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La vocazione atlantica della FIAT

di Gianfranco La Grassa - Gianni Petrosillo - 10/06/2009


Vorremmo portare alla vostra attenzione questo interessante contributo di Giulio
Sapelli, storico dell’economia e professore alla Statale di Milano. Ci permettiamo di
segnalare questo articolo perché ne condividiamo l’approccio geopolitico, soprattutto
in riferimento alle questioni economiche, mentre siamo in totale dissenso con l’autore
nel merito delle valutazioni e dei giudizi di valore circa il ruolo della Fiat in questo
periodo storico. Sapelli coglie un punto essenziale, ovverosia il ruolo atlantico della
Fiat, ma se per noi si tratta di quanto di più deleterio possa esserci per gli interessi del
Paese, per costui è invece un punto di forza che, consolidandosi, favorirà l’Italia sullo
scacchiere dei rapporti di forza mondiali.
Sapelli mette, inoltre, ben in evidenza in che ordine di gerarchia stanno tra loro
problemi politici ed economici, azioni geostrategiche delle potenze e perseguimento
degli interessi di mercato delle stesse, in una fase di profonda ridefinizione della
morfologia geopolitica del mondo.
Il caso dell’acquisizione di Chrysler, da parte di Fiat, avviene, come giustamente
rimarca Sapelli, in un nuovo scenario geostrategico che rappresenta la base reale sulla
quale le varie dispute economiche hanno acquisito un diverso significato. Il legame
tra le due aziende diventa allora determinante laddove gli Usa vogliono continuare a
giocare un ruolo egemonico in Europa. Essi lo fanno attraverso un approccio
strategico multiforme, utilizzando una trama di rapporti economici per legare a sé
alcuni paesi (soprattutto attraverso accordi industriali e commerciali) che
costituiscono il ventre molle del Vecchio Continente. Dice esplicitamente l’autore: “Il
nuovo scenario é quello disegnato dalla necessità di controllare, da parte della
potenza leader mondiale, gli Usa, tanto le fonti di energia e le sorgenti d’acqua e le
riserve minerarie, quanto le cattedrali del terrorismo e i conflitti tra stati ad alta
sensibilità conflittuale. E, infine, sempre più prevarrà la necessità di contendere il
terreno del potere mondiale a una Cina sempre più invadente e aggressiva. Ma tutto
ciò ripropone su altre basi il conflitto di potenza che abbiamo visto dispiegato
durante quel quarantennio di pace totale nucleare e di guerre locali, non per questo
meno cariche di lutti, che fu la guerra fredda. La guerra ora continua con altri mezzi
nell'intreccio tra politica ed economia a livello statuale.
L'Italia è ancora lo spazio nazionale forse più sensibile, tra i teatri mondiali di tutto
l’Occidente, in cui questa nuovo confronto si dipana, per il suo porsi tra mondo slavo
e mondo islamico al centro del Mediterraneo. La politica di potenza in Italia si è
sempre esercitata con un profondo intreccio tra proprietà dell’impresa,
perseguimento dei fini economici del1’impresa stessa e collegamenti internazionali
che quei fini consentono”.
Due riflessioni si impongono a questo punto. In primo luogo, dato lo sfondo
geopolitico descritto da Sapelli, è evidente che gli Stati Uniti, per mantenere la
propria egemonia di potenza leader, devono attuare una strategia a più sbocchi, a
seconda dei contesti in cui si trovano ad operare. Stiamo parlando di differenti tasselli
ma che compongono un unico puzzle di dominanza. In Europa, dove il
condizionamento politico e militare non può che essere più attenuato, si deve
procedere sulla antica strada della dipendenza economica, mentre, in altri contesti
meno stabilizzati, oltre a quest’ultima rotta, è possibile esercitare un controllo diretto
sulle strutture statali paventando l’uso della forza militare se non il suo diretto
impiego.
Per rendere efficienti queste strategie, il controllo delle fonti di approvvigionamento e
delle materie prime diviene di grande importanza ma è proprio su questo terreno che
nascono gli attriti maggiori tra Usa e potenze concorrenti (in recupero di potenza).
