Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il tema dell’ autorealizzazione nelle Upanishad: una lettura in chiave junghiana

Il tema dell’ autorealizzazione nelle Upanishad: una lettura in chiave junghiana

di Matteo Karawatt - 03/07/2009


1. Cosa sono le Upanishad
Le Upanishad sono il risultato della reazione di alcuni
riformatori del periodo vedico all'eccessivo ritualismo dei
sacerdoti indù: comprendono speculazioni metafisiche e
psicologiche sull'Essere Supremo, sul vero Sé e sull'esistenza
in generale. Le Upanishad vengono chiamate
anche Vedanta che significa sia la fine che il fine del
Veda (1)
Le Upanishad contengono in sostanza tutto quanto c'è di
profondo nel pensiero indiano. In India esse hanno influenzato
non solo le scuole ortodosse ma anche quelle
eterodosse come il Buddismo e il Gianismo. Formano la
base di tutte le scuole filosofiche indiane e sono la fonte
per tutti i saggi, riformatori e mistici. Anche fuori dell'India
queste scritture hanno influenzato parecchi mistici, poeti
e filosofi come Max Mueller, Hermann Hesse, Arthur
Schopenhauer, Bede Griffiths, ecc.
In tutto il mondo non esiste alcun studio così bello e così elevato come
quello delle Upanishad - dice Schopenhauer e continua - Esso è stato la
consolazione della mia vita e sarà la consolazione della mia morte (2)
Le Upanishad non sono trattati sistematici di filosofia, ma
un resoconto delle intuizioni di vari saggi e mistici antichi
distribuito in diversi secoli. I testi presentano esperienze
religiose e congetture filosofiche, espressi sotto forma di
dialoghi, parabole, analogie e leggende. Queste scritture
non tendono generalmente a dimostrare la verità delle
loro affermazioni: l'esperienza personale di ciò che si
afferma è considerata già una prova sufficiente per la
validità stessa delle affermazioni.
Il termine Upanishad e composto da Upa = vicino, ni =
devotamente e sad = sedere, vuole perciò significare:
sedere devotamente vicino al maestro, indicando così la
maniera nella quale la dottrina veniva comunicata ai
discepoli.
I testi oggi conosciuti sotto il nome di Upanishad sono
più di duecento. Uno dei criteri riconosciuti per attestare
la canonicità di una Upanishad è il fatto che sia stata
commentata da un Acharya, cioè da un interprete autorevole.
Giudicate in base a questo criterio possiamo dire
che le Upanishad più importanti sono quattordici; tea,
/Cena, Katha, Prasna, Mundaka, Mandukya, Taìttirya,
Aithareya, Chandokia, Brihadaranyaka sono le più
importanti.
Il compito fondamentale dei pensatori upanishadici consisteva
nella ricerca di un principio unitario nella
molteplicità dell'esperienza. Essi si domandavano
ripetutamente:
«Qual'è quella realtà per mezzo della quale tutte le altre
cose possono essere conosciute?» Gli antichi saggi indù
speravano fortemente di scoprire una realtà
fondamentale dietro e dentro la molteplicità
dell'universo. Essi credevano che con la conoscenza di
questa realtà unitaria tutte le altre cose si sarebbero
rivelate nella loro essenza e di conseguenza l'intelletto,
la mente e i sensi avrebbero ritrovato la loro tranquillità.
Questa ricerca dell'unità nella molteplicità portò i
pensatori upanishadici a un atteggiamento monistico che
si trova alla base dell'insegnamento più sviluppato e più
importante delle Upanishad, e che fornisce quella trama
di coerenza e coesione interna alla dottrina insegnata
che altrimenti rimarrebbe molto frammentaria e
disordinata.
2. Perché lo psicologo junghiano si trova a occuparsi
anche di temi speculativi e spirituali
Spesso ci confrontiamo con il problema, da una parte
della specificità dell'intervento dello psicologo e dall'altra
della necessità che egli integri nella sua personalità risposte
relative a bisogni che vanno al di là del meramente
psicologico. Per Jung, «La verità psicologica non
esclude affatto la verità metafisica» (3) e per di più il solo
discorso sull'istinto non esaurisce completamente il problema:
L'elemento spirituale appare nella psiche anche come un istinto, anzi
come una passione, o - per usare un'espressione di Nietzsche -«come
un fuoco divoratore». Non è un derivato di un altro istinto, come
vorrebbe la psicologia dell'istinto, ma un principio sui generis, cioè la
forma ineliminabile della forza pulsionale (4).
Del resto tutte le opere junghiane parlano dell'autonomia
dello spirito, ma egli sente il dovere di ricordarci la specificità
della psicologia come scienza e pertanto raccomanda
di tenersi lontani dalle affermazioni metafisiche.
Secondo la mia opinione, il continuo e necessario riferimento
dello psicologo sia al campo medico che a quello
spirituale, si basa in ultima analisi sulla divisione ternaria
dell'uomo in spirito, anima e corpo; divisione ammessa da
tutte le dottrine tradizionali sia dell'occidente che
dell'oriente. Secondo Rene Guénon,
il fatto che si sia giunti in seguito a dimenticarla a un punto tale da non
vedere nei termini di «spirito» e di «anima» che delle specie di sinonimi
[...} e di usarli indistintamente l'uno per l'altro, mentre designano propriamente
realtà di ordine differente, è forse uno degli esempi più
sorprendenti che si possa dare della confusione caratterizzante la
mentalità moderna. Questo errore ha d'altronde conseguenze che non
sono tutte d'ordine puramente teorico (5).
La divisione ternaria dell'uomo in corpo, anima e spirito
era familiare ai greci e più specificatamente ai Pitagorici
che in realtà nella loro dottrina cosmologica non facevano
che «riadattare» insegnamenti molto più antichi; anche
Plafone si è ispirato a questa dottrina come è palese dalle
sue teorizzazioni.
