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Dalla Fiat alla crisi

di Giovanni Petrosillo - 07/05/2009

Quest’oggi vorrei proporvi due articoli molto interessanti, il primo tratto da Il Giornale, a firma di Nicola Porro ed il secondo dal blog di Marcello Foa.

Porro, con un’analisi schiettamente economica, mette in evidenza come, in realtà, nell’affaire Fiat-Chrysler, non sia in atto alcuna scalata da parte dell’azienda torinese; anzi, alla fine dell’operazione, ribattezzata da alcuni “alla riconquista dell’America”, il Tesoro americano e la Exor, cassaforte degli Agnelli, avranno le stesse quote azionarie e gli stessi diritti di definire le sorti del neonato gigante automobilistico. La differenza, rispetto al passato sta però in questo: “La nuova Fiat Auto diventerebbe una vera public company, con piccoli azionisti sparsi per il mondo e due azionisti di riferimento italo-americani. Insomma, Marchionne sarebbe ancora più svincolato dalla «famiglia» di quanto lo sia già oggi…(svincolato dalla “sacra” famiglia degli Agnelli ma forse più legato ai rapaci “condor” americani)… La forza di un manager che non risponda a un’azionista forte e a una politica nazionale è quella di operare tagli e ristrutturazioni che una società domestica non sarebbe in grado di fare. Touchè! Gli operai della Fiat si aspettino pure un futuro di lacrime e sangue all'insegna dell'italianità ritrovata. 

Per quanto riguarda invece il pezzo di Foa, costui sembra essere l’unico giornalista immunite ai discorsi ideologici delle autorità finanziarie e istituzionali, le quali si affannano quotidianamente a dimostrare  che il peggio è ormai alle spalle. Così, mentre tutti i dati indicano che la buriana è ancora in corso, fior di analisti e di politici straparlano di ripresa e di rinsaldamento dei mercati già a partire dal 2010. Per Foa, le cose non stanno affatto come ci vengono descritte e questa crisi può essere rappresentata come “una L con la gobba ovvero caduta verticale, economia piatta con un breve periodo di crescita azionaria provocato non da uno sviluppo reale (e sano), dati reali ma da aspettative irrealistiche (alimentate ad arte), che si esaurirà riportando il barometro della crescita attorno allo zero”. Insomma, scenari tutt'altro che rassicuranti

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Al ciak di «Gran Torino» la famiglia Agnelli si sfila dal mondo dell’auto
di Nicola Porro (Fonte il Giornale)

Nascerebbe una «public company». Exor scenderebbe al 12-17%, come i grandi soci Usa, tagliando il peso del Lingotto sui conti

Ci sono dei momenti magici per cui un manager si trasforma in Mandrake. Riesce a fare di tutto e di più. C’è un’onda di consenso generalizzato. Un’aura che si trasmette con la velocità della luce. Le agenzie di stampa battono notizie altrimenti irrilevanti: ore 15.15, Sergio Marchionne in volo per Detroit. Le foto raccontano più di un articolo: la evidentemente rapida discesa da una Maserati per parlare con un principe bavarese che da qualche mese si occupa dell’economia tedesca. Il presidente della «fichizia globale» Obama che lo porta ad esempio.


