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Iraq, Il conto alla rovescia finale

di Patrick Cockburn - 01/07/2009

La prossima settimana, le truppe Usa inizieranno a ritirarsi dall’Iraq. In che condizioni questo lascia gli abitanti del Paese, che ancora non si sono ripresi da decenni di guerra? A Baghdad, Patrick Cockburn trova una nazione alle prese con la siccità, un conflitto di natura confessionale, e la lotta per le ricchezze petrolifere


Il 30 giugno gli ultimi soldati statunitensi si ritireranno dalle città irachene. La grande avventura dell’America in Iraq volge al termine. Già a Baghdad ci sono poche pattuglie delle forze armate statunitensi. La Green Zone, la zona controllata dagli americani, per tanto tempo una città proibita al centro della capitale, si è ridotta di dimensioni. L’albergo che i tassisti Baghdad ingenuamente credevano fosse il quartier generale della CIA ha tolto i muri i cemento che lo proteggevano e ha riaperto al pubblico. Sapere che tutte le forze armate Usa saranno fuori dall’Iraq entro fine 2011 riduce immediatamente l’influenza americana nel Paese. Nessun iracheno vuole attaccare la propria bandiera all'albero di una nave che se ne sta andando - che è uno dei motivi per i quali Washington ha fatto resistenza per così tanto tempo alla definizione di un calendario per il ritiro delle truppe statunitensi.

Le forze americane si lasciano dietro un Paese che è un relitto che galleggia a malapena. La sua società, la sua economia, e il suo stesso paesaggio sono stati fatti a pezzi da 30 anni di guerra, sanzioni, e occupazione. Sono arrivato in Iraq per la prima volta nel 1977, quando il suo futuro sembrava roseo, ma risultò che mi trovavo nel Paese all'apice delle sue fortune, una marea che da allora è andata sempre rifluendo. Gli iracheni sono stati inghiottiti da disastri successivi: la guerra Iran-Iraq durata otto anni a partire dal 1980; la sconfitta in Kuwait nel 1991; le rivolte sciita e kurda schiacciate nel sangue lo stesso anno; le sanzioni delle Nazioni Unite equivalenti a un assedio lungo 13 anni che ha distrutto completamente l’economia e mandato in frantumi la società; l’invasione Usa del 2003; la guerra degli arabi sunniti contro l’occupazione statunitense nel 2003-7, e la guerra civile fra sunniti e sciiti nello stesso periodo.

Quanti altri Paesi al mondo hanno sopportato traumi di questo genere? Sorprende che gli iracheni ne siano così pesantemente segnati? Il governo iracheno annuncia con orgoglio che nel maggio 2009 sono morti per la violenza collegata alla guerra solo 225 iracheni, una cifra inferiore a quella che abbiamo visto in un qualsiasi mese da almeno quattro anni. Naturalmente è molto meglio dei 3.000 cadaveri torturati che venivano scoperti ogni mese al culmine della guerra confessionale nel 2006-7. Di questi tempi Baghdad è certamente un posto più sicuro di Mogadiscio, anche se forse non così sicuro come Kabul, dove la violenza, almeno per il momento, è sorprendentemente limitata. Tuttavia, a determinare gli atteggiamenti degli iracheni non sono unicamente o anche in primo luogo le cifre sulle vittime mensili o la situazione attuale della sicurezza. A modellare la loro psicologia individuale e il loro panorama politico collettivo è piuttosto il ricordo delle uccisioni di massa del passato recente e la paura che possano verificarsi di nuovo. L’Iraq è un Paese talmente inzuppato di sangue da rendere quasi impossibile il raggiungimento di un reale accordo politico fra sciiti e sunniti, arabi e kurdi, ba’athisti e non ba’athisti, sostenitori e oppositori dell’occupazione statunitense. "Come ci si può aspettare che persone che hanno troppa paura le une delle altre per vivere nella stessa strada raggiungano accordi politici?", chiede esasperato un amico iracheno.

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Oggi la gente a Baghdad oggi è meno tesa e impaurita rispetto a sei mesi fa, ma è tuttora guardinga e sospettosa. Continua a dire che ciò che è successo prima potrebbe succedere di nuovo. Probabilmente sbaglia, ma è impossibile per chiunque viva oggi a Baghdad, avendo provato in prima persona i massacri del passato recente, non vivere sotto la sua ombra.

