di guerra totale, ossia che avevano fatto giustiziare dei prigionieri di guerra. Tra questi si trovava Filocle, colui che - a suo tempo - aveva ordinato di gettare fuori bordo dei prigionieri Andri e Corinzi.
Ed ecco come Lisandro, il comandante spartano, si regolò in quella circostanza, nel racconto dello storico Senofonte («Elleniche», II, 1; traduzione di Umberto Bultrighini, Roma, Newton & Compton Editori, 1997, p. 64):

«In seguito Lisandro fece riunire gli alleati e li invitò a discutere sulla sorte dei prigionieri.  Allora furono lanciate numerose accuse contro gli Ateniesi, per quanto avevano commesso contro i diritti delle genti e per quanto avevano decretato di fare nel caso fossero riusciti vincitori nella battaglia navale, ossia di tagliare la mano destra a tutti gli uomini presi vivi; li si accusava anche d aver precipitato in mare tutti gli uomini di due navi, una di Cornto e una di Andro, dopo averle catturate: era stato Filocle, lo stratego degli Ateniesi, che li aveva fatti uccidere.  Furono discusse molte altre cose, e fu deciso di mettere a morte quanti dei prigionieri fossero Ateniesi, ad eccezione di Adimanto, che era stato l'unico nell'assemblea  a opporsi al decreto sul taglio delle mani; nondimeno  fu accusato da alcuni di aver tradito la flotta. Lisandro dopo aver domandato come prima cosa a Filocle quale pena meritasse per aver iniziato a trasgredire il diritto delle genti nei confronti dei Greci, gli tagliò la gola.»

Quelli erano uomini che si assumevano, tutta intera, la propria responsabilità.
Potremmo fare infiniti altri esempi: come quello dell'ateniese Crizia (lo zio di Platone), che, dopo aver capeggiato la fazione più estremista dei Trenta Tiranni e aver fatto sopprimere il moderato Teramene, non si nascose dietro gli altri, ma prese le armi e affrontò a viso aperto i democratici di Trasibulo, finendo trafitto da una lancia nel combattimento presso il Pireo. Era stato un «maledetto», ma aveva avuto il coraggio di esporsi, pagando, poi, di persona.

Concludendo.
La società moderna, massificata e deresponsabilizzante, tende a far scomparire il rapporto diretto fra persona e persona: forse perché la visione del mondo che sta alla sua base è negatrice, in se stessa, del concetto di persona.
Nella società di massa non vi sono più persone, ma utenti e consumatori; quindi non è più necessario un rapporto di fiducia di tipo personale, ma, tutt'al più, di tipo istituzionale («Puoi fidarti della tua banca»; «Puoi fidarti del tuo grande magazzino»; «Puoi fidarti del tuo partito politico o del tuo sindacato», come recita la pubblicità).
Per tornare a scoprire l'importanza e la bellezza del rapporto interpersonale, ma anche la responsabilità individuale di cui è gravido, dobbiamo capovolgere i nostri parametri consolidati di «utilità» e di «economia»; e arrivare a comprendere che, forse, non sempre il tempo risparmiato è un vantaggio per noi, e che, dopotutto, non sempre la cosa più utile sul piano della comodità, è anche la migliore in assoluto.
Ma per arrivare a capire questo, è necessario capovolgere anche le nostre idee consolidate circa noi stessi; e ricordarci che, alla fine dei conti, siamo qualche cosa di più che degli utenti e dei consumatori; qualche cosa di più che numeri nella massa e pecore nel gregge: che, forse - appunto - siamo delle persone, ossia dei liberi soggetti spirituali, capaci di godere di cose che non sono sempre misurabili e quantificabili, e animati da una brama ardente d'infinito e di eterno.