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Tre cose dobbiamo imparare: ad ascoltarci, ad amarci e a perdonarci

di Francesco Lamendola - 16/07/2009


In alcuni precedenti articoli, e specialmente in quelli intitolati «La coscienza ferita è una invocazione al reintegro nell'Essere» e «Siamo tutti feriti nell'anima e tutti bisognosi di compassione e di perdono» (entrambi apparsi sul sito di Arianna Editrice), abbiamo sostenuto che la ferita è il segno ineliminabile della condizione umana.
Infatti, non vi è creatura umana che, nella vita, non sia stata ferita; non vi è creatura umana che non abbia dovuto scendere a patti con la delusione delle proprie speranze; anzi, non di questa o quella speranza, ma della categoria della speranza in se stessa. Ma se ogni essere umano reca nella propria anima le cicatrici di una tale ferita esistenziale, allora ne consegue che non vi è creatura umana la quale non meriti rispetto, compassione e perdono.
Abbiamo anche sostenuto che, il più delle volte, si attribuisce la colpa delle proprie ferite agli altri. Specialmente per quelle di tipo affettivo - che sono tra quelle più devastanti - è sempre possibile attribuire la responsabilità delle delusioni, delle incomprensioni, delle sofferenze, al fatto che l'altro ha agito in modo inadeguato, irresponsabile, egoista.
Speculare a questo atteggiamento, è quello di coloro i quali reagiscono alle ferite dell'anima andando nella direzione opposta, ossia rifugiandosi nell'autocommiserazione, nel disprezzo di sé, nella denigrazione sistematica delle proprie qualità. Anche questa è una maniera di nascondere il problema, perché solleva dalla virile necessità di fare i conti sino in fondo con se stessi, e dal trarre le debite conseguenze dalle ripetute delusioni incontrate.
D'altra parte, la ferita non è una esperienza storica, ma metafisica: nessun essere umano può evitarla, per quanto fortunata sia la sua vita. Se non altro, nessuno potrà scampare dalla ferita della consapevolezza della propria morte e di quella delle persone amate (l'essere-per-la-morte di cui parlava Heidegger). Essa è, dunque, parte decisiva della nostra struttura ontologica
Ogni creatura umana, presto o tardi, è destinata a fare l'esperienza della delusione delle proprie speranze più care; anzi, non di questa o quella speranza, ma della categoria della speranza in se stessa. E tuttavia, se ogni essere umano reca nella propria anima le cicatrici di una tale ferita esistenziale, allora ne consegue che non vi è creatura umana la quale non meriti rispetto, compassione e perdono.
Certo, perdonare coloro che ci hanno fatto soffrire è difficile; ma quello che è impossibile all'uomo, non è impossibile all'Essere che ci ha chiamati all'esistenza, che ci ha invitati a collaborare al grande disegno dell'armonia universale, e che ci ha fornito gli strumenti indispensabili per distinguere il bene dal male. Davvero saremmo una ben misera cosa, se non vi fosse alcuna forza capace di perdonarci, anche quando siamo più incattiviti dalla sofferenza e dalla delusione.
Vorrebbe dire che, per noi, non esiste via d'uscita dal circuito perverso dell'amarezza e della rabbia; che non vi è scampo dalla potenza dell'Inferno.
Saremmo perduti: anime dannate, letteralmente, capaci solo di soffrire e di far soffrire a nostra volta, magari proprio coloro che diciamo di amare maggiormente.
Invece, l'uscita da un simile Inferno esiste; ma noi non ne abbiamo le chiavi. Noi, possiamo solo riconoscere la nostra fragilità e la nostra condizione di creature ferite.
E questa è già una forma di preghiera, che può aprirci le porte dell'Inferno e donarci l'aria libera e pura di un'altra dimensione.
Queste, in sintesi, erano state le nostre precedenti riflessioni.
Vogliamo ora tentare di analizzare più da vicino i movimenti dell'anima che si rendono necessari per realizzare il perdono di se stessi; o meglio, quella parte del perdono di noi stesi che dipende direttamente da noi; perché, per un altro verso, noi non possiamo perdonarci interamente, ma solo affidarci ad una istanza superiore, capace di perdonarci in modo integrale, perché assolutamente gratuito.