Io provo la stessa circospezione quando vado nei ristoranti di Baghdad dove ero solito mangiare quattro o cinque anni fa. Già il fatto che possa farlo è un segno che la sicurezza è migliorata. Ma anche mangiare in un ristorante evoca ricordi di estrema violenza. C’è, ad esempio, un ristorante kurdo nel distretto di al-Mansur, che serve una bevanda astringente simile allo yogurt che a me piace. Ma trovo impossibile dimenticare che un paio d’anni fa una autobomba esplosa proprio all’esterno ne ha distrutto l’interno, uccidendo cinque o sei persone. Quando sono seduto nel ristorante “White Palace” mi ricordo che di solito ci andavo dopo essere passato a trovare un mio amico, un agente di borsa di nome Hussein Kubba, che mi raccontava storie divertenti, anche se un po' amare, su come i funzionari americani avessero assunto il controllo della Borsa di Baghdad e la stessero mandando a rotoli. In seguito è stato sequestrato, frustato selvaggiamente, e costretto a vendere casa sua per pagare il riscatto. Arrivando in macchina al mio albergo, l’“al-Hamra” nel distretto di Jadriya, do un’occhiata a un piccolo chiosco dove un vecchio vende sigarette. All’interno c’è una foto di un adolescente con capelli ricci scuri. E’ suo figlio, dal quale una volta compravo le sigarette. Ho smesso di fumare a fine 2003, e perciò per qualche mese non ho saputo che il ragazzo era stato ucciso in un attentato suicida che aveva come obiettivo l’ambasciata australiana dalla parte opposta della strada.

Nel mio albergo ricevo sempre una accoglienza calorosa dagli addetti alla reception, che nel corso degli anni sono stati invariabilmente amichevoli e disponibili. Uno di loro ha perso il figlio – il corpo non è mai stato ritrovato – quando il secondo edificio dell’hotel è stato semi-demolito da due kamikaze, uno dei quali aveva nel suo veicolo una bomba da 1.000 kg, nel 2005. Il figlio di un altro addetto alla reception lavorava raccogliendo soldi dai negozi per comprare gratta e vinci telefonici, che poi acquistava dalla compagnia telefonica a un prezzo all'ingrosso leggermente ridotto. Si sapeva che portava con sé grosse somme di denaro, una reputazione pericolosa a Baghdad, ed è stato sequestrato da alcuni uomini armati. Dopo averlo derubato di 40.000 dollari, gli hanno fatto chiamare il padre al telefono per chiedergli di andare in una certa piazza di Baghdad a prendere il figlio quando sarebbe stato rilasciato. Il padre c’è andato secondo le istruzioni, ha visto il figlio uscire dall’auto degli uomini armati, e poi ha guardato mentre uccidevano il giovane con un colpo alla nuca.

A volte penso che non dovrei tornare a Baghdad perché porto il peso di troppe storie orribili come queste. Mi chiedo se un altro corrispondente non sarebbe in grado di scrivere meglio storie liete di come la vita qui sta migliorando, cosa che in effetti, in un certo senso, è vera. Lui, o lei, arrivando in Iraq per la prima volta, non avrebbero ricordi di amici uccisi e torturati, e reagirebbero in modo favorevole alle storie positive prodotte in quantità dal governo iracheno e da quello statunitense su come la vita qui sta migliorando. Ma poi mi viene in mente che la maggior parte degli iracheni sono influenzati dalle mie stesse esperienze. Quasi tutti gli iracheni che conosco hanno perso uno o più familiari. I corpi di molti dei morti non sono mai stati ritrovati. Va benissimo per i funzionari e i diplomatici americani, con i loro equivalenti britannici che gli vanno dietro ligi, fare pressioni sui leader iracheni perché raggiungano accordi politici con i loro rivali. In un universo politico immerso in tanta violenza questo è difficile, e, se verrà fatto, è quasi impossibile per i leader risponderne alle proprie comunità. La paralisi politica al vertice in Iraq, così spesso oggetto di rimproveri all’estero, è solo un riflesso dei sospetti e degli odi paralizzanti all’interno della società irachena.