Nell'alchimia medioevale lo zolfo, il mercurio e il sale
furono considerati come corrispondenti rispettivamente al
principio di attività inferiore e di forza centrifuga dello
spirito (Zolfo), alla forza centripeta e contenente della
psiche (Mercurio) e all'involucro corporeo in contatto con
l'ambiente interno ed esterno (Sale).
Secondo Jung,
Pur non essendoci alcuna forma di esistenza che ci possa essere
mediata se non per via esclusivamente psichica, tuttavia non si può
spiegare tutto unicamente per via psichica. [...] spirito e materia si
fronteggiano l'un l'altra sul terreno psichico (6).
Al di là dell'ambiguità di Jung su questo punto, ambiguità
derivante dalle esigenze del metodo dialettico basato su
tesi e antitesi, sono del parere che lo psicologo analista
junghiano nella sua prassi quotidiana non può fare a
meno dei riferimenti incrociati sia con la medicina che
con il campo spirituale.
3. Brahrnan e Atman
Questi due concetti sono tanto importanti da formare i due
pilastri su cui poggia quasi tutto l'intero edificio della
filosofia vedantica. La parola Brahman, che dapprima
probabilmente significava preghiera o discorso, venne
gradualmente a significare il fondamento dell'universo o la
fonte di ogni esistenza; ciò da cui l'universo è nato o è
stato emanato, ciò che è apparso come universo, oppure
la realtà suprema che include tutto. L'Atman probabilmente
significava respiro, venne però in seguito a indicare
il Sé o l'anima; la realtà più profonda dell'uomo, come
pure l'Uno o la realtà fondamentale che comprende tutto.
La notevole scoperta che fecero gli antichi veggenti indù
fu appunto che i due sono la medesima cosa: Atman e
Brahman. Allo stesso tempo i saggi upanishadici erano
convinti che quella realtà basilare della loro ricerca doveva
trascendere completamente l'esperienza, perciò tentarono
di definirlo in negativo, indicando cioè cosa esso
non è, piuttosto che dire cosa è. Così secondo la Brihadaranyaka
Upanishad, si può definirlo dicendo soltanto
«non è questo, non è quello»: neti, neti (7).
Le Upanishad propongono pure alcune descrizioni in
positivo. Le asserzioni in negativo insieme a quelle in
positivo ci danno un'idea più chiara del concetto di Brahman.
Così per esempio nella Brihadaranyaka Upanishad,
si dice che il Brahman è coscienza e beatitudine.
Alcuni pensatori upanishadici cercarono una risposta a
un questo sulla natura fondamentale dell'uomo: «Cosa
sono io nella mia essenza profonda?» Convinti che l'essenza
dell'uomo fosse molto diversa da quello che appare
agli occhi di tutti, la chiamarono Atman.
Nel tentativo di conoscere questo misterioso Atman, i
protagonisti della Taittirya Upanishad rivolsero la loro
indagine sempre più nelle profondità dell'essere umano
arrivando a formulare la dottrina degli involucri, secondo
la quale l'Atman è la realtà sottilissima che sta dentro un
quintuplice involucro (8). L'involucro più esterno è quello
formato dal cibo, cioè il corpo fisico. Dentro il corpo.fisico
esiste lo stato del respiro o dello spirito vitale. Dentro
quest'ultimo si trova l'involucro della mente (la mente
nella concezione upanishadica ha la funzione di strutturare
le percezioni dei sensi esterni e contiene pensieri,
passioni e immagini). Nella profondità dell'involucro della
mente c'è quello della coscienza (in questo involucro
hanno origine il discorso logico e l'intuizione). Più profondo
ancora è l'involucro della maya ossia del concatenamento
causale individuale e cosmico. Questi involucri nel
loro insieme costituiscono la casa empirica dell'atman.
L'Atman è il vero fondamento eterno e immortale dell'esistenza:
esso può essere sperimentato solo da coloro
che oltrepassano le identificazioni con i falsi sé del
mondo oggettivo.
I saggi upanishadici, che erano alla ricerca sia della
suprema realtà esteriore (Brahman) che della suprema
realtà inferiore (Atman) tentarono di trovare la relazione
esistente tra le due realtà. L'eccitante scoperta che essi
fecero fu che l'Atman non era nient'altro che lo stesso
Brahman. Non esisteva alcuna differenza tra il supremo
soggetto (Atman) e il supremo oggetto (Brahman). Nella
Chandokya Upanishad, c'è un famoso episodio che
presenta questo insegnamento meravigliosamente (9).
Uddhalaka istruisce suo figlio Svetaketu sulla realtà
suprema dicendogli che egli stesso è la realtà suprema.
Dopo ventiquattro anni di studio il figlio si sente colto,
arrogante e presuntuoso. Allora suo padre gli chiede:
«Mio caro Svetaketu, dato che tu sei contento di te e
orgoglioso delle tue conoscenze, hai mai cercato quell'insegnamento
per il quale ciò che non si è ascoltato è
come se fosse stato ascoltato, ciò che non si è pensato è
come se fosse stato pensato, ciò che non si è conosciuto
è come se fosse stato conosciuto?» Il figlio chiese come
potesse esistere un simile insegnamento e suo padre
rispose: «Mio caro, è come se da un pezzo di argilla si
conoscesse tutto ciò che è fatto di argilla, restando tutte le
diverse modificazioni null'altro che distinzioni di nome e di
linguaggio riguardanti una sola realtà:
l'argilla. Ciò significa che la varietà e la pluralità degli
oggetti dell'esperienza è soltanto un travestimento della
realtà unitaria che è alla loro base». L'insegnamento del
padre arriva poi al suo culmine quando dice: «Questa
sottile essenza anima tutte le cose; essa è l'unica realtà,
essa è l'Atman; quello sei tu» (Tatvam Asì).
Comprendendo solo intellettualmente l'insegnamento del
Tatvam Asi, non si raggiunge la conoscenza del «Sé
Supremo». La conoscenza intellettuale presuppone una
dualità di soggetto e oggetto, di conoscente e conosciuto.