Tanto detto, non è solo questione di controllare le vie energetiche ma anche di
ostacolare, attraverso mosse preventive, la possibilità per altri attori geopolitici di
rafforzarsi contro gli Usa. Le frizioni nascono pertanto in diverse aree, alcune
secondarie altre principali. Se è possibile ammettere, da parte americana, qualche
leggero indietreggiamento in Africa (dove la Cina ha attivato una penetrazione
gagnant-gagnant, almeno sulla carta, con alcuni stati africani ricchi in risorse
minerarie) o accettare temporaneamente i sussulti autonomisti dell’America Latina
(Venezuela, Bolivia ecc.ecc.) non è indicato far smottare la propria strategia in Asia e
in Medio-Oriente, dove sono radicati i diretti antagonisti statunitensi di questa fase
multipolare (Cina e Russia). Sotto questo aspetto, l’Europa ha ancora una importanza
vitale per gli Usa perché costituisce una zona cuscinetto e un ponte naturale verso
questa parte di mondo in ribollimento. Un’Europa debole e subordinata impedisce
alla Russia di stringere quelle alleanze necessarie a dar consistenza ad un blocco
egemonico continentale, mentre la stessa si trova pure a dover fare i conti con l’infido
estero vicino, finito nell’orbita di Washington dopo la dissoluzione dell’URSS.
L’Italia, come dicevamo, è il vero ventre molle dell’Europa, pertanto rappresenta uno
snodo cruciale per la realizzazione dei programmi americani, e per due ordini di
ragioni: 1. la sua vicinanza al mediterraneo (dove ultimamente i Russi si stanno
dirigendo, anche per il tramite dell’ENI, al fine di rafforzare il loro mercato del gas)
2. essa può svolgere, meglio di chiunque altro (a causa di un’atavica debolezza
sistemica), quel ruolo di “trappola geopolitica”, potendo altresì favorire l’insinuarsi in
tutta Europa di un virus antirusso col quale mandare all’aria eventuali partnership
russo-europee (è il caso dei rinnovati rapporti di intesa tra settori socialdemocratici
tedeschi ed establishment putiniano, recentemente venuti ad evidenza con l’affare
Opel-Magna). Perciò Giulio Sapelli parla dell’Italia come “lo spazio nazionale forse
più sensibile, tra i teatri mondiali di tutto l’Occidente”. Infine, lo storico torinese fa
notare che in un paese come il nostro, dalle forti contraddizioni politiche ed
economiche, spesso la politica estera è stata condizionata e direzionata proprio dalle
grandi imprese (si pensi all’ENI): “La politica di potenza in Italia si è sempre
esercitata con un profondo intreccio tra proprietà dell’impresa, perseguimento dei fini
economici del1’impresa stessa e collegamenti internazionali che quei fini
consentono”.
A nostro parere si tratta di un dato di debolezza che dovrebbe infine essere riorientato
a vantaggio dell’azione degli agenti della sfera politica, i quali hanno, generalmente
(ma non ancora nel nostro contesto politico nazionale), una visione d’insieme più
strategica in ambito geopolitico. Certo, in assenza di questi presupposti, ben vengano
le scelte aggressive sui mercati esteri messe in atto da Eni o Enel, che, in un certo
qual modo, anticipano e favoriscono decisive scelte di natura politica (grazie ad un
management lungimirante). Tuttavia, si è già visto con quale facilità queste azioni
possano essere ostacolate, laddove gli Stati non intervengono per preparare il terreno
politico agli accordi commerciali. Addirittura, può verificarsi che settori politici
interni, in combutta con lo straniero, facciano di tutto per depotenziare l’azione delle
imprese di punta, quelle che più intralciano i piani egemonici del Paese Centrale (gli
innumerevoli attacchi all’Eni, con i tentativi di scorporo della rete, ne sono l’esempio
più emblematico). Per concludere noi, contrariamente a ciò che dice Sapelli, ci
auguriamo che la Fiat sia rimessa in riga o annichilita per impedire che i suoi legami
antinazionali possano accrescere la subordinazione italiana al paese predominante.