Il primo movimento è quello del silenzio e dell'ascolto, grazie al quale è possibile udire la voce della chiamata che viene dall'Essere e che ci interpella nel profondo.
Il secondo movimento è quello consistente nell'imparare ad amare noi stessi: ad amarci da persone mature, senza sconti e senza troppe indulgenze, con franchezza virile.
Il terzo movimento è quello, appunto, con cui l'anima può arrivare a perdonarsi: ma solo dopo essersi conosciuta e riconosciuta; solo dopo aver avuto il coraggio di guardarsi dentro sino in fondo, in assoluta trasparenza.
Vediamoli uno per uno.
Il primo movimento è quasi istintivo: arriva un momento, nella vita dell'anima, in cui essa avverte con prepotenza il bisogno di distaccarsi dal coro disarmonico delle voci superflue e di raccogliersi in se stessa, per potersi ritrovare.
In genere, ciò avviene quando una dura esperienza esistenziale - una perdita, una delusione - ci induce a disinserire il pilota automatico della nostra vita, a uscire dai binari dell'abitudine e a fare una riflessione globale sull'indirizzo che stiamo stando alla nostra esistenza e sul significato complessivo di essa.
È la pedagogia del dolore: dura, ma necessaria. Fino a quando le cose vanno bene, o finché ci sembra che vadano bene (il che non è esattamente la stessa cosa), ben difficilmente avvertiamo l'esigenza di interrompere il ritmo quotidiano e di porci dei grossi interrogativi, ben difficilmente siamo portati a interrogarci su quel che ci manca, su quello che non ci soddisfa interamente. E meno ancora siano propensi a farlo nei momenti di autentico benessere.
Il silenzio, dunque, come esigenza interiore e come presupposto dell'ascolto. Ma il silenzio è la condizione necessaria, non sufficiente: occorrono un certo allenamento, un certo grado di consuetudine, perché l'anima sia in grado di percepire la voce interiore, anche dopo aver messo a tacere i rumori inutili; non è una conseguenza automatica, né immediata.
Quando poi, gradualmente, l'anima incomincia ad abituarsi alla nuova atmosfera creatasi, più essenziale e rarefatta, allora incomincia a divenirle familiare la voce della chiamata, la voce dell'Essere: perché tutti siamo chiamati, che ne siamo consapevoli o no; a tutti giunge l'appello dell'Essere. Se non vi fosse l'appello, noi non proveremmo questa ardente nostalgia dell'Essere: saremmo paghi della nostra autosufficienza, e sia pure precaria e parziale.
Rimandiamo, per questa fase, a quanto già abbiamo scritto negli articoli «La  vita  come  apertura  e  come  dono a  un  radicale  progetto  di  fedeltà  all'Essere» e «La chiamata dell'Essere agli enti come l'ammiccare infinito di vivide stelle» (entrambi consultabili sul sito di Arianna Editrice), per cui non ci soffermeremo più a lungo in proposito.
Il secondo movimento dell'anima è forse il più difficile, proprio perché si crede - a torto - che tutti ne siano capaci; anzi, che tutti lo compiano spontaneamente. Specialmente nella nostra epoca, caratterizzata da un elevato tasso di edonismo spicciolo, parrebbe che amare se stessi sia la cosa più ovvia e naturale del mondo; ma, in realtà, si confonde grossolanamente il narcisismo con il vero amore di sé.
Già il fatto che «narcisismo» e «amore di sé» vengano in genere equiparati e considerati alla stregua di sinonimi, la dice lunga sulla nostra profonda ignoranza in proposito. Perché l'amore, essendo espansione della coscienza, è il contrario del narcisismo, che ne rappresenta una contrazione e una diminuzione; e dunque, esistono un amore di sé che è positivo e benefico, e un apparente amore di sé - il narcisismo, appunto - che è negativo e malefico.
La verità è che il narcisista non si vuole realmente bene, perché non sa amarsi nel modo giusto; si ama nel modo sbagliato, lusingando le proprie vanità dozzinali e sforzandosi di esaudire tutti i capricci del proprio ego viziato e annoiato. E comportandosi così, non persegue il proprio bene, ma il proprio male: perché il bene dell'anima è ridestarsi alla voce interiore e pervenire ai livelli spirituali  superiori, non indugiare in quelli più bassi.