La conoscenza superiore è quella per mezzo della quale
ciò che non è mai stato sentito viene sentito. Nella
Brihadaranyaka Upanishad viene così descritta:
Tu non puoi vedere colui che vede mediante la vista; tu non puoi udire
colui che ode mediante l'udito; tu non puoi pensare colui che pensa
mediante il pensiero; tu non puoi conoscere il conoscente mediante la
conoscenza. Questo è il tuo Atman che è in ogni cosa (10).
In altre parole la conoscenza superiore oltrepassa la
dualità soggetto-oggetto.
Shri Sankaracharya, l'interprete più autorevole delle
Upanishad, condensa tutto l'insegnamento sul quale si
basa la sua filosofia detta Adaivata Vedanta, cioè Vedanta
non dualistica, nella maniera seguente:
Brahman Satyam, Jagan mitya, jivo daiviva, na apara-Brahman è il
reale, l'universo è relativo, la coscienza individuale si identifica col
Brahman, e non è realmente differente da Brahman (11).
Questo contenuto viene espresso molto efficacemente in
un aneddoto: un pupazzo di sale voleva vedere l'oceano,
va alla riva e si avvicina all'acqua; toccando l'acqua perde
la mano. La sua curiosità era talmente forte che tocca
l'acqua anche con i piedi che si dissolvono a loro volta.
Nell'attimo in cui si sta dissolvendo completamente nell'oceano
esclama: «Toh, lo sono l'oceano». Questa
esperienza tradotta nel linguaggio upanishadico suonerebbe
così: Aham Brahmasma - lo sono quello che sono.
Lo stesso concetto viene ribadito nelle sue opere da
Teilhard de Chardin, scienziato, paleontologo e mistico:
In seno a un oceano tranquillizzato, ogni sua goccia avrà coscienza di
rimanere se stessa (12).
Jung affronta questo problema più di una volta nelle
Opere, specialmente nel volume Psicologia e Religione.
Parlando dei santi indiani cita Ramakrishna, uno dei
presunti saggi, che dice:
Quanto pochi sono capaci di raggiungere l'unificazione (samadhì) e di
liberarsi da questo lo (aham}. È raramente possibile. Discuti quanto
vuoi, separa senza fine; questo lo ritornerà sempre a tè. Oggi abbatti il
pioppo e domani troverai che è rigermogliato [...] Se non potete
distruggere definitivamente questo «lo», trattatelo come «lo, il servitore»
(13).
Jung commenta l'insegnamento di Shri Ramana nello
stesso capitolo e dice:
Shri Ramana, ad esempio, chiama il suo corpo «questo zoticone». In
contrasto con questo, e in considerazione della complessa natura
dell'esperienza (emozione + interpretazione), il punto di vista critico
ammette l'importanza del ruolo dell'Io cosciente, ben sapendo che se
non ci fosse aham-kara [la consapevolezza dell'Io] non vi sarebbe
nessuno al corrente d'un qualsiasi accadimento. Senza l'Io personale
del Maharshi che, a quanto risulta dall'esperienza, esiste soltanto con lo
zoticone (= corpo) di sua pertinenza, non ci sarebbe mai stato un Shri
Ramana. Anche se vogliamo ammettere con lui che ormai non è più il
suo lo che parla, ma l'atman, sono la struttura psichica della coscienza
e così pure il corpo che rendono possibili le comunicazioni attraverso il
linguaggio (14).
Secondo Jung, l'esperienza dell'identità tra Brahman e
Atman, è un'esperienza mistica che ha dei paralleli anche
in occidente, sebbene con un linguaggio e una terminologia
diversi.
L'identificazione tra Brahman e Atman non può avvenire
ne per mezzo dei sensi, ne per mezzo del ragionamento,
né attraverso la discussione, né mediante l'erudizione
profonda e neppure per mezzo unicamente dello studio
delle scritture; ci vuole invece una rigida e perseverante
autodisciplina di purificazione dalle azioni e tendenze
peccaminose, per controllare i sensi, i desideri e le
passioni, per staccarsi dalle cose mondane. La prima
parte degli esercizi dello yoga - il cosiddetto hatayoga -ci
istruisce su questa disciplina. Oltre ciò le Upanishad
propongono anche la triplice disciplina di sravana (ascolto),
manana (meditazione) e nidhidyasana (pratica). Il
95% della spiritualità consiste nel mettere la conoscenza
in pratica.
4. // Karma
Un altro argomento di particolare importanza sembra
quello del Karma. L'espressione è di origine sanscrita e
significa letteralmente azione, ma nella speculazione filosofico
religiosa indiana ha assunto il senso di «conseguenza
ineluttabile di qualsiasi tipo di azione (fisica,
verbale o mentale)».
- Secondo l'interpretazione del Karma come principio di
causalità, a ogni causa corrisponde un effetto e a ogni
effetto una causa. A ogni azione segue una reazione.
- Il Karma come principio etico viene inteso nel senso di:
«avrai il frutto di ciò che hai seminato».
- Secondo gli insegnamenti indù, gli effetti delle proprie
azioni non possono essere sperimentati tutti attraverso
una sola vita, perché mentre si fruisce del risultato di
qualche atto, si compiono nel contempo altre azioni e
quindi si avranno nuovi frutti da raccogliere. Da questo
fatto si deduce che l'anima deve rinascere per un certo
periodo di tempo. Si crede dunque che l'anima fin
dall'eternità nasca e rinasca. Questa dottrina della
trasmigrazione dell'anima, che viene chiamata anche
reincarnazione o metempsicosi, è il corollario necessario
della dottrina del Karma. Il processo di reincarnazione
avviene nel mondo fenomenico (samsara). Colui che
adempie il proprio dovere (Dharma) progredisce nella
vita fino all'esaurirsi di tutte le conseguenze delle sue
azioni terrene, liberandosi definitivamente dal mondo
fenomenico [Mukti), per unirsi al Brahman (Samadhi).