*******
NOTIZIOLE a cura di GLG
<<<La Corte Suprema degli Usa sarà chiamata a esprimersi sull´intesa Fiat-
Chrysler. I creditori dissidenti rappresentati da tre fondi d´investimento dell´Indiana
hanno chiesto al massimo organo giudiziario degli Stati Uniti di fermare la vendita
degli asset buoni di Chrysler alla nuova società controllata per il 20% da Fiat
nell´ambito della procedura di bancarotta voluta dall´amministrazione Obama.>>>
Obama (cioè il governo centrale) si è mosso nel giro di poche ore, appellandosi
alla Corte Suprema affinché questa respingesse la richiesta dei Fondi (a rischio se
vengono venduti gli asset positivi della Chrysler alla società di “fusione” con la Fiat),
e adducendo gravi conseguenze per il “sistema” (del potere americano in Italia e UE);
evidentemente, il rischio di comuni cittadini non conta nella geostrategia “imperiale”
(pur condotta da “serpente” e non più da “tigre”) degli Usa. Ormai è chiaro come il
Sole: abbiamo in casa un sostenitore sfegatato della nostra dipendenza sempre
maggiore dagli Usa, la Fiat. Converrebbe dare tre anni di cassa integrazione (con le
debite aggiunte salariali per non perdere soldi) a tutti i lavoratori Fiat (con corsi di
riciclaggio e reinserimento altrove) e buttare fuori d’Italia questa azienda.
Si obietterà che c’è pure l’indotto. Certamente, ma si è fatta una battuta “a
spanne”. L’importante è capire che l’autonomia nostra non è uno sfizio
nazionalistico, bensì un modo di meglio resistere nel prossimo periodo multipolare, in
cui bisognerà giostrare nella fitta rete della competizione internazionale, per
null’affatto invece nell’ambito dell’immaginario “mercato globale” dei liberisti,
“esistente” soltanto in una situazione di monocentrismo (geopolitico) relativamente
regolato da un paese (e dunque un’economia) predominante. Nemmeno però ci si
deve limitare a salvataggi, a spese “pubbliche” per il sostegno della domanda, un
semplice palliativo momentaneo. Proprio perché, come ricorda anche Sapelli, l’Italia
non è certo una grande potenza, deve saper usare quella sua, soltanto media,
nell’ambito della complessa conflittualità – insisto: geopolitica, non meramente
economico-mercantile – che caratterizzerà la nuova fase storica. Un nemico interno
come la Fiat, al servizio di una sola delle grandi potenze (per quanto sia ancora la
maggiore, ma ormai non l’unica, e sempre meno lo sarà), deve essere, come minimo,
ridotta all’obbedienza da una forza politica conseguentemente nazionale (non
nazionalistica). E’ quest’ultima a mancare in Italia. E’ intanto quest’ultima che
dobbiamo richiedere. Lo si spiegherà sempre meglio perfino teoricamente.
N.B. Adesso spero si capisca anche perché si concede la bancarotta alla GM, pur
di rimettere in discussione l’accordo con la Magna per la vendita di Opel, che gli Usa
(aiutati in Germania dalla Merkel) vorrebbero dare alla Fiat; sempre per i motivi
appena visti. Abbiamo alla nostra testa (sinistra, destra, pressoché tutti salvo pochi ed
estremamente cauti, e quindi ambigui e deboli, oppositori) il nemico, quello che ci
vuole servi degli Stati Uniti. Affrancarci da tale servilismo, è bene ripeterlo sino alla
noia, non è questione di sola dignità (per quanto anche questa dovrebbe contare un
minimo), bensì di interesse nei “giochi conflittuali” del prossimo multipolarismo. Si
crede forse di difendere i lavoratori solo chiedendo che la Fiat non chiuda gli
stabilimenti? E continuando ad essere asserviti, con continui ostacoli e impedimenti
agli affari (ai grossi affari) verso est e verso sud, quali altri “stabilimenti”
chiuderanno? Si cerchi di rendersi conto di qual è il quadro complessivo, in cui vanno
inserite le giuste richieste dei lavoratori (tradunionistiche; e sia detto senza alcun
dispregio, solo per realismo politico). Accenno solo a quei dementi che giocano agli
antimperialisti, mettendo sullo stesso piano capitalismi come quello della Fiat e
quello dell’Eni. Non sono antimperialisti, ma volgari contraffattori che appoggiano il
nemico. Sono come il “tizio” che parla dell’Impero. Punto e basta.