Insomma, con Fiat e Marchionne stiamo vivendo una di quelle bolle manageriali che capitano raramente dalle nostre parti. L’ultima escalation fu forse quella di Alessandro Magno, inteso come Profumo, che conquistava le banche europee a suon di scalate. Se c’è una cosa che insegnano questi magic moments manageriali è che non sono figli solo di un tocco fortunato. Non si tratta di un double up di un pokerista con poche fiches sul tavolo. O il put imbucato da venti metri da un golfista dilettante. C’è un disegno.
In queste ore seguiamo l’evolversi della trattativa con Gm Europe (in buona sostanza Opel) con il passo della cronaca finanziaria e industriale. A poche ore dal colpaccio americano che ha portato alla conquista di Chrysler Marchionne ha detto che l’obiettivo è semplice: non più di cinque o sei produttori di auto resteranno al mondo. E siccome Fiat vuol resistere, si deve dar da fare. Benissimo. Ma cosa comporti questo per Fiat si perde di vista. La prima evidenza è che la famiglia Agnelli riuscirà con eleganza a uscire progressivamente dal settore auto. Si tratta ovviamente di un’esagerazione. Ma poi non così forte. Se la fusione con Opel dovesse andare in porto, il controllo di Torino sull’auto globale verrebbe molto ridimensionato. Oggi ha circa un terzo del capitale. Domani rischia (si fa per dire) di scendere intorno al 15%. E per gli Agnelli non è un male. Oggi la famiglia investe attraverso una società che si chiama Exor. Il 44% del valore di Exor dipende proprio dalle auto: un affare molto complesso, con margini ridotti e con la seccante prerogativa di aver cumulato perdite in dieci anni di un miliardo di euro, nonostante la cura di Marchionne degli ultimi cinque. E il mercato tutto ciò lo sa bene. Exor vale la metà degli attivi che ha in bilancio. In poche parole, la sua dipendenza dall’auto la penalizza, così come riduce le cedole che la finanziaria ogni anno deve staccare alla famiglia. Meno esposizione all’auto per gli Agnelli, anche se in prospettiva, è un buon risultato. Soprattutto se si può ottenere non annunciando una vendita, ma piuttosto una serie di acquisizioni.
Vi è un secondo aspetto collegato. Sempre nell’ipotesi di successo in Germania (o nel piano B, che dovrebbe riguardare la Francia), il ruolo di Marchionne cambierebbe. La Exor degli Agnelli avrebbe una quota tra il 10 e il 15% del nuovo grande gruppo automobilistico. Ma su livelli simili si posizionerebbe il Tesoro americano. Lo stesso che ha una quota importante di Chrysler e di Gm, attuale proprietaria di Opel. La nuova Fiat Auto diventerebbe una vera public company, con piccoli azionisti sparsi per il mondo e due azionisti di riferimento italo-americani. Insomma, Marchionne sarebbe ancora più svincolato dalla «famiglia» di quanto lo sia già oggi. Non proprio un manager senza padroni, ma poco ci manca. Sempre che per padrone non si intenda il mercato.
E arriviamo così al terzo pilastro del disegno di Marchionne. La concentrazione dei produttori di auto ha solo un senso economico. Oggi esiste una capacità produttiva di auto in eccesso: troppe fabbriche, troppi dipendenti, in troppi luoghi, per troppi marchi che non riescono a differenziarsi a sufficienza. La forza di un grande gruppo multinazionale a guida manageriale non può che essere quella di razionalizzare questo mercato. Il paradosso è che la politica (gli aiuti in Germania e Obama in America) sta armando l’arma per rivoluzionare un’industria ormai matura. La forza di un manager che non risponda a un’azionista forte e a una politica nazionale è quella di operare tagli e ristrutturazioni che una società domestica non sarebbe in grado di fare.

 

 

Una crisi a “L” con la gobba? di M. Foa

Continuo a credere che il recente rialzo di Borsa non sia l’inizio di una fase di crescita; bensì la conseguenza delle manovre messe in atto lo scorso mese (vedi il post del 14 aprile). Tuttavia non posso non chiedermi - come, immagino, molti di voi - se non sia io a sbagliarmi; ma più leggo articoli e più non riesco a capire le ragioni dell’ottimismo, che a tratti sfocia nell’euforia. Su dieci notizie otto sono pesantemente negative. Ci dicono che il sistema bancario è sulla via del risanamento, ma si dimentica di dire che l’evaporazione (apparente) dei debiti è dovuta solo alle nuove, truffaldine regole contabili, che permettono alle banche di valutare a proprio piacimento - anzichè a valori di mercato - gli asset tossici.

I numeri indicano una realtà diversa: i debiti tossici ammonterebbero a oltre 4mila miliardi di dollari, di cui circa duemila solo negli Stati Uniti, dove sono già fallite 32 banche di piccole e medie dimensioni. E lo stress test, i cui risultati sono attesi a ore, dovrebbe indicare, nonostante sia scarsamente attendibile perchè falsato all’origine, che almeno dieci banche vanno ricapitalizzate. La situazione reale pertanto è molto peggiore.

Ogni settimana la Federal Reserve annuncia l’acquisto di Buoni del Tesoro per centinaia di miliardi di dollari, segno che la domanda è insufficiente a coprire l’offerta, e ciò conferma che i cinesi stanno riducendo i propri investimenti in valuta Usa. E con quali soldi li paga la Fed? Con i propri ovvero stampando moneta: ma la storia insegna che un’economia in queste condizioni è tutt’altro che sana e prima o poi il conto va pagato.

Inoltre: le previsioni per il 2009 indicano un crollo del Pil (in Europa di circa il 4%, molto peggio del previsto) e per il 2010 una crescita del 0,10% (molto inferiore rispetto a quella preventivata); e cifre analoghe sono annunciate per gli Stati Uniti. Sono pronto a ricredermi e chiedo ai lettori di questo blog: c’è qualcuno che sa dirmi dove sono i segnali di ripresa di cui tutti parlano?

Analizzando i dati ho l’impressione che lo scenario più probabile sia quello di una L con la gobba ovvero caduta verticale, economia piatta con un breve periodo di crescita azionaria provocato non da uno sviluppo reale (e sano), dati reali ma da aspettative irrealistiche (alimentate ad arte), che si esaurirà riportando il barometro della crescita attorno allo zero. Sbaglio? Ditemi di sì, vi prego….