La Gita (15), il cosiddetto Nuovo Testamento dell'indui-
smo, espone chiaramente l'aspetto fondamentale di
questo insegnamento con le seguenti parole:
Dice il Signore: «Devi sapere che non c'è mai stato tempo in cui lo non
fui e tu non fosti; e ormai non cesseremo mai di esistere. Come il corpo
passa attraverso le fasi dell'infanzia, della giovinezza, della maturità e
della vecchiaia, così l'anima passa da un corpo all'altro nelle successive
incarnazioni e assolverà il suo compito» (16).
Nel sistema filosofico di Shri Aurobindo (un altro degli
interpreti autorevoli delle Upanishad) la reincarnazione è
necessaria e indispensabile per il processo dinamico
dell'universo. Il cosmo è una manifestazione o autorivelazione
dello Spirito Supremo. Secondo l'insegnamento
delle Upanishad,
la creazione inizia dunque con un atto di separazione degli opposti uniti
nella divinità. Dalla loro tensione scaturisce, come una potente esplosione
di energia, la molteplicità del mondo (17).
Questo pensiero upanishadico suona sorprendentemente
attuale e simile a certe teorie della fisica moderna.
L'espansione spazio-temporale che segue all'esplosione
originaria è, secondo Aurobindo, un processo evolutivo
che ha inizio su un piano materiale per percorrere poi
quelli della vita vegetativa e animale: attualmente ha
raggiunto quello della mente umana, la quale deve evolversi
ulteriormente per unirsi con il Brahman. Il succitato
Teilhard de Chardin esprime lo stesso pensiero nella
maniera seguente:
La materia originaria contiene già in sé la coscienza come elemento
organizzativo, per cui l'evoluzione si configura come un processo non
puramente deterministico ma anche teleologico. L'evoluzione dalla previta
(mondo inorganico) alla vita (biosfera) tende alla creazione dell'uomo
e del pensiero (noosfera). L'uomo non è ancora tuttavia al punto
finale: l'universo e in esso l'uomo e la sua storia, tendono a un punto
omega (18).
Haridas Chaudhuri, una delle massime autorità dei nostri
tempi dello yoga integrale, approfondisce l'argomento
maggiormente (19). Secondo lui l'energia si manifesta sia
nel moto espansivo che nella crescita evolutiva. L'universo
è in espansione. Le galassie si allontanano l'una
dall'altra a velocità enorme. In questo processo l'energia
viene dissipata.
L'essenza dell'evoluzione consiste invece nell'autoincentramento,
nella crescente organizzazione interna e nella
complessificazione strutturale. Questo è il motore del
processo evolutivo.
Quando molecole diversissime come il carbonio, l'idrogeno,
l'ossigeno, l'azoto, ecc. si combinano in proporzioni
definite, nasce una novità qualitativa, cioè la cellula
vivente; La cellula possiede la capacità emergente di
funzioni nuove come la mobilità spontanea, la crescita
immanente dall'interno, l'autoespansione, l'autoregolazione,
l'autoriproduzione, ecc. Nella filosofia moderna
questa è la legge dell'evoluzione emergente o creativa.
Fin qui il problema viene considerato dal punto di vista
filogenetico. Dal punto di vista ontogenetico, prevale
invece la legge del Tapa: quando una persona, in virtù di
una lunga pratica di auto-organizzazione intelligente e
finalizzata genera il calore psichico interno derivante
dall'energia creativa spirituale (appunto il Tapa), allora
nuove visioni di verità, bellezza e perfezione illuminano il
suo orizzonte mentale e trasformano il suo essere totale
in una fonte di creatività.
Dal punto di vista estetico la legge del Karma fa si che
l'equilibrio universale appare come armonia e ordine
(Rta) in una moltitudine di sensazioni. Senza l'equilibrio
che domina le forze contrastanti di auto-espansione
estroversa e auto-organizzazione inferiore, l'universo
perderebbe l'ordine cosmico che, sempre secondo
questo autore, è lo spirito di armonia che tiene
creativamente insieme l'entropia disintegrante della
materia e la negentropia evolutiva della vita. Cosi il
Karma svolge una funzione di equilibrio nell'universo.
Intimamente legato al concetto di Karma è quello del
Dharma. Vivere il proprio Dharma vuoi dire vivere la
propria potenzialità spirituale, cioè la scintilla divina che
è in ognuno di noi e che ha infinite potenzialità di perfezione.
Non si può vivere il Dharma supremo senza il Dharmasamsara,
cioè gli obblighi, i doveri e i piaceri della vita
quotidiana. È significativo l'episodio raccontato da Jung,
della visita del tempio di Surya (il Sole) nello stato di
Orissa; Jung è sbalordito, a suo dire, dalle «sculture
oscene di squisita fattura»:
Obiettai - indicando un gruppo di giovani contadini che stavano a bocca
aperta davanti al monumento, ammirandone la magnificenza -che quei
giovani in quel momento stavano subendo tutt'altro che un processo di
spiritualizzazione, e che avevano piuttosto l'aria di essere tutti presi da
fantasie sessuali. Repl icò il Pandit che accompagnava Jung: «Ma
proprio questo è il punto. Come potrebbe mai realizzarsi in loro lo
Spirito, se prima non soddisfacessero il loro Karma? Queste immagini
chiaramente oscene sono qui proprio allo scopo di ricordare agli uomini
il proprio Dharma (20).
Quando Jung raccontò questo episodio al suo amico
indologo Heinrich Zimmer, questi avrebbe commentato:
«Finalmente sento qualcosa di vero sull'India». A quanto
pare, la spiritualità indù ha dei risvolti molto pratici.
Se il Karma è la spinta volitiva del passato, il Dharma è
l'attrazione evolutiva verso il futuro. Perciò la forza della
storia del passato (Karma) e la potenzialità del futuro
insita in ognuno (Dharma) sono due poli dialettici dello
stesso processo di crescita.
