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Mattino

di Francesco Lamendola - 21/07/2009

Lo spettacolo del nuovo giorno che nasce, in una bella mattina d'estate, è di quelli che lasciano senza fiato, se non si è smarrita del tutto la capacità di provare stupore, meraviglia, gratitudine per la bellezza del mondo.
La natura è in festa; ovunque s'incrociano voli di rondini e l'aria è piena del canto di mille uccelli; orti, giardini e boschi brillano di infinite varietà di verde, ora tenero e delicato, ora cupo e ammantato di ombre; una brezza fresca e vivificante soffia ininterrotta dalla pianura verso le colline e le montagne vicine, così nitide che sembra di toccarle soltanto allungando una mano; il cielo esce dalla tinta opaca dell'alba e assume gradualmente un azzurro limpido come cristallo, che pare ancora più smagliante per il contrasto con alcune bianche nuvole che si librano sulle cime, simili a velieri immobili su di un mare in bonaccia.
Da qualche parte, laggiù fra gi orti, si leva il canto del gallo, il canto instancabile che celebra la vittoria della luce sulle tenebre, del giorno sulla notte.
È difficile non aprire il cuore alla speranza, alla serenità, alla gioia, in un contesto così incredibilmente soave e affascinante: sembra che il mondo esca di nuovo, fresco ed intatto, come lo era il giorno in cui fu creato; un mondi verginale, seducente, come una dolce sposa vestita di bianco, che si avvia per le nozze tanto attese.
In queste primissime ore del giorno, nella dolcezza della stagione che più sembra amica dell'uomo, si direbbe che tutto diventi possibile, che tutto possa avverarsi: anche i sogni più indistinti, anche le speranze più segrete e le attese più inconfessabili. Non ci si sente più soli: sembra quasi che tutte le cose desiderino guardarci ed accompagnarci con simpatia e benevolenza, che ci vogliano sorridere e incoraggiare.
È bello, come abbandonarsi all'abbraccio della persona amata.
Le preoccupazioni sembrano meno pesanti, i dispiaceri più sopportabili, le delusioni meno amare e irrimediabili, in questi momenti: perfino le persone stanche, malate, scoraggiate, guardano con un po' più di fiducia al futuro che le attende.
Sì, sembra davvero che la natura, vestita dei suoi abiti più sontuosi, voglia invitarci a metterci in sintonia con lei e con noi stessi; che voglia richiamarci all'esigenza di essere felici, o, quanto meno, di non chiudere deliberatamente le porte alla possibilità di esserlo.
Sembra volerci dire che dipende da noi, in fondo, volerci un po' più bene; e, di conseguenza, volere un po' più bene agli altri: perché chi non si ama non può dare veramente amore, e chi non è felice non può rendere felici gli altri, se non sulla base di una menzogna che, alla lunga, si rivela insostenibile.
Ma noi non siamo fati per vivere nella menzogna: il suo peso, a lungo andare, ci schiaccia. Non possiamo vivere tenendoci sul viso una maschera: perché sappiamo assai bene che, per quanto potremo essere abili nell'ingannare il prossimo, non riusciremo mai ad ingannare a sufficienza il nostro cuore.
Il sole che sorge e il nuovo giorno che nasce, nello splendore della natura estiva, ci esortano perciò a guardare meglio dentro noi stessi, a ritrovare la pace con la nostra anima, a non disattendere indefinitamente le sue legittime aspirazioni.
Noi non siamo fatti per accontentarci di quel che capita, come i pesci d'acque basse: siamo fatti per gli oceani, per le profondità.
Se neghiamo a noi stessi la gioia di tuffarci nelle acque limpide e profonde, ci condanniamo a una vita misera, stentata, insoddisfacente: una vita inautentica, nella quale abbiamo ventiquattro ore al giorno, tutti i giorni, per misurare l'amarezza del nostro fallimento.

*  *  *
Eppure vi sono persone stanche e sfiduciate che stentano a rialzarsi, persone assetate che si sentono morire di sete, forse a pochi metri dal fiume mormorante.
Vi sono persone che, nella loro vita, non hanno mai assaporato pienamente un solo raggio di sole; persone alle quali i genitori, i parenti, gli amici, hanno negato l'alimento essenziale per l'anima: l'amore.