Gli iracheni non arriveranno ad amarsi gli uni con gli altri nel futuro immediato, ma questo non significa necessariamente che cercheranno di ammazzarsi a vicenda. Gli iracheni hanno visto due guerre dal 2003: la prima da parte degli arabi sunniti contro l’occupazione Usa. I guerriglieri sunniti sono stati molto efficaci, e hanno ucciso o ferito 35.000 soldati americani. Il secondo conflitto è stato una guerra civile a carattere confessionale fra le comunità sciita e sunnita, che ha provocato decine di migliaia di morti, e cinque milioni di persone costrette a lasciare le proprie case. La si è combattuta perché dopo che era stato rovesciato Saddam Hussein, gli sciiti (il 60 % degli iracheni) si erano alleati con gli americani per sloggiare i sunniti (il 20 per cento) in quanto comunità che aveva il controllo dello Stato iracheno. Entrambe queste guerre adesso sono finite, ed entrambe hanno avuto vincitori e vinti. Gli sciiti hanno sconfitto i sunniti, e Baghdad è ora almeno per tre quarti sciita. Gran parte della classe media e professionista sunnita è fuggita in Giordania e in Siria, ed è improbabile che ritorni. Di fronte a una sconfitta da parte degli sciiti, e provando repulsione contro al-Qa'ida, gli insorti sunniti sono passati dall'altra parte, alleandosi con i loro nemici di prima – gli americani. Dato che si sa chi sono, e trovandosi di fronte forze di sicurezza governative irachene forti di 600.000 uomini, è improbabile che questi ex insorti siano disposti o in grado di tornare a combattere.

La guerra che potrebbe ancora esserci è quella fra arabi e kurdi. I kurdi sono stati il cuore della vecchia opposizione a Saddam Hussein. Ebbero inoltre un colpo di fortuna nel 2003: i turchi si erano rifiutati di partecipare all’invasione Usa del nord Iraq, o di permettere che il loro territorio venisse usato per un attacco. I kurdi iracheni, cosa che ha lasciato un po' sorpresi gli americani, divennero i principali alleati degli Stati Uniti. I kurdi avanzarono verso sud, prendendo Kirkuk e Ninive, province miste arabo-kurde fuori da quello che divenne il Governo regionale del Kurdistan (KRG), che gode di molta autonomia. Scoprirono di essersi presi una responsabilità più grossa di quella che potevano gestire. Adesso i kurdi sono molto nervosi dato che il loro potere inizia a diminuire mentre gli americani se ne vanno, gli arabi del nord Iraq si organizzano, e il governo centrale di Baghdad diventa più forte militarmente e politicamente. "Questo è il giorno che ogni kurdo temeva", si lamenta un osservatore kurdo di Sulaimaniya. "Siamo ancora una volta soli e faccia a faccia con Baghdad". In Iraq tutti sono paranoici, e tutti hanno un motivo per esserlo. A Ninive, che ha come capitale Mosul, il partito sunnita anti-kurdo al-Hadba ha vinto le elezioni provinciali di gennaio, e ha preso il controllo del consiglio locale. I kurdi si stanno rifiutando di ritirarsi dal territorio nel quale sono maggioranza. Il mese scorso, il nuovo governatore di Ninive, Athil al-Najafi, che appartiene ad al-Hadba, accompagnato da circa 50 auto della polizia, aveva tentato di entrare in una parte della sua provincia controllata dai kurdi, ed è stato costretto a tornare indietro dalle forze kurde. Hanno detto di avere ricevuto ordini, anche se tutti negano di averli dati, "di sparare per uccidere" se avesse insistito. Se l’avessero fatto, ci sarebbe stato un massacro generalizzato.

Gli iracheni arabi e quelli kurdi non si amano. "Qui potresti vincere le elezioni con una lista anti-kurda", dice un politico a Baghdad. Tuttavia, i leader di entrambe le parti, hanno buoni motivi per non combattersi a vicenda. Il governo è una coalizione di sciiti e kurdi. I kurdi hanno alcuni degli incarichi più importanti. Nonostante sia ansioso di trovare il petrolio all’interno della propria regione, il KRG dipende dal ricevere il 17% delle entrate petrolifere irachene. Soprattutto, in quanto parte del governo iracheno i kurdi sono in una posizione assai migliore per respingere le interferenze di Turchia, Iran, e Siria.

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Quando sono arrivato per la prima volta in Iraq, 32 anni fa, i diplomatici prevedevano allegramente un futuro prospero per il Paese, dato che, per quanto il regime ba’athista fosse assetato di sangue, era "l’unico Paese arabo con petrolio e acqua in abbondanza, e una popolazione abbastanza numerosa per sfruttare entrambi". Come molti cliché diplomatici, ciò si rivelò essere falso sotto la maggior parte degli aspetti. Mentre la violenza diminuisce, gli iracheni stanno cominciando a rendersi conto che le due principali risorse sulle quali fanno totalmente affidamento stanno entrambe diventando scarse. Le acque del Tigri che scorre davanti ai muri in cemento e alle torrette di guardia della Green Zone sono diventate molto basse. Nel mezzo del fiume, isole di sabbia e canne ne interrompono la superficie. La settimana scorsa stavo guardando un ragazzino che nuotava da una di queste isolette. All’improvviso si è alzato in piedi, e l’acqua gli arrivava solo alla vita, mostrando che è profonda solo pochi metri. Questo è il risultato di una siccità prolungata e della costruzione di dighe a monte. Il problema è più grave per quanto riguarda l’Eufrate. La Mesopotamia, in greco la terra 'tra i fiumi', si sta inaridendo. Ogni settimana, a Baghdad ci sono tempeste di sabbia accecanti che spesso portano alla chiusura dell’aeroporto. Secondo il ministero dell’Agricoltura iracheno, il 92,5 % del Paese è adesso soggetto alla desertificazione, e di conseguenza fra il 40 e il 50 per cento di quella che era la terra più fertile dell'Iraq fino agli anni ’70 non sta più producendo.

