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E' la Cina la nuova potenza imperialista in Africa?

di Lucien van der Walt e Michael Schmidt - 01/06/2009





Il giro per l'Africa del premier cinese Wen Jiabao nel 2005 ebbe come scopo principale lo sviluppo di rapporti commerciali tra la Cina ed i paesi africani ed arabi e segna un importante fenomeno recente.

I rivoluzionari dell'Africa anglofona hanno sempre visto la Gran Bretagna e la Francia come le potenze imperialiste dominanti nel continente africano, ma altre forze stanno emergendo dall'ombra per sfidare la continuazione del potere post-coloniale anglo-francese; e non si tratta solo degli Stati Uniti.

I comunisti anarchici dell'Africa meridionale hanno sempre considerato la ex-colonia inglese del Sud Africa come una potenza sub-imperialista che agisce nella regione per conto delle grandi potenze capitaliste e della propria classe dirigente capitalista, una sorta di guardiano regionale: infatti, se gli interessi britannici nello Swaziland fossero minacciati dal movimento per la democrazia, siamo certi che il Sud Africa interverrebbe militarmente (come già successo per il Lesotho nel 1998) per sostenere l'élite swazi.

Ma la scena internazionale sta oggi cambiando e dobbiamo registrare la crescita della Repubblica Popolare Cinese come una delle maggiori potenze dirigenti in Africa, sia sostenendo il regime sanguinario di Khartoum, sia finanziando progetti su vasta scala come il nuovo aeroporto di Luanda (in cambio di 10.000 barili di greggio al giorno) o il Number One Stadium di Kinshasa, una città che con la gigantesca statua d'oro del grasso e Mao-forme Laurent-Desire Kabila sembra più una città sul fiume Yangtze che sul fiume Congo (la somiglianza tra la bandiera della Repubblica Democratica del Congo e quella della RPC, prima dell'adozione della nuova bandiera quest'anno, è stato più che ovvia).

CAPITALISMO DI STATO

A differenza della vecchia Unione Sovietica, la Cina è riuscita a gestire una vincente transizione dal chiuso capitalismo di Stato dell'era maoista verso un modello neoliberista basato sulle esportazioni. La sua rapida crescita economica e le merci a basso prezzo - sotto la supervisione del Partito Comunista Cinese, (PCC) - proiettano il paese ai vertici della produzione manifatturiera mondiale, sovrastando gli USA, entro il 2010.

Questa esplosione capitalista è stata costruita grazie ad una brutale soppressione della classe operaia ed agricola. Gli scioperi sono illegali, i dissidenti vengono uccisi, il primo 20% dei proprietari di casa incamera il 42% della ricchezza urbana, mentre il 20% più povero incamera solo il 6%.

C'è stata una forte acutizzazione della lotta di classe, con gli scioperi che sono saliti da 8.150 nel 1992 a 120.000 in 1999. Nell'aprile dello scorso anno, gli abitanti del villaggio di Huaxi, nella provincia di Zhejiang, si sono scontrati con la polizia e le autorità locali in uno scontro corpo a corpo, cacciandoli via. In dicembre, centinaia di contadini armati di dinamite e bombe-molotov hanno attaccato la polizia a Dongzhou, nella provincia del Guandong, dopo che la polizia aveva ucciso 20 abitanti che avevano protestato contro il sequestro delle terre per costruire una centrale elettrica. Una fonte vicina al comitato centrale del PCC ha rivelato che nel corso del 2006 circa 3 milioni di lavoratori hanno partecipato a manifestazioni di protesta.

La Cina è un paese in cui il salario minimo mensile ufficiale è di 63 dollari (mentre in Vietnam è di $45 nelle campagne e di $55 nelle città, livelli conquistati nel 2006 grazie agli scioperi a gatto selvaggio dei lavoratori vietnamiti contro i loro padroni comunisti), che ha probabilmente il peggior dato di morti nelle miniere al mondo (l'agenzia ufficiale Xhinhua News Agency conta in 5.986 i morti nelle sole miniere di carbone nel 2005, un fatto che ha spinto alcuni minatori armati di dinamite di attaccare i loro padroni), e che consente alle multinazionali dello sfruttamento come la Nike e la McDonalds di insediarsi in speciali "zone economiche di esclusione".

Mentre il terrore e la repressione alimentano l'economia cinese, la classe capitalista a capo del paese cerca fuori dai confini lavoro, materie prime e forniture di carburanti, tutti a buon mercato. L'Africa, economicamente emarginata dalla crisi economica mondiale iniziata negli anni '70, è diventata rapidamente un'area "calda". Nel 2005, l'economia complessiva del continente è cresciuta del 5% - la più veloce dopo decenni - in seguito all'esplosione della domanda per le materie prime africane, con in testa la Cina. Se gli anni '80 e '90 avevano visto il crollo degli investimenti in Africa, fino a meno dell'1% degli investimenti privati nei paesi del "terzo mondo" nel 1995, ora i capitalisti cinesi (e sudafricani) hanno rapidamente colmato il vuoto ed invertito la tendenza.

LA CINA IN AFRICA

La Cina aveva già rapporti economici clandestini con il Sud Africa dell'apartheid, nonostante aiutasse i movimenti di liberazione nel paese ed in quelli vicini come lo Zimbabwe. Le relazioni formali tra i due paesi sono state ristabilite nel 1998.

Secondo Martin Davies, direttore del Centro Studi Cinesi presso la Stellenbosch University (ed uomo d'affari con interessi a Shanghai), lo scambio commerciale tra Cina e Sud Africa nel 2006 ha toccato i 35 milioni di dollari, con gli investimenti cinesi mirati soprattutto sull'industria petrolifera, specialmente in Nigeria, Angola, Sudan e Guinea Equatoriale.