Jung nel suo commento al libro tibetano della grande
liberazione esamina il concetto del Karma in un'ottica
psicologica (21). Secondo la sua opinione, ciò che viene
ereditato di generazione in generazione e da individuo a
individuo non è la memoria prenatale bensì la potenzialità
mnemonica a richiamare tali ricordi nella mente. Questi
ricordi secondo le Upanishad sono depositati al momento
della morte nel corpo sottile. Il corpo sottile non è ne
visibile ne tangibile, ma è costituito di sensi interni e serve
come nesso tra l'Atman e il corpo materiale. Alla morte
l'anima abbandona il corpo materiale ma trattiene il corpo
sottile con l'impronta di tutti gli atti: il corpo sottile viene
abbandonato solamente nella liberazione definitiva.
Secondo Jung i ricordi del passato formano il mondo
dell'illusione karmica come viene descritta nel libro tibetano
dei morti o si manifestano nelle fantasie dissociative
di certi psicotici. Il processo inferiore, l'incontro con il
dolore e il male è un dato di fatto perché «le immagini
karmiche appaiono nella loro terrificante crudezza» (22).
Dal punto di vista clinico, la dottrina del Karma contribuisce
a far comprendere, in parte, la sofferenza umana
nelle manifestazioni acute della malattia mentale. Sia la
dottrina upanishadica che quella junghiana non pretendono
di risolvere alcunché spiegando i nessi causali
della sofferenza. La risposta delle Upanishad al
problema del Karma, almeno nella sua accezione
negativa di sofferenza retributiva è il concetto di Dharma.
Vivendo il proprio Dharma, cioè vivendo la presenza
divina in ognuno, si comprende e si supera il Karma.
Anche la Dharma-samsara, cioè l'adempimento degli
obblighi e doveri della vita quotidiana, è in ultima analisi
un mezzo di congiungimento con l'Assoluto. Jung lo
formula diversamente, ma secondo me in maniera
sufficientemente limpida e senza equivoci:
La domanda decisiva per un uomo è se è in rapporto con qualcosa di
infinito o no. Questo è il vero problema della sua vita. Solo se
sappiamo che la cosa che ci interessa veramente è infinita, possiamo
evitare di fissare il nostro interesse sulle futilità e su tutti quei tipi di
scopi che non sono realmente importanti. [...] Più un uomo pone
l'accento sui suoi falsi beni, meno sensibilità ha per quello che è
essenziale. [...] Se comprendiamo e sentiamo che qui in questa vita
abbiamo un collegamento con l'infinito, cambiarne desideri e
atteggiamenti. In ultima analisi contiamo qualcosa solo in virtù di quel
che di essenziale incarniamo, e se non la incarniamo, la vita si
isterilisce. Nei nostri rapporti con gli altri uomini, quindi, il problema
cruciale è se nel rapporto viene espresso un elemento di infinito. [...] La
vita mi è sempre sembrata come una pianta che vive sul suo rizoma.
La sua vera vita è invisibile, nascosta nel rizoma. La parte che si vede
al di sopra del suolo dura una sola estate. Poi svanisce come
un'apparizione effimera. Quando pensiamo all'eterna crescita e
scomparsa della vita e della civiltà, non possiamo sfuggire a
un'impressione di nullità assoluta. Eppure non ho mai perso la sensazione
di qualcosa che vive e che conserva sottoterra il fluire eterno.
Quel che vediamo è la fioritura che svanisce. Il rizoma rimane (23).
5. L'identità tra Brahman/Atman e la Funzione Simbolica
Nell'accezione clinica la funzione simbolica viene intesa
come il processo d'unione degli opposti consci e inconsci.
Nella psicologia junghiana la regressione della libido
causata dal conflitto tra i complessi consci e quelli inconsci,
neutralizza il conscio e attiva la funzione strutturante
compensatoria che si concretizza attraverso la scelta di
una particolare immagine onirica. Nei Veda c'è un
bellissimo brano che illustra questa fase, tra l'altro
commentato anche da Jung:
Vishnu cadde in estasi e nel suo sopore diede alla luce Brahma, che
ergendosi maestoso su di un flore di loto si levò dall'ombellico di
Vishnu
portando con sé i Veda che lesse con fervore (nascita del pensiero
creativo dall'introversione) (24)
A causa della disattenzione estatica e introversa di Vishnu,
il mondo fu inondato da un diluvio (il risultato di troppa
introversione). Sfruttando la confusione generale il
demonio ruba le sacre scritture e le nasconde negli
abissi. Brahma sveglia Vishnu dal suo sonno. Vishnu
prende le sembianze di un pesce, scende negli abissi,
vince il demonio e recupera le sacre scritture. Jung
procede nel commento dicendo:
Questo è un modo primitivo di descrivere l'ingresso della libido nel
dominio interiore dell'anima, l'inconscio. Qui, attraverso l'introversione e
la regressione della libido, vengono costellati contenuti che prima erano
latenti. Questi, come dimostra l'esperienza, sono le immagini primordiali,
gli archetipi che, mercé l'introversione della libido, sono talmente
arricchiti dai ricordi individuali che la coscienza è in grado di percepirli
[...] L'archetipo costellato è sempre l'immagine primordiale che rispec -
chia la necessità del momento (25).
Nei Tipi psicologici Jung afferma:
Mediante lo yoga i rapporti con l'oggetto vengono introversi e mercé lo
svuotamento del loro valore, immersi nell'inconscio, dove, come abbiamo
già detto, essi possono intrecciare nuove associazioni con altri
contenuti inconsci e perciò ritornare modificati all'oggetto, dopo aver
compiuto la pratica del tapas (26).
Nell'ultima fase del processo simbolico, cioè dopo il
confronto con l'inconscio, l'Io non è più l'autore ma lo
spettatore in attesa che non controlla l'accadere ma si
lascia accadere (Sich geschehen lasserì). Questo porta
alla percezione di una sintesi tra il conscio e l'inconscio.