La ragione principale sono le dighe costruite in Turchia e in Siria sul corso superiore dell’Eufrate, che stanno riducendo il flusso dell’acqua a un quarto di quello che era 10 anni fa. Ciò è devastante per i contadini che vivono lungo le rive del fiume: non possono più coltivare il riso perché serve troppa acqua. La frutta è quasi tutta importata dalla Siria, dalla Giordania, e dall’Iran. Le mele arrivano dagli Stati Uniti. Molti contadini stanno abbandonando le loro terre e trasferendosi nelle città. Nei villaggi ai margini delle paludi del sud i serpenti stanno lasciando i canneti prosciugati dove un tempo avevano le loro tane, e attaccando le persone e il bestiame. La Turchia ogni tanto promette di lasciar passare più acqua attraverso le sue dighe, ma ciò accade solo per pochi giorni prima che le chiuse vengano chiuse nuovamente. In passato l’Iraq riusciva a cavarsela utilizzando l’acqua immagazzinata nei suoi bacini idrici, ma questi adesso sono assai svuotati. La pianura mesopotamica, uno dei luoghi in cui sono nate l’agricoltura e l’irrigazione sedentaria, si sta trasformando in una regione arida.

Fortunatamente, l’Iraq non dipende più dalla sua agricoltura per nutrirsi. E’ diventato invece uno dei maggiori importatori di generi alimentari al mondo. Il sistema di razionamento, a un costo di 6 miliardi di dollari l'anno, dà agli iracheni cibo a buon mercato sufficiente a impedire la fame. Ma questo cibo viene pagato con i proventi petroliferi, e questi stanno calando a una velocità spaventosa. Uno dei motivi è la diminuzione del prezzo del greggio dai 140 dollari dello scorso anno a meno della metà oggi. Ma la cosa più devastante per l’Iraq è che la produzione dai suoi grandi giacimenti sta crollando. Questi sono i cosiddetti super-giganti, nove giacimenti petroliferi con riserve per oltre cinque miliardi di barili, che finora sono stati fra i più produttivi al mondo. Giacimenti come Kirkuk e Bai Hassan nel nord, e Rumaila nord e sud, West Qurna, e Zubair nel sud, sembravano una risorsa illimitata che, a lungo termine, avrebbe tirato fuori l’Iraq da qualunque problema nel quale si trovasse. Adesso tuttavia anche loro stanno iniziando a venir meno, a causa di abbandono, investimenti insufficienti, e gestione incompetente. Lo scorso anno, questo sembrava non avere così tanta importanza, perché il prezzo del petrolio era alto e il governo pensava che sarebbe rimasto tale. Aveva allegramente aumentato stipendi e salari, e aumentato il numero dei dipendenti statali a circa due milioni, il doppio di quanti erano sotto Saddam Hussein. Lo scorso luglio, il ministro del Petrolio Hussein Shahristani aveva detto in una intervista con l’esperta petrolifera Ruba Husari: "L’Iraq ha un bisogno disperato di tecnologie moderne, non di investimento di capitale, per fermare il declino in questi giacimenti [quelli super-giganti], e introdurre il recupero assistito". Si noti che a quell’epoca Shahristani, un ex scienziato nucleare che era stato imprigionato e torturato sotto Saddam Hussein, riteneva che l’Iraq non avesse bisogno di investimento di capitale. Un anno dopo, il Paese è al verde, ha congelato le assunzioni governative, comprese quelle di altri poliziotti, e sta negoziando uno standby loan di 5 miliardi e mezzo di dollari con il Fondo monetario internazionale. A fine maggio, la produzione petrolifera era di 2,41 milioni di barili, che è tuttora inferiore ai 2,58 milioni che produceva subito prima della guerra del 2003, o ai 3 milioni e mezzo del 1979.