Le severe condizioni di questi paesi non turbano affatto la dittatura cinese: che si tratti della totale mancanza di democrazia nella Guinea Equatoriale, della guerra razzista alimentato dallo Stato in Sudan, o del fatto che i clamorosi furti dei proventi del petrolio da parte delle cricche al potere in Angola e Nigeria hanno alimentato i conflitti, con l'UNITA ed il Movimento per l'Emancipazione del Delta del Niger (MEND), rispettivamente alla ricerca di riprendersi una fetta della torta.

Per cui non c'è da sorprendersi se erano di fabbricazione cinese gli elicotteri da guerra usati contro i civili nel Darfur, come sostengono gli attivisti per i diritti umani. La Cina - che mantiene una postazione di ascolto elettronico nelle Comore - ha dato al Sudan massicci aiuti militari tra il 1996 ed il 2003, compresi velivoli da guerra, ha inviato tonnellate di armi all'Etiopia ed all'Eritrea prima della conflitto sui rispettivi confini nel 1998, ed ha venduto al regime dello Zimbabwe velivoli da guerra ed equipaggiamenti radio (per impedire l'ascolto di trasmissioni radio estere all'interno dei suoi confini).

Nel continente africano si gioca una partita per il controllo dei mercati e soprattutto per lo sfruttamento delle risorse naturali che di recente ha visto l'ingresso di un nuovo concorrente imperialista impegnato a fare le scarpe al dominio delle ex potenze coloniali Francia e Gran Bretagna, già messo in discussione nell'ultimo decennio dalla penetrazione degli Usa: è la Cina di Hu Jintao. Una presenza ufficializzata lo scorso 12 gennaio, al ricevimento offerto a Pechino dal ministero degli esteri ai rappresentanti diplomatici africani, con la presentazione di un documento dal titolo La politica della Cina in Africa dove si afferma la volontà del gigante fascista e revisionista cinese di costruire "un nuovo modello di partecipazione strategica" con i paesi africani.
Il ricevimento era stato convocato in occasione del cinquantesimo anniversario dell'apertura delle prime relazioni diplomatiche tra la Repubblica popolare cinese e un paese africano, l'Egitto di Nasser impegnato tra l'altro a affermare la sovranità del suo paese sul canale di Suez. E in apertura il documento si richiama alle vicende della lotta anticoloniale che ha accomunato cinesi e africani. Solo che cinquant'anni fa era la Cina di Mao che ricercava relazioni di reciproca convenienza e sosteneva le lotte di liberazione e di affrancamento dal colonialismo dei paesi africani.
Come ha scritto a commento del documento di Pechino un giornalista della Sierra Leone, "allora la Cina finanziava progetti come la ferrovia fra lo Zambia e la Tanzania per aiutare i paesi africani a sottrarsi all'influenza russa e occidentale, oggi è solo business e senza andare tanto per il sottile".
La strategia delineata dal documento presenta cioè un "nuovo modello di partnership" che non è affatto una normale evoluzione di decenni di relazioni tra la Cina e i paesi africani, come vorrebbe contrabbandarla la cricca di Pechino, ma la conferma della politica di una Cina capitalista lanciata sui mercati e sulle fonti di materie prime per affermare il suo ruolo di potenza imperialista globale. Una politica sviluppata anche in Africa, terra da sempre preda del colonialismo e dell'imperialismo. Che non ha certamente atteso la pubblicazione del documento per segnare i primi importanti passi.
Tra il 2002 e il 2003 il commercio cino-africano è aumentato del 50%, nel 2004 è cresciuto di ancora un 60%. Gli scambi commerciali sono arrivati a circa 30 miliardi di dollari l'anno mentre nell'Africa centrale e occidentale la Cina ha superato in volume d'affari quelli di Gran Bretagna e Usa piazzandosi al secondo posto dietro la Francia. Sono circa 700 le compagnie cinesi impegnate in attività nel continente africano, in settori che vanno dallo sfruttamento delle risorse naturali al turismo, dai servizi alle infrastrutture; le multinazionali cinesi hanno investito 270 milioni di dollari per il nuovo complesso turistico a Freetown in Sierra Leone, 100 milioni di dollari per le infrastrutture e l'estrazione del rame nello Zambia, 600 milioni di dollari per un progetto idroelettrico nello Zimbabwe dove hanno anche conquistato il controllo di un operatore di telefonia mobile, sono presenti in quasi tutte le opere edili dei paesi del Golfo di Guinea.
Particolare attenzione le multinazionali cinesi hanno rivolto verso il settore petrolifero, per le sempre maggiori necessità di approvvigionamento dettate dalla crescita economica del paese. La Cina è il primo compratore del petrolio sudanese, che già copre il 12% delle importazioni di Pechino, e dell'Angola; gli idrocarburi africani coprono complessivamente più del 30% dell'approvvigionamento di Pechino. La China national petroleum corporation ha investito un miliardo di dollari per costruire una grande raffineria a Khartoum, in Sudan; società cinesi hanno comprato per più di 2 miliardi di dollari un'importante partecipazione in un giacimento petrolifero in Nigeria e avviato ricerche in Mauritania. A pestare i piedi al concorrente imperialismo americano che considera le stesse zone strategiche per diversificare i propri acquisti di greggio.
La strategia della Cina imperialista in Africa prevede nuovi accordi commerciali bilaterali o con organizzazioni regionali per garantire la fornitura di materie prime ma non riguarda esclusivamente i settori economici. Pechino offre in cambio la ricerca di "posizioni comuni sulle principali questioni internazionali e regionali", leggi protezioni politiche, e l'intenzione "di portare avanti attivamente cooperazione e scambi tecnologici che riguardano la sfera militare". Una politica imperialista a tutto tondo.