*****
QUELLA VOCAZIONE ATLANTICA DI FIAT di Giulio Sapelli (Fonte Corriere
Economia)
Docente di Storia economica – Università Statale Milano
La storia dell’industria automobilistica nord americana muta irreversibilmente. La
Ford cerca un suo destino indipendente, nonostante la crisi; la General Motors
diviene sì l'emblema del cambiamento proprietario — dal mercato allo stato — su cui
a lungo ci interrogheremo, ma per ora, tuttavia, è posta sotto lo speciale regime Usa
della bancarotta, che concede alle imprese il diritto alla speranza di sopravvivere e di
trasformarsi. Il caso Chrysler è sotto gli occhi di tutti, tanto più in Italia, perché segna
la definitiva trasformazione degli assetti di proprietà tanto della grande impresa Usa,
quanto della più grande e storicamente rilevante impresa italiana: la Fiat. E ciò grazie
ancora all'azione decisiva dello stato nord americano.
Ma tutto questo avviene in un nuovo scenario geostrategico che è il vero ordito su cui
questa partita si gioca, come dimostra benissimo la vicenda Opel, sullo sfondo del
meccanismo unico che ormai lega l'economia tedesca e l'economia russa e che ha
reso impotenti gli Usa. Il nuovo scenario é quello disegnato dalla necessità di
controllare, da parte della potenza leader mondiale, gli Usa, tanto le fonti di energia e
le sorgenti d’acqua e le riserve minerarie, quanto le cattedrali del terrorismo e i
conflitti tra stati ad alta sensibilità conflittuale. E, infine, sempre più prevarrà la
necessità di contendere il terreno del potere mondiale a una Cina sempre più
invadente e aggressiva.
Ma tutto ciò ripropone su altre basi il conflitto di potenza che abbiamo visto
dispiegato durante quel quarantennio di pace totale nucleare e di guerre locali, non
per questo meno cariche di lutti, che fu la guerra fredda. La guerra ora continua con
altri mezzi nell'intreccio tra politica ed economia a livello statuale.
L'Italia è ancora lo spazio nazionale forse più sensibile, tra i teatri mondiali di tutto
l’Occidente, in cui questa nuovo confronto si dipana, per il suo porsi tra mondo slavo
e mondo islamico al centro del Mediterraneo. La politica di potenza in Italia si è
sempre esercitata con un profondo intreccio tra proprietà dell’impresa, perseguimento
dei fini economici del1’impresa stessa e collegamenti internazionali che quei fini
consentono.
Gli scontri essenziali per la riproducibilità del nostro capitalismo si sono sempre
consumati nel legame tra politica di potenza sopranazionale — nel nostro caso quella
degli Usa - e ruolo del potere industriale che quella rete di influenza doveva sostenere
in Italia, grazie alla potenza dell'impresa che più di ogni altro centro di potere ne
rappresentava i mezzi e i fini.
Ho già ricordato che il ruolo svolto dalla Fiat rispetto agli Usa è stato fondamentale a
questo riguardo e se non potesse continuare a esserlo gli Usa si troverebbero in una
situazione molto delicata, perché il sistema del potere in Italia si è molto consunto
rispetto a quello di quarant'anni or sono, quando questo rapporto fu essenziale per
disegnare la costituzione materiale del nostro paese. Allora le grandi imprese in Italia,
e quindi i grandi aggregati di potere, non si contavano sulle
dita di una sola mano, come oggi.
II potere industriale allo stato gassoso, così come si presenta invece oggi tramite le
medie imprese,
non può dare garanzie a una grande potenza, soprattutto quando si apre un confronto
su scala mondiale come quello che sta delineandosi nella post globalizzazione tra
Russia e Usa e tra Usa e Cina.
Di qui il ruolo strategico che in questa luce assumono i rapporti tra Fiat e Chrysler.
Essi sono essenziali per garantire il legame transatlantico impersonificato dalla Fiat,
il cui ruolo a questo proposito è sempre stato indispensabile per l'Italia e per gli Usa.
A questo pensavo in questi giorni quando leggevo le note di lutto dedicate alla
memoria di Susanna Agnelli (e il ricordo di Lupo Rattizzi apparso sul Carriere della
Sera), della quale é stato troppo poco sottolineato il ruolo delicatissimo che, con
grande finezza e senso istituzionale, svolse a questo proposito, quando fu un brillante
ed efficace Ministro degli Esteri. C’e solo da augurarsi che questo legame essenziale
tra Fiat e Usa possa continuare a manifestarsi. Se ciò non avvenisse le sorti
geostrategiche del nostro paese potrebbero essere poste a rischio.