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Nel bosco, tra felci e rocce muscose, nel chiaro mattino di primavera

di Francesco Lamendola - 27/04/2009


La strada asfaltata, in quel punto, disegna una svolta e s'impenna, prima di imboccare l'ultima discesa.
Sul lato destro, subito oltre il margine stradale, inizia il bosco di acacie, di noccioli, di carpini e di querce, arrampicandosi su per il fianco della collina, in una verde esplosione di freschezza, resa più intricata dall'edera selvatica e dagli altri rampicanti che infestano i tronchi e dal ricchissimo sottobosco di felici, epatiche e muschi.
Più in alto, proprio sotto la cima dello sperone roccioso che domina la curva, si aprono alcune fessure nella pietra calcarea: alcune più grandi, altre più piccole, simili alle orbite vuote di un Calvario o alle finestre di una mitica città scolpita nel monte, come Petra dei Nabatei - solo, ovviamente, in formato ridotto.
Sono più di vent'anni che percorro questa strada quasi ogni giorno, e non avevo mai notato tutto questo.
In parte, ciò è dovuto al fatto che si tratta di una curva in salita - o in discesa, secondo il senso di marcia - piuttosto stretta, che richiede al guidatore una certa attenzione. D'inverno, quando la temperatura notturna si abbassa molto sotto lo zero, si copre di un sottile strato di ghiaccio, perché il costone la mantiene costantemente in ombra e l'acqua piovana o della neve che si scoglie invade la sede stradale e si trasforma in una pellicola insidiosa, pericolosissima. Non è cosa rara finire fuori strada, o peggio; qualcuno ci ha lasciato la vita.
Anche nella bella stagione, comunque, è ben difficile che qualcuno, percorrendola in automobile, butti l'occhio oltre le fronde del bosco, e noti, proprio nell'incavo della doppia curva, quelle strane aperture sul fianco della collina. E lo stesso vale per un ciclista: io stesso l'ho percorsa tante volte in bicicletta, in passato; e mai avevo notato quel particolare così suggestivo, che richiama subito alla mente lo sfondo di certi quadri dei pittori del Rinascimento, specialmente quelli dedicati alle vite dei santi anacoreti nel Deserto.
Così, quando - per puro caso - vi ho buttato l'occhio, l'altro giorno, mi è sembrato di fare una scoperta notevole: la sorpresa nel pieno della quotidianità, l'insolito nella routine, il mistero nella vita di ogni giorno. E il pensiero d'esservi passato così tante volte, senza mai accorgermene o neanche immaginarne l'esistenza; e il pensiero che quasi nessuno, probabilmente, l'ha mai visto: che cosa strana. È la strada che ho percorso più spesso in vita mia, l'avrò fatta  migliaia e migliaia di volte: tanto da corrispondere a più volte il giro della Terra; pensiero - anche questo - ben strano, e quasi vertiginoso.
Eppure mai niente, neanche un sospetto.
Ecco, stamattina è un giorno di festa, il traffico è minimo e mi posso fermare sul margine della strada, proprio sotto la prima delle due curve che scendono al piano.
Non è un caso che questa località, questa valle tagliata nella parete di una catena di collie per aprirvi la strada, sia chiamata familiarmente LA CARBONERA. I boscaioli dovevano trovare abbondante legname in questo luogo, un tempo, e i carbonai vi fabbricavano il carbone; cose di appena qualche decennio fa - come narrato magistralmente da Carlo Cassola ne «Il taglio del bosco»; ma che già impallidiscono nelle nebbie di un passato ancestrale, quasi mitico.