Persone che hanno sempre dovuto portare sulle spalle il proprio fardello in silenzio, per non turbare e non far soffrire quelli con cui vivono; che hanno dovuto reggere il peso della solitudine, della depressione o di qualche seria malattia, senza che gli altri capissero, vedessero o pronunciassero una parola buona.
Ve ne sono più di quel che non si creda: persone ferite, impaurite, stremate, che stentano a vedere la bellezza del mondo, perché hanno il cuore pieno di cicatrici non rimarginate, e l'anima straziata dalla pena delle parole non dette e non udite.
Il caso più triste è quello di coloro i quali, da bambini, non hanno ricevuto l'amore dei genitori, e che poi, diventando grandi, hanno finito per ricadere nelle stesse dinamiche dalle quali avevano cercato di fuggire, per esempio legandosi a persone sbagliate e imprigionandosi in rapporti senza alcuna prospettiva di arricchimento reciproco. Perché esistono delle leggi misteriose che spingono le anime ferite a ferirsi ancora, le anime non amate a non amarsi, le anime incomprese a non volersi comprendere.
E così trascorrono i giorni, i mesi, gli anni: e vi è chi si ritrova alle soglie della vecchiaia, senza aver mai realmente vissuto; senza mai aver potuto essere se stesso; senza aver mai goduto pienamente delle gioie che erano alla sua portata, e alle quali tutti naturalmente aspiriamo, per un retaggio innato ed istintivo.
Anche se la società consumista post-moderna può dare l'impressione, invero assai superficiale, che tutti godano o che tutti, quanto meno, siano strenuamente impegnati nella ricerca del piacere, la verità è che un numero elevato di persone non stanno bene con se stesse, non provano alcuna gioia di vivere e sentono in sé la presenza di un vuoto enorme, intollerabile, a causa di tutta una serie di condizionamenti e di esperienze negative fatti nell'infanzia e reiterati in seguito, in parte per una sorta di masochistico bisogno di punirsi.
Questo, infatti, è l'aspetto paradossale, ma frequentissimo, dell'infelicità: che essa genera nelle persone un inconscio bisogno di punirsi, quasi che l'infelicità fosse vissuta come una colpa e non come un male indesiderato: e le colpe vanno espiate.
Chi si sente colpevole della propria infelicità, senza rendersene conto cerca ancora di procurarsi della ulteriore infelicità; chi è stato ferito, cerca di ricevere altre ferite; chi è stato deluso e ingannato, cerca di mettersi nelle condizioni di subire nuove delusioni e nuovi inganni. E, come se non bastasse, tende a riprodurre tale perverso meccanismo attraverso le persone con cui vive, a cominciare dai propri figli.
Vi sono genitori che hanno sofferto da bambini, e che fanno soffrire ai propri figli le stesse cose che hanno rovinato la vita a loro: strumenti di una Nemesi implacabile, di un cerchio infernale dal quale è difficilissimo uscire.
Per uscirne, infatti, sarebbe necessario un aiuto esterno, ma non solo: perché le cose ci accadono solamente quando noi siamo pronti ad accoglierle. E se le cose positive ci vengono incontro, ma noi non sappiamo vederle, le lasceremo andare senza neanche rendercene conto: perché chi è infelice vorrebbe saziarsi di sempre nuova infelicità, e chi non si vuole bene, non riesce neppure ad immaginare che potrebbe capitargli qualche cosa di bello nella vita.
Sì: l'infelicità e lo scoraggiamento ci rendono i peggiori nemici di noi stessi. Non solo ci offuscano la vista e ci impediscono di vedere le cose positive, ma ci spingono ad accanirci contro di noi, ci rendono diabolicamente astuti ai nostri danni, fino al punto che saremmo capaci di procurarci del male perfino nelle situazioni più accoglienti e benevole.
L'infelicità è una malattia perversa, nella quale il malato fa di tutto per rimanervi.

*  *  *
Tale  la fatale contraddizione in cui viene a trovarsi l'anima che sia presa nell'ingranaggio crudele dell'infelicità: sa che cosa le occorrerebbe per uscirne, ma non lo fa; fa tutto il contrario: si procura, da se stessa, nuovo dolore e nuova solitudine.
