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L'incubo di Darwin

di Roberta Ronconi - 12/03/2006

Fonte: liberazione.it

 

 


Arriva finalmente anche in Italia il documentario che ha sconvolto già Europa e America
Tanzania: un pesce “occidentale” s’è mangiato tutto e ha lasciato la fame


Vi piacciono quei bei filetti di pesce bianco, persico o simil merluzzo, che troviamo già pronti per l’uso e a buon prezzo nei reparti surgelati dei supermarket? Chi non compra qualche bastoncino già panato per il piccolo, che mangia il pescetto solo così, o un bel trancio spinato per la nonna che non ha più denti, ma almeno così si nutre? Bene, se per caso siete curiosi di sapere da dove arriva quella carne candida e ricca di proteine, questa sera andate al cinema a vedere L’incubo di Darwin. Scoprirete diverse cosette interessanti. E, se siete sensibili o dal cuore tenero, vomiterete fino all’ultimo bastoncino ingurgitato quest’anno.

L’incubo di Darwin, documentario firmato da Hubert Sauper (un figlio del Tirolo che da dieci anni vive a Parigi) da oggi finalmente anche nelle sale italiane grazie alla distribuzione Mikado, ha il titolo di un horror e anche il soggetto di un horror. Invece non fa altro che documentare la realtà. Di qualcun altro, ma sempre realtà. E poi di qualcun altro fino a un certo punto. Di fatto si tratta di una storia che ci coinvolge tutti. Ad essere precisi, noi (europei, occidentali, ricchi) siamo i co-protagonisti, nella parte dei cattivi. Loro (africani, affamati) sono i poveri e nemmeno troppo buoni, non ne hanno le forze.

La storia del documentario
L’incubo di Darwin inizia all’aeroporto di Mwanza, Tanzania. Il centro di controllo consiste di una stanza con i vetri in plastica e un addetto al radar che passa più tempo ad ammazzare le mosche che a parlare per radio con i piloti. Del resto, non ha molti mezzi a disposizione. Accanto alla scrivania, una specie di lampada da campeggio che punta lui a mano sulla pista: luce verde quando si può atterrare e luce rossa quando non si può. Sempre che nel frattempo non sia occupato con una mosca o una zanzara.

Eppure questo aeroporto è il cuore di un traffico tutt’altro che secondario. Vi fanno scalo giornalmente un numero consistente di Ilyushin, Dc-8 e Boeing 737, modelli vecchi ma adatti allo scopo. Devono caricare tonnellate di pesce persico già pulito e filettato e portarle negli scali europei.

Questo persico però non è un pesce come un altro. Pescato nel lago Vittoria (vi ricordate la geografia studiata a scuola? Si tratta del terzo lago più grande e ricco del mondo. Una volta) è apparso in quelle acque solo alla fine degli anni Sessanta, prima non c’era. Sembra ce lo abbia portato un non identificato signore impiegato di un non identificato laboratorio. Fatto sta che, nel giro di qualche anno flora e fauna locali erano completamente sparite, a favore esclusivo di questo strano persico gigante dall’appetito famelico. Essendo il più forte (potenza del laboratorio e della legge di Darwin) è riuscito a distruggere tutti gli altri esseri viventi, mangiandoli o facendoli a pezzi. Oggi il lago Vittoria è un deserto d’acqua, altamente inquinato (l’unica cosa che i persici non mangiano è la plastica e i rifiuti della pesca) e abitato da questa sorta di mostri marini che nel frattempo hanno raggiunto dimensioni davvero inusuali. E fin qui, stiamo parlando di danni ambientali.