Solo l'esperienza vitale è il criterio di verifica di tale
percezione.
Il filo conduttore principale della succitata Gita, cioè l'esortazione
di Krishna ad Arjuna - «Tu devi liberarti dagli
opposti» - si avvicina molto al concetto della percezione
della sintesi nel processo simbolico. La liberazione degli
opposti avviene in uno stato meditativo senza contenuti,
ne immagini; possiamo ipotizzare, secondo Jung, «uno
stato nel quale la libido viene fornita nella maniera del
caldo nell'incubatrice». L'identità risultante tra esterno e
interno, tra Brahman e Atman, viene descritta, come
abbiamo detto precedentemente, come Tatvam Asi (Tu sei
Quello). Sempre secondo Jung,
Nel Brahman, ente creatore e fondamento dell'universo, le cose pervengono
sulla retta via [Rta] giacché in lui esse eternamente si dissolvono
e si ricreano [...] Il senso della vita consiste nel percorrere questa via
del mezzo e nel non allontanarsene mai sconfinando negli opposti (27).
Liberando l'individuo dagli opposti si arriva all'unione stessa
degli opposti. Psicologicamente è uno stato d'animo.
Secondo il mio punto di vista, le varie fasi cliniche del
processo simbolico - e principalmente il conflitto tra
complessi consci e inconsci, e la regressione della libido
che porta alla neutralizzazione del conscio e all'attivazione
delle potenzialità compensatorie della psiche - si
rispecchiano nel processo di liberazione dai cinque involucri
upanishadici (corpo fisico, corpo vitale, involucro
mentale, involucro razionale e l'involucro costituito dai
concatenamenti causali karmici). La liberazione da questi
involucri non significa l'eliminazione fisica bensì la relativizzazione
del mondo fenomenico. Per usare un'espressione
upanishadica, Deham na Aham: Koham? So ham
(lo non sono corpo materiale: ma allora cosa sono? lo
sono Quello). In altre parole, la mia identità è divina,
Vorrei raccontarvi alcuni sogni di pazienti per illustrare
quanto affermato finora. Ricordo solo che presi a sé,
indipendentemente dalla storia personale del sognatore,
dall'atteggiamento conscio del paziente e dal rapporto
particolare che viene a stabilirsi tra l'analista e l'analizzando,
i sogni non possono rendere - almeno dal punto di
vista clinico - quella ricchezza di significati che gli è
propria e tanto meno essere indicativi del processo
maturativo.
Sono nella mia stanza. Attraverso la finestra guardo il cielo e vedo
nuvole oscure che si addensano all'orizzonte. Corro dall'altra parte della
camera e vedo dall'altra finestra un enorme lenzuolo bianco che scende
dal cielo e prende fuoco. Cerco di uscire dalla stanza ma la porta è
chiusa e ho perso la chiave. Giganteschi uccelli rapaci scendono a
piombo dal cielo verso la massa che fugge dall'incendio.
Vediamo un altro sogno dello stesso paziente ventisettenne:
Vedo un uccello grande quanto un elefante. L'uccello è bianco con una
macchia nera sulla testa. È una femmina e mi insegue per valli e campi.
(27) Ibidem
Cerco di nascondermi dietro le rocce, ma non ci riesco. A un certo
punto entro in una villa protetta da sbarre. Dalla villa una ragazza con
un fucile mi spara [...]
Penso che questi due sogni non necessitano di alcun
commento, in quanto illustrano in modo quasi fotografico
la dissociazione e l'angoscia che scaturiscono da immagini
irrazionali incontrollabili.
Dopo circa dieci mesi di lavoro analitico, i suoi sogni
cominciarono a trasformarsi. Eccone uno:
Scendo nel sotterraneo della nostra casa in campagna. I soffitti sono
bassi, i corridoi lunghi, gli spazi vasti. Scendendo sempre più giù,
insieme al mio amico archeologo, vedo delle stupende pitture murali,
molto antiche. Ho la sensazione di aver scoperto qualcosa di prezioso,
forse l'immagine di una donna che porta dell'acqua [...]
In questo sogno si può evidenziare il percorso della
libido nel mondo interiore della psiche per mezzo
dell'introversione, ma questa volta, a differenza dei primi
sogni, in maniera compensatoria.
Nel sogno che segue, di un uomo di 39 anni verso la
conclusione dell'analisi, è evidente il motivo dell'unione
degli opposti:
Vedo il polo nord. Il sole e la luna si avvicinano. Un bambino unisce il
sole e la luna con una corda che assume la forma della lettera S. Il
padre del bambino ha solo una camicia addosso, ma non sente freddo.
I paralleli tra lo yoga e i processi del percorso analitico
sono molti. Una prima serie di esercizi dello yoga è
finalizzata al miglioramento dell'igiene fisica (purificazione,
autodisciplina, rilassamento) che porta a una
maggiore consapevolezza dell'immagine corporea. Le
tecniche attinenti alla concentrazione e alla meditazione
sono analoghe al lavoro di introversione richiesto
dall'analisi. Incidentalmente va osservato che il
significato etimologico dell'espressione Hatayoga è
l'unione tra il sole (ha) e la luna (ta).
Nell'impostazione analitica classica il momento predominante
è l'analisi dei sogni, mentre nelle tecniche yoga
viene data maggiore importanza all'osservazione distaccata
delle immagini attivate dalle tecniche stesse.
Secondo Jung, la percezione della sintesi risultante dall'unione
degli opposti è molto simile alla percezione della
retta via (Rta), che è il risultato dell'unione dell'Atman con
il Brahman. L'avvicinamento tra la posizione upanishadica
e quella junghiana si può cosi evidenziare sia nella prassi
che nei fondamenti teorici.