E’ questo il contesto di un cambiamento di enorme importanza in Iraq. Il 29 e il 30 giugno Shahristani assegnerà contratti della durata di 20 anni alle compagnie petrolifere internazionali perché operino in giacimenti già in produzione, inizialmente per riportare la produzione ai livelli di un tempo, e poi per aumentarla. Le compagnie saranno pagate in greggio a un prezzo fisso come compenso per la produzione extra, e metteranno tutto l'investimento. Secondo voci critiche all’interno dell’industria petrolifera irachena, il governo starebbe liquidando le risorse del Paese, e avrebbe dovuto limitare le compagnie petrolifere internazionali a giacimenti già scoperti ma non ancora sviluppati, tenendo per sé i grandi giacimenti già in produzione, utilizzando i servizi di compagnie di ingegneria, consulenti, e appaltatori stranieri per aumentare la produzione. A questo punto, il governo non ritiene di avere molta scelta se non quella di andare avanti con i contratti che verranno assegnati a fine giugno, e anche così ci vorranno tre anni prima che venga prodotto del nuovo petrolio.

Sorprendentemente, di questi sviluppi epocali nel modo in cui la ricchezza petrolifera irachena verrà controllata e sfruttata non ricevono quasi attenzione all’estero, al di fuori dalla stampa specializzata economica e relativa all’industria petrolifera. Tuttavia dal loro esito dipenderà in gran parte come la gente vivrà in Iraq nel prossimo secolo, ed esso avrà un impatto sulle scorte di energia di tutto il mondo. Secondo le stime attuali, l’Iraq è il terzo Paese al mondo per riserve petrolifere, ma i deserti dell’ovest e del sud sono in gran parte inesplorati, e potrebbero contenere altri 45 - 100 miliardi di barili di greggio recuperabile. "Secondo consulenti indipendenti", dice il Dipartimento Usa all'Energia, "il gruppo dei giacimenti super-giganti del sud-est dell’Iraq forma la più grande concentrazione conosciuta di tali giacimenti al mondo, e costituisce fra il 70 e l’80 per cento delle riserve petrolifere accertate del Paese". Non c'è da stupirsi della determinazione delle compagnie petrolifere internazionali a ottenere una partecipazione nello sviluppo petrolifero iracheno, anche se le condizioni precise degli attuali contratti non sono di loro gradimento. Quanto petrolio possiede il mondo verrà accertato mentre esplorano i depositi che si trovano sotto i monotoni deserti e le paludi salate attorno a Bassora.

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Non ho mai pensato che Stati Uniti e Gran Bretagna abbiano invaso l’Iraq per il suo petrolio. Credo che gli Usa abbiano deciso di invadere l’Iraq nel 2003 per riaffermare la percezione dell'America di essere l’unica superpotenza al mondo sulla scia dell’11 settembre, e che rovesciare Saddam Hussein sembrasse un modo facile di mostrare la forza politica e militare dell’America. Nello stesso tempo, l’Iraq e il Golfo sono importanti sulla mappa strategica del mondo quasi interamente a causa del loro petrolio. Se l’Iraq avesse esportato principalmente asparagi o datteri, allora Washington e Londra sarebbero stati meno interessati a quanto accadeva nel Paese. Furono i proventi petroliferi a favorire lo sviluppo dello Stato militarizzato un tempo potente costruito da Saddam, perché senza di essi non avrebbe potuto reclutare e armare le divisioni corazzate che invasero l’Iran nel 1980, e il Kuwait 10 anni dopo.

La capacità dell’Iraq di riprendersi da 30 anni di disastri dipende tutta da quanti soldi avrà da spendere. La ri-stabilizzazione del Paese negli ultimi due anni è in parte il risultato di poter pagare 600.000 uomini nelle forze di sicurezza, e creare centinaia di migliaia di posti di lavoro ben pagati nel governo. Per quanto riguarda il provvedere alla sicurezza, fa molta differenza che un soldato semplice iracheno sia pagato circa 600-700 dollari al mese, e il suo equivalente afgano solo 120 per lo stesso lavoro. In Iraq tutti vogliono un posto comodo e dal quale non sia possibile essere licenziati nel governo, e non nel settore privato che langue ed è insicuro. L’odio e la paura che dividono gli iracheni sono la reazione comprensibile a decenni di massacri, e sono troppo intensi e recenti perché sia possibile superarli in meno di una generazione. Lo sfruttamento e l’utilizzo dell’immensa ricchezza petrolifera dell’Iraq è non solo la migliore occasione, ma forse l’unica, di ricreare un Paese nel quale la gente vorrà vivere.

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)
The Independent,
Articolo originale