*   *   *
Aria fresca, aria di libertà.
Sono belle queste mattine presto dei giorni festivi, quando per le strade corrono poche macchine e nei paesi non si scorge anima viva. Senso di pace, senso di tranquillità; è come tornare indietro nel tempo, quando il volume traffico era un terzo o un quarto dell'attuale.
L'aria è frizzante, il cielo è solcato da poche nuvolette bianchissime e il contrasto fra il verde della fitta vegetazione, il colore ocra della parete rocciosa erosa dalle acque e l'azzurro del cielo primaverile non potrebbe essere più gradevole e, a suo modo, armonioso.
Ecco a che cosa somiglia questo paesaggio: a quello di certi quadri di Giovanni Bellini o del suo discepolo più famoso, Giovanni Battista Cima da Conegliano Ed è logico che sia così: questi sono proprio i luoghi ove i due grandi pittori del Rinascimento ambientavano le loro meravigliose Madonne, i loro santi e le loro sante dalla bellezza che toglie il fiato (cfr. il nostro articolo «Un quadro al giorno: Madonna in trono col Bambino fra angeli e santi, di G. B. Cima da Conegliano (1492)», sempre sul sito di Arianna Editrice).
La rotondità materna,  e al tempo stesso sensuale, delle colline e il dolce languore della vegetazione, con le verdi foglioline tremolanti nell'aria limpida, creano un mirabile sfondo a quelle forme rocciose un po' strane, con quelle occhiaie vuote e misteriose: sì che tutto l'insieme potrebbe apparire come il capriccio un po' estroso di un artista; se non fosse - invece - tutto vero, tutto perfettamente sobrio e naturale.
Un tempo, qui - del resto - si estraeva anche la lignite; c'era una discreta attività mineraria, nelle viscere di questi colli. Un osservatore superficiale non lo crederebbe, ma tutta questa zona è disseminata di anfratti, di grotte, di cave, in genere assai ben dissimulati dalla ridente vegetazione arbustiva ed arborea. Ne conoscevo anche una, di queste grotte carsiche: la visitai un paio di volte, tanti anni fa. Era un vero piccolo mondo sotterraneo, con tanto di stalattiti e stalagmiti e con il piccolo vestibolo dissimulato dalle fronde delle acacie.
Strani ricordi: questa strada, percorsa così tante volte per abitudine, magari con noia, spesso con impazienza: e ora, d'improvviso, così sorprendentemente nuova, quasi sconosciuta, sembra davvero volermi dire qualcosa. È la strada della mia vita, che ho percorso infinite volte con i più diversi stati d'animo, nei giorni lieti e in quelli tristi.
Ecco, sono bastati pochi passi dal margine della strada e già mi sembra di essere penetrato in un altro mondo. La temperatura, sotto le fronde degli alberi, è ancora decisamente fresca e l'aria è piena dell'umidità della notte che si è depositata in forma di rugiada su milioni di foglie e di fili d'erba, formando un ambiente saturo di linfe e di vapori che tra poco, con lo spuntar del sole, si dissolverà impercettibilmente.
Il canto d'innumerevoli uccelli riempie l'aria: incredibile udire tutte queste voci armoniose, incredibile pensare che migliaia di automobilisti vi passino accanto ogni giorno senza neanche sapere che esiste. Mi sembra che il canto degli uccelli nel primo mattino abbia un qualcosa di diverso da quello che si ode nelle altre ore del giorno; una nota più gaia e vivace, più spensierata, si direbbe quasi più giovanile e speranzosa. Anche gli animali provano quelle stesse sensazioni che proviamo noi umani, al variare delle ore del giorno?

«L'alba vinceva l'ora mattutina
che fuggìa innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar della marina»