L'identità tra Brahman e Atman viene ulteriormente formulata
nelle Upanishad come Sat-Chit-Ananda (Sat =
Realtà o Essere, Chit = Coscienza, Ananda = Gioia):
cioè la gioia che scaturisce dalla sintesi tra l'essere e la
coscienza. Le riflessioni teoriche di Jung sulla Funzione
Trascendente vanno inserite, a mio parere, nel contesto
della problematica fondamentale che percorre tutto il
pensiero speculativo occidentale attraverso ben venti
secoli, cioè la corrispondenza tra l'ordine dell'essere e
l'ordine conoscitivo: nel linguaggio upanishadico appunto
tra il Sat = Essere e il Chit = Coscienza. Senza entrare
approfonditamente in merito a questo problema, così
vasto, si può tranquillamente affermare che fu affrontato
da 1. Kant e da N. Cusano e più recentemente da E.
Cassirer. Dalla lettura delle opere junghiane mi risulta che
Jung accoglie molte delle speculazioni di Nicolaus
Cusano. Forse è interessante osservare che sia il concetto
di analogia, che è alla base del principio dell'unificazione
degli opposti, che la stessa espressione coincidentia
oppositorum sono stati usati in modo autorevole e
specifico da quest'ultimo:
Dio è coincidentia oppositorum, che è la complicazione del molteplice
nell'uno; all'inverso, il mondo è l'esplicazione dell'uno nel molteplice. Tra i
due poli si ha un rapporto di partecipazione, per il quale Dio e il mondo si
compenetrano (...) il mondo si configura come un'immagine, un'imitazione
dello stesso essere divino, ovvero come un secondo Dio o «un dio creato"
(28).
La somiglianza tra questo brano e la dottrina upanishadica
dell'identità tra Brahman e Atman, è sorprendente.
6. Osservazioni conclusive
Questo personale modo di lettura ha per me il valore di
una ricerca delle radici della mia cultura nativa. Ricerca
che sovente rimane circoscritta nel campo della conoscenza
intellettiva. Erano per me assai emozionanti le
rarissime volte che questa conoscenza si infiltrava nel
mio campo esperenziale, nel lavoro con i pazienti. Il più
delle volte, nella prassi quotidiana con i malati, ci si ritrova
alla ricerca del senso, del senso della vita, indipendentemente
dal livello culturale del paziente. Durante
le sedute non ci si limita a parlare solo di argomenti
psicologici. Spesso non è neanche possibile fare una
lettura psichica di tutto. Per il maestro zurighese «la
personalità globale dell'analista è l'unico equivalente
adeguato alla personalità del paziente» (29). La personalità
globale dell'analista, secondo me non può essere
circoscritta solo in termini psicologici e tanto meno è
possibile suddividerla artificialmente durante le sedute. La
conflittualità tra i vari complessi e la manifestazione della
funzione compensatoria dei simboli sono abbastanza
evidenti nel lavoro quotidiano dell'interpretazione dei
sogni. D'altra parte, lo studio delle tecniche yoga (inteso
come processo di relativizzazione dei cinque involucri che
impediscono all'uomo di vivere una vita armoniosa)
sembra molto simile nella sostanza e nello scopo a un
certo tipo di lavoro analitico. Naturalmente il linguaggio, i
presupposti culturali e i riferimenti mitologici sono molto
diversi.
Anche riguardo a questo problema la posizione di Jung
non è univoca. Da una parte egli dice:
Come europeo non posso prendere nulla in prestito dall'oriente, ma
devo plasmare la mia vita da me stesso, secondo quanto mi suggerisce
il mio intimo o mi apporta la natura (30).
Dall'altra afferma:
L'aspetto del Karma è ineliminabile se si vuole comprendere più a fondo
la natura di un archetipo (31).
E più in generale:
Siccome l'atteggiamento dell'europeo enfatizza fortemente l'oggetto, lo
deruba del suo rapporto con l'uomo inferiore. L'orientale è invece più
radicato a terra, e vive la radice profonda di tutto l'essere. E perciò noi,
come psicologi, abbiamo il dovere di comprendere realmente e fino in
fondo l'Oriente (32)
Come si può comprendere realmente l'Oriente senza
assimilarlo? (A meno che la comprensione sia su un
piano puramente intellettivo). Come si può assimilarlo
senza interiorizzarlo? A quanto pare, non appena Jung
usa il linguaggio concettuale, il contenuto del discorso
viene a polarizzarsi in tesi e antitesi, perché l'essenza
stessa della mente conscia nella quale ha origine il linguaggio
concettuale è discriminazione, polarizzazione e
separazione. Su un piano invece esperenziale, si costella
nello stesso Jung un'integrazione fortemente complementare
tra Oriente e Occidente. Cosi, per esempio, quando
parla del rapporto dell'individuo con l'infinito nel brano già
citato:
La vita mi è sempre sembrata come una pianta che vive sul suo rizoma.
La sua vera vita è invisibile, nascosta nel rizoma. La parte che si vede al
di sopra del suolo dura una sola estate. Poi svanisce come un'apparizione
effimera. [...] Quel che vediamo è la fioritura che svanisce. Il
rizoma rimane (33).
Secondo Jung allora la vera essenza della vita non va
cercata nella fioritura di una stagione, bensì nel rizoma
nascosto che vive nel fluire eterno. Secondo le Upanishad,
gli involucri fisici, mentali, karmici, ecc. sono effimeri.
Quello che è reale è l'identificazione con l'Assoluto. Da un
punto di vista critico la domanda cruciale sembra;
«Può esistere una coscienza senza l'Io?» Penso che la
psicologia intesa come discorso sulla psiche non possa
esimersi dal rispondere un secco «No». Il no è naturalmente
una risposta mediata da un linguaggio concettuale,
dialettico e polarizzante. Se invece la psicologia è anche
un discorso che procede dalla psiche, allora il linguaggio
che si presta è il linguaggio dell'esperienza dell'unità degli
opposti; la coscienza dell'Io che si unisce con la
coscienza del «Sé», come nell'aneddoto del pupazzo di
sale che voleva vedere il mare e nel momento della
dissoluzione esclama: «Toh, lo sono l'oceano», o come
dice Teilhard de Chardin: «In seno a un oceano
tranquillizzato, ogni goccia avrà coscienza di rimanere se
stessa», o come dice Shri Sankaracharya interpretando le
Upanishad: «Brahman è il reale, l'universo è relativo, la
coscienza individuale si identifica col Brahman, e non è
realmente differente da Brahman» (34).