Si dà il caso però che prima dell’arrivo del signore con il suo persico di laboratorio, i pesci del lago Vittoria fossero una delle poche ma rigogliose risorse di sostentamento della zona. Ora invece le popolazioni locali non hanno più nulla da mangiare. Perché i filetti di persico sono prodotti ad esclusivo uso dei mercati occidentali. Agli abitanti della Tanzania (il lago Vittoria rappresenta il 25 per cento delle risorse interne) vengono generosamente lasciate le lische dei pesci. Tante lische, montagne di lische che restano accatastate al sole a riempirsi di vermi e di fango fino a che qualche camioncino arrugginito non viene a prenderle per portarle nei mercati interni. Dove restano per altri giorni e altri vermi ad aspettare che i morti di fame indigeni trovino qualche shilling per comprarseli. Ma non c’è da preoccuparsi per l’igiene alimentare. Prima della vendita, le lische vengono risciacquate nell’ammoniaca, così i vermi muoiono. Chi arriva a mangiare quei resti avrà l’impressione di calmare i morsi della fame, con qualche strana ripercussione sullo stomaco, a cui l’ammoniaca non fa benissimo. I venditori al mercato si sentono però molto fortunati, perché possono scegliere per sé e la famigllia le lische migliori, anche se ogni tanto perdono un occhio per via delle esalazioni infernali dei “disinfettanti”. Bisogna dire che, oltre alle lische, gli abitanti del centro Tanzania usufruiscono anche di molti aiuti umanitari. L’occidente non li lascia certo a mani vuote... In cambio dei filetti di persico, l’Europa, la Russia e l’America riforniscono la regione di ciò di cui - secondo i loro raffinati studi - ha più bisogno: tante, tante armi. Che non si mangiano, ma ammazzano il nemico.

Non che i paesi africani abbiano fatto esplicita richiesta di armamenti, ma visto che l’Occidente li produce a qualcuno dovranno pur venderli. Angola, Congo, Rwanda, Burundi, regioni che con tutte quelle armi in circolazione non hanno trovato di meglio che farsi la guerra. Del resto, i militari sono gli unici che riescono a mettere qualcosa sotto i denti e allora da quelle parti il sogno di ogni padre è far arruolare i propri figli nei rispettivi eserciti.

Ma chi le porta queste armi? Se ci pensate un attimo, la risposta non è difficile. Vi ricordate di quegli Ilyushin e Dc-8 e Boeing 737 che arrivano a Mwanza per caricare il pesce? Bene, visto che a guidarli sono principalmente equipaggi di russi che non hanno tempo da perdere e amano ottimizzare, invece di arrivare con i cargo vuoti all’andata, li riempiono con le casse del miglior offerente: i produttori di armi. Arrivano a Mwanza, scaricano le armi e caricano il pesce persico. Come racconta un pilota russo che nell’ultimo viaggio ha portato fucili in Angola ed è tornato in Europa con l’uva di Johannesburg. Era natale, e così: «i bambini europei il 25 dicembre mangiano frutta, i bambini angolani si sparano in testa». Nelle poche ore di riposo tra uno scarico e un carico i piloti se ne vanno con le prostitute locali. Donne di ogni età che non hanno esattamente scelto di fare quella professione. Semplicemente non hanno altra risorsa per campare loro, le loro famiglie e i loro figli. I piloti (russi, ma non solo) le fanno mangiare, bere, fumare e poi le scopano. Quando va bene. Quando va meno bene, le ammazzano. Come è successo a Eliza, colpevole di aver detto qualche “no” di troppo.

I bambini, invece, se un giorno non riescono ad impossessarsi di una lisca trovano un altro modo per far “passare la nottata”. Basta rubare qualche contenitore di plastica, di quelli con cui in fabbrica imballano il pesce da esportare. Lo mettono sul fornello, lo fanno squagliare e poi se lo mangiano bello filante. Ottenendo così un doppio risultato: riempiono la pancia, anche se di plastica, e si avvelenano. Non tanto da morire, no, non subito almeno. Ma abbastanza per cadere in una sorta di catalessi, una narcosi che li fa dormire tanto pesantemente da non sentire la fame e da essere sodomizzati da uomini di passaggio senza nemmeno risvegliarsi.

Vi sembra un film dell’orrore? Vi sembrano una serie assurda di esagerazioni? E’ un modo come un altro per evitare la vergogna e il senso di colpa. Padroni di pensarlo, dunque. Ma sappiate che invece è tutto vero, tutto documentato. Da oggi in sala L’incubo di Darwin.