dice Dante,  (Purgatorio, I, 115-117): e ti par di sentire il cuore allargarsi, e l'anima distendersi e fondersi con l'armonia del mondo.
Perché un umile passero, un merlo, una rondine, non dovrebbero provare le stesse sensazioni? Perché non potrebbero aprirsi anch'essi alla pienezza dell'abbraccio con la vita, con il mondo, e godere di tanta bellezza così prodigalmente a noi offerta; e sentirsi parte pulsante di essa, tutt'uno con essa, in perfetta sintonia?
*   *   *
Il terreno è un po' molle per la pioggia dei giorni scorsi, i tratti scoperti sono rivestiti da una  fanghiglia ove il piede affonda lievemente.
Il letto di un minuscolo torrente taglia attraverso il bosco e il suo fondo sassoso, ora asciutto, si apre come una stradina nel folto della macchia, ove è più agevole procedere senza inzupparsi le scarpe e i pantaloni.
Bastano pochi metri di cammino e già sono avvolto nella inesplicabile magia di questo luogo, di quest'ora, nell'aria pungente che sa quasi di montagna; mentre il profumo intenso, inconfondibile dell'erba bagnata inebria i polmoni come un fiotto di gioia e di vitalità.
Profumi, suoni melodiosi, colori teneri e vivaci, la luce del nuovo giorno e la carezza amica del venticello d'aprile: tutto questo crea un insieme così dolce e rasserenante, così indicibilmente benevolo e armonioso, che è impossibile restarvi indifferente, impossibile non lasciarsene guidare come da un amico infinitamente saggio.
Ecco, ora sono ai piedi del lato roccioso del colle e posso osservare più da vicino quelle curiose cavità che si spalancano come orbite vuote. Sono di origine naturale, come posso constatare facilmente; tutte queste colline sono di natura carsica, e i loro dolci profili verdeggianti ricoprono una roccia aspra, tormentata, traforata da innumerevoli aperture scavate dall'acqua piovana nel corso dei millenni.
Trovandomi ormai a pochi metri da questo spettacolo, che tanto mi aveva incuriosito allorché lo avevo scorto da lontano, ho la sensazione di essere forse in presenza di una città fantastica, onirica; di una realtà simmetrica e speculare rispetto all'altra, a quella - cioè - per noi ordinaria e familiare. È come se quelle aperture sul fianco scoperto della collina alludessero a finestre, portoni e terrazze di una metropoli strana ed aliena, che si affaccia  inattesa dalla superficie zampillante di una fontana, o dal riverbero improvviso dell'arcobaleno…
Nella grande pace del primo mattino, nella musica incessante di decine di uccelli che si leva dai rami degli alberi alti e sottili, incorniciati di rampicanti come da fastose ghirlande, mi lascio invadere da un senso di profonda consapevolezza, di totale e incondizionata adesione alla bellezza del mondo.
Qui ogni cosa si fa chiara e naturale: i dubbi si acquietano, i pensieri si distendono, le domande trovano appagamento. Tutto è come dev'essere.
E la vocazione degli enti, tutti - dal più grande al più piccolo, dalla farfalla variopinta che ondeggia lieve sull'erba, alla mente umana che s'immerge nei più ardui problemi filosofici, e s'interroga incessantemente e si strugge e si tormenta per cercar di capire -  è solo e unicamente questa: farsi unità con l'Essere.
Decido di non proseguire, almeno per oggi.
Ho visto abbastanza; ho trovato quel che cercavo.
Non desidero arrampicarmi fino all'ingresso di quelle cavità; non ora, almeno. Quel che esse avevano da dirmi, me l'hanno detto; e insieme ad esse la rugiada, gli alberi, il cielo, le nuvole, il sole, l'aria, il canto festoso degli uccelli.
Nessun imperatore ha mai ricevuto accoglienza più fastosa, al ritorno da un lungo viaggio in terre esotiche o da una guerra difficile, ma vittoriosa, da parte del suo popolo fedele; nessun malato, dopo un lungo soffrire, è mai stato abbracciato con tanto trasporto dalla salute ritrovata.
Sì, credo si tratti proprio di questo: comprendere che l'ascolto è più importante della parola; che vedere è più necessario che guardare; che farsi piccoli è il solo modo per divenire grandi; che abbandonarsi fiduciosi alla solitudine è la condizione necessaria per ritrovare se stessi - e, al tempo stesso, anche tutto il resto.
Si ritrova ogni cosa, quando si è disposti a perderla: non perché si sia disposti a gettarla via in uno stupido gioco, ma perché si è compreso che il valore profondo che riveste non sta in lei, ma nel coraggio virile con il quale ci accostiamo ad essa, e nella infinita delicatezza con la quale ne sappiamo rispettare il mistero.