Amarsi davvero, perciò, è un'arte non facile, che solo pochi possiedono come un dono naturale, mentre la maggioranza deve apprenderla con fatica e ricerca personale, fuori dalle strade già tracciate, sovente a prezzo di cadute dolorose e di lunghe battute d'arresto. Amare realmente se stessi è come amare realmente l'altro: una faccenda per spiriti forti, appassionati, generosi e intimamente retti; una faccenda virile, nel miglior senso del termine.
Amarsi non vuol dire scusarsi e giustificarsi per qualunque cosa; al contrario, è necessario essere severi per imparare ad amarsi nel modo giusto. Solo chi sa essere severo con se stesso, può amarsi sul serio; severo, ma non fanatico, né moralista. E amarsi davvero significa, prima di qualsiasi altra cosa, imparare la difficile arte di accettarsi senza eccessive indulgenze, ma anche senza pretendere di porsi degli obiettivi impossibili.
Si tratta di raggiungere un equilibrio scomodo e sempre in bilico, come su un sentiero a fil di rasoio: perché «accettarsi», nel linguaggio comune, vuol dire spesso indulgere nelle proprie debolezze: mentre la vera accettazione di sé significa riconoscere ed accogliere il proprio io NONOSTANTE le sue debolezze, e non A MOTIVO di esse; e porsi l'obiettivo di oltrepassarle, nella misura di ciò che è umanamente possibile.
Il terzo movimento dell'anima è quello del perdono, dopo che essa si è guardata in profondità e si è riconosciuta per quello che è, non per quello che vorrebbe far credere - a se stessa e agli altri - di essere.
Di che cosa deve perdonarsi, l'anima?
Non della ferita originaria; non del suo essere sospesa fra l'essere e il dover essere, fra ciò che è e ciò che vorrebbe diventare: piena, gioiosa, luminosa; la ferita originaria non se la è data da sé, e da sé non può liberarsene.
Essa deve ottenere il perdono per la propria infedeltà alla missione che le è stata affidata, al progetto cui è stata chiamata a partecipare: e la infedeltà più grande di tutte è proprio la negazione e il tentativo di occultamento della ferita, ossia il cercare di vivere come se il grido verso la pienezza dell'essere non vi fosse, e l'anima potesse appagarsi della propria finitezza.
A questa infedeltà essenziale si aggiungono, anzi, ne scaturiscono come inevitabile conseguenza, mille piccole infedeltà quotidiane. Le infedeltà che commettiamo verso gli altri non sono che il riflesso della fondamentale infedeltà verso noi stessi: perché chi non è leale verso se medesimo, non potrà mai esserlo verso un altro essere umano.
Ecco, allora, che la qualità dei rapporti umani fra le persone - e, di riflesso, anche di quelli professionali, affettivi, e di ogni altro genere - risulta direttamente correlata con la qualità del rapporto che l'anima ha con se stessa. Un'anima infedele verso se stessa è anche, in un modo che ella stessa - forse - ignora, un'anima infelice; e un'anima infelice sparge intorno a sé rabbia, tristezza, invidia e malevolenza. Mille anime infelici, diecimila anime infelici, un milione di anime infelici, ammorbano l'aria oltre ogni immaginazione e inquinano il benessere, materiale e spirituale, di infiniti altri esseri umani, dato che siamo tutti legati ad uno stesso filo.
È illusorio pensare che la questione dell'infelicità sia di tipo strettamente privato: chi è infelice semina sofferenza intorno a sé: come ben sanno tanti bambini che hanno avuto la sola colpa di nascere da genitori infelici, i quali, invece di affrontare responsabilmente i propri problemi esistenziali, hanno cercato sollievo nella scorciatoia di aggrapparsi al primo essere umano che sembrasse capace di fornire loro una stampella qualsiasi.
Quando avremo imparato ad ascoltarci, ad amarci e a perdonarci, diverremo anche capaci di ascoltare, amare e perdonare gli altri: prima, non è possibile.
Sarà bello.
Sarà come ritrovare la strada di casa, dopo un lunghissimo e faticoso viaggio lungo strade malagevoli e polverose.
Perché la casa dell'anima, è l'amore: e ogni volta che essa ama per davvero, è come se tornasse a casa propria.