Eppure…
Eppure, nella vita si può sempre imparare, si può sempre capire, si può sempre aprire gli occhi: non esiste una legge fatale per cui, arrivati ad un certo punto, dobbiamo rassegnarci a non sperare più; se lo facciamo, è solo perché ormai amiamo troppo la nostra sofferenza, e vogliamo concludere la nostra vita con la stessa volontà punitiva con la quale l'abbiamo trascinata.
Sempre, fino all'ultimo momento di respiro, fino all'ultimo istante di luce, ci è data la possibilità di capire, di vedere, di aprire gli occhi. Non è un destino, quello di dover procedere come buoi bendati  condotti al macello: facciamo tutto da soli.
La vita ci offre sempre delle occasioni: degli incontri, degli sguardi, delle parole che le cose ci rivolgono, purché noi le sappiamo ascoltare, purché siamo disponibili ad aprirci e a metterci in gioco, con umiltà e con coraggio.
Non possiamo compatirci all'infinito: e coloro che ci amano non dovrebbero mai compatirci troppo, se ci amano davvero.  Dovrebbero prenderci a schiaffi, piuttosto, quando vedono che ci sdraiamo sulla nostra sofferenza come su un soffice tappeto per la nostra stanchezza. Prenderci a schiaffi e costringerci ad alzarci in piedi: come si fa con l'uomo semiassiderato che vorrebbe sedersi sulla neve, dalla quale non si rialzerà mai più.
L'anima infelice è un'anima semiassiderata. Se le permettiamo di sdraiarsi sulla neve, non si alzerà mai più. Dobbiamo prenderla a calci, se è necessario, ma impedirle ad ogni costo di sdraiarsi nella neve. Questo vale per coloro ai quali vogliamo bene; e vale, ovviamente, e a maggior ragione, per noi stessi.
Non dobbiamo essere troppo indulgenti con noi stessi; non dobbiamo commiserarci. Se lo facciamo, vuol dire che non solo non ci vogliamo bene, ma che non abbiamo alcuna volontà di uscire dal nostro malessere, dalla nostra malattia. E perché dovremmo aspettarci una mano di aiuto dagli altri, se noi per primi ci neghiamo l'aiuto necessario, l'aiuto che potremmo darci?
Certo, è più facile prendersela con il mondo intero e dare agli altri la colpa della nostra vita infelice: ma a che serve? Non ci avvicina di un passo alla possibilità di star meglio.
Qualcuno, già avanti negli anni, è tentato di domandarsi: «Ma a che scopo dovrei cercare di star meglio, di essere un po' meno infelice? Forse per poter misurare in tutto il suo orrore il vuoto della mia vita trascorsa, adesso che non mi resta più tempo per darle una svolta? No: meglio seguitare a vivere come ho sempre vissuto: altrimenti sarebbe una beffa».
È un ragionamento sbagliato, perché la vera beffa è perseverare nell'infelicità, quando si è intravista la possibilità di uscirne. Per un anno, per un giorno: che importa? Quello che conta non è la durata del tempo che ci resta da vivere, ma la sua qualità. Un giorno vissuto con pienezza non è cosa da poco: può colmare il vuoto di una intera vita.
Viceversa, una vita interamente vuota non ha molto valore, neppure se durasse mille anni. Ma un giorno di pienezza potrebbe riscattare mille anni di vuoto esistenziale: perciò non è mai troppo tardi per riscuotersi ed aprire gli occhi.
Ce n'è di bellezza, nel mondo, che attende ancora il nostro sguardo!
Anche perché il segreto è capire che la bellezza, prima ancora che nel mondo, è nell'occhio che la vede e la sa riconoscere: è in noi stessi, nella nostra anima. La nostra anima è bella, purché noi non le neghiamo ostinatamente, fino all'ultimo, il suo alimento necessario.
L'alimento dell'anima è l'amore. Noi non possiamo vivere senza amare, amare, amare: a cominciare da noi stessi, per abbracciare il mondo intero.
Tale è la nostra natura: perché veniamo dall'Essere; e l'Essere, proprio in quanto è, è Amore.
Amare, perciò, vuole dire ritrovare la strada di casa, la strada dell'Essere dal quale proveniamo e verso il quale sono attratti i nostri passi, fino all'ultimo giorno di vita.