Quando il linguaggio concettuale risalta la funzione
(33) C.G. Jung, Memories,
Dreams, Reflection, New
York 1962, citato in E.
Whitmont, La ricerca
simbolica. Roma,
Astrolabio, 1982, p. 316.
(34) Elenjimittam, op.
cit., p. 10.
pensiero, il linguaggio esperenziale-simbolico mette in
luce la funzione dell'intuizione. Abbiamo bisogno di tutti
e due i linguaggi, così come abbiamo bisogno di tutte le
funzioni.
Comunque il secondo tipo di linguaggio sembra ben
adattarsi all'amplificazione dei contenuti del proprio vissuto
con l'aiuto dei miti, delle religioni o di ogni altra
produzione artistica, letteraria o fantastica; in questo
caso specifico appunto quelle dell'India. I risultati
ottenuti da Jung sembrerebbero primo, una conferma
delle sue ipotesi dell'esistenza di un inconscio nonindividuale;
secondo, la possibilità di capire la struttura
reciprocamente complementaria di culture diverse;
terzo, un'indicazione, benché minima, di come usare le
immense potenzialità curative delle religioni nel contesto
clinico, considerandole alla stregua di grandi sistemi
terapeutici.
Esaminare gli sviluppi psicologici individuali in rapporto
alle diversità culturali sembra un compito tanto affascinante,
specie perché il linguaggio esperenziale supera
le barriere culturali, quanto difficile. Mi accontenterei
invece di affermare che l'intervento psicologico nella sua
accezione riduttiva, cioè tralasciando gli aspetti medici e
spirituali, non può sempre dare delle risposte
soddisfacenti. Arricchire il contesto analitico facendo dei
riferimenti incrociati con campi di vitale importanza come
quello spirituale, può forse offuscare la specificità
dell'intervento psicologico, ma fa guadagnare nella
ricchezza dell'incontro tra due esseri umani, tutti e due
in cerca di senso. Il senso della vita.

note
(1) Veda sono l'intero corpo
delle scritture sacre
indiane.
(2) Cito a memoria.
(3) C.G. Jung, Simboli della
trasformazione, in Opere,
vol. V, Torino,
Boringhieri,1970, p.231.
(4) C.G. Jung, La dinamica
dell'inconscio, in Opere,
voi. Ili, Torino, Boringhieri,
1976, pp. 67-68.
(5) R. Guénon, La Grande
Triade, Roma, Atanòr, 973,
p.70.
(6) G. Jung, la dinamica
dell'inconscio, in Opere,
vol VIII, Torino,
Boringhieri 1976, p. 233.
(7) Brihadaranyaka
Upanishad, II, p. 111.
(8) A. Elenjimittam, Le Upanishad,
Milano, Mursia,
1984, p. 14.
(9) Chandokya Upanishad,
III, XIV, pp.1-4.
(10) Brihadaranyaka
Upanishad, III, IV, p. 2.
(11) Elenjimittam, op. cH.,
p.10.
(12) Teilhard de Chardin,
Opere, Milano, II
Saggiatore, 1978, p. 401.
(13) C.G. Jung, Psicologia e
Religione, in Opera vol. XI,
Torino, Boringhieri, 1979, p.
589
(14) Ibidem, p. 590.
(15) I libri sacri indu vengono
suddivisi in due categorie: sruti
(l’udito), cioè la rivelazione e
smriti (la memoria), cioè la
tradizione orale. In questa
seconda parte è compresa la
Bhagavat Gita (la lode del
Signore).
(16) Gita, II, p. 12-13; citata
da D. Acharuparambil,
Induismo, Roma,
Teresianum, 1976, p. 204.
(17) C.G. Jung, Gli archetipi
e l'inconscio collettivo, in
Opere, vol. IX, t. 1, Torino,
Boringhieri, 1980, p. 349.
(18) Enciclopedia della filosofia,
Milano, Garzanti,
1985, p. 922, alla voce:
«Teilhard de Chardin».
(19) H. Chaudhuri, «II significato
del Karma nella Filosofia
Integrale», in Karma, La
legge Universale dell'Armonia,
Roma, ed.
Mediterranee, Roma, 1975,
pp. 115-125.
(20) C.G. Jung, Ricordi,
sogni e riflessioni, Milano,
Rizzoli, 1978, pp. 330-331.
(21) C.G. Jung, Psicologia e
Religione, in Opere, vol. XI,
Torino, Boringhieri, 1979,
pp. 491-523.
(22) Ibidem, p. 524.
(23) C.G. Jung, Memories,
Dreams, Reflection, New
York 1962, citato in E.
Whitmont, La ricerca
simbolica, Roma,
Astrolabio, 1982, p. 316.
(24) C.G. Jung, Simboli
della trasformazione, op.
cit., p. 289.
(25) Ibidem.
(26) C.G. Jung, Tipi psicologici,
in Opere, vol. VI Torino,
Boringhieri, 1969, p. 127.
(28) Enciclopedia della
filosofia, op. cit., alla voce:
<<Cusano, Nicola>>
(29) C.G. Jung, L'uomo e i
suoi simboli, Roma, Mondadori,
1985, p.61.
(30) C.G. Jung, Ricordi,
sogni..., op. cit., p. 328.
(31) C.G. Jung, Due testi di
psicologia analitica, in
Opere, voi. VII, Boringhieri,
1983, p. 78 n.
(32) C.G. Jung, Psychology
and Alchemy, in CW/12,
London, Routledge & Kegan
Paul, 1953, p. 9.