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I monologhi del pene ovvero l’eroica solitudine di Otto Weininger

di Alessandro Puma - 24/08/2009


“La donna è vuota e noi, intrepidi
coglioni, amiamo gli abissi”
(G. Papini)


In quest’epoca di imperio della vagina, riscoprire l’opera del semi-sconosciuto (in Italia) Otto Weininger, “Sesso e carattere”(Ediz. Mediterranee, Roma 1992), potrebbe essere di conforto a tutti gli esemplari del sesso maschile ormai sviliti, desessualizzati, bistrattati e scherniti fino allo sfinimento dalla società matriarcale e schizofrenica d’oggidì.
 Che cosa significano realmente il sesso maschile e quello femminile, quali sono le specificità di entrambi i sessi e soprattutto quali le reciproche, radicali, differenze che intercorrono tra di loro? Cominciamo subito col dire che il principium individuationis dell’uomo – di contro a quello della donna – è il concetto di limite: così come il genere sessuale maschile è caratterizzato dalla distinzione tra ciò che è sessuale e ciò che non lo è – essendo, per esempio, anche razionale –, quello femminile non conosce questa distinzione, essendo solo sessuale.
 “Il fatto che – dice Weininger – la sessualità non è, per l’uomo, che quasi un’appendice e non ne costituisce tutto l’essere, gli permette di superarla psicologicamente dallo sfondo complessivo delle sue sensazioni epperò di averne precisa coscienza. In tal modo egli se la può quasi mettere di fronte e considerarla staccata da tutto il resto. Nella donna, al contrario, ciò non può avvenire né nei termini di una circoscrizione cronologica delle sue manifestazioni, né in quelli di un unico organo anatomico in cui la sessualità possa essere localizzata visibilmente. […] per dirla drasticamente: l’uomo possiede il pene, mentre la donna è posseduta dalla vagina.”
 “L’uomo può dunque avere maggiore coscienza della propria sessualità e mantenersi autonomo di fronte ad essa, cosa non concessa alla donna.”(pp. 133-135).
 Oltre a ciò, è anche molto interessante la spiegazione weiningeriana del fraintendimento, tipico della nostra società effimera, che considera la donna molto più sensibile e profonda dell’uomo insensibile e superficiale, mentre in realtà ciò che oggi siamo abituati a considerare, erroneamente, “sensibilità”, non è altro che emotività e cioè quell’attitudine puerile e superficiale al riso e al pianto, tipico di società come di uomini femminilizzati e mediterranei, che si rivelano attaccati unicamente al contingente e all’ambiente familistico che sono la vera negazione della virilità di un popolo.
 Inoltre, persino quella che potrebbe essere considerata la facoltà più nobile della donna, e cioè il suo saper accudire una persona bisognosa o malata fino alle estreme conseguenze della sua morte, viene vista dal Weininger come una riprova della sua superficialità naturale che non le consentirebbe di comprendere appieno la profondità del dolore nei confronti di una persona cara che soffre.
 Quest’ultimo assunto potrebbe sembrare davvero gratuito e spiazzante, se non fosse che – secondo l’analisi psicologica weiningeriana della donna – essa non è dotata di una coscienza individualizzata del dolore, poiché tutto ciò che fa, lo fa in previsione della reazione dell’altro, di altre donne come di altri uomini, proprio come se si trovasse sempre su un palcoscenico a mettere in mostra le sue artificiose gioie e i suoi ostentati dolori, per poter godere narcisisticamente della partecipazione altrui al suo riso e al suo pianto. Le donne infatti, secondo il Nostro, si integrano perfettamente a qualsivoglia tipo di società – anche la più brutale e priva di valori – perché esse stesse sono la società, nel senso che sono incapaci di provare sentimenti autentici all’infuori di essa e cioè privatamente ossia sole con la propria coscienza come invece fa l’uomo da sempre.
 Ciò giustificherebbe anche quell’impulso alla ‘mezzaneria’, cioè quel piacere tutto femminile nei confronti dell’accoppiamento sessuale non solo proprio ma anche, e forse soprattutto, di quello altrui, di cui la donna, in quanto esponente del genere femminile, usufruirebbe proprio perché partecipe indiscriminata di esso e non di se stessa come individuo personalizzato.
 Da ciò risulta non solo che la donna non è che sessualità – e che il suo fine ultimo è esclusivamente quello del sesso e/o della procreazione che lei ne sia consapevole o meno – ma anche che lei non possa realmente essere infelice o sola nella stessa misura in cui può esserlo un uomo.
 “Poiché ogni uomo pur stando sempre in un qualche rapporto con l’idea del valore supremo (rappresentato dalla virtù, dalla probità, onestà, volontà, verità, logica cioè, in ultima analisi, da Dio n.d.r.) non può però partecipare perfettamente ad esso, non c’è uomo che sia felice. Felici sono soltanto le donne. Nessun uomo si sente felice perché, libero nella sua essenza, in terra è sempre in qualche modo vincolato. Felice può sentirsi solo un essere completamente passivo, come lo è la vera donna, o un essere completamente attivo, come lo è la divinità. La felicità sarebbe il sentimento della perfezione. Questo sentimento un uomo non potrà mai averlo, mentre delle donne possono presumere senz’altro di esser perfette […]. Alle donne non ripugna mai di mostrare ad altri la propria infelicità: appunto perché non è infelicità vera, perché dietro ad essa non sta un senso di colpa, e meno che mai quello della colpa costituita dalla stessa vita terrena, il senso del peccato originale” (pp. 364-365).
 Ma qual è, per il Nostro, la vera felicità di una donna?
 “Il momento supremo nella vita della donna, quello in cui si manifestano il suo essere e la sua gioia primordiale, è il momento in cui il seme maschile scorre entro di lei. Allora essa abbraccia follemente l’uomo, lo stringe a sé: è il supremo piacere della passività, più forte ancora del senso di felicità dell’ipnotizzata; è la materia che appunto allora vien formata e che non vuole lasciare la forma, ma trattenerla, legata perpetuamente a sé.”1 (p. 378). Per questo non devesi ingannare colui il quale assegna alla donna castità e decoro poiché essendo totalmente mendaci (e totalmente sessuate), le donne “finiscono col baciare l’uomo che le violenta e spingono a possederle chi esita a stuprarle. La donna sta come sotto una maledizione. In dati momenti essa può sentirne il peso, ma ad essa non si sottrarrà mai, chè la violenza le è troppo dolce. Falso è, in fondo, ogni suo gridare e rivoltarsi. Essa desidera soggiacere alla propria maledizione con maggiore ardore proprio quando finge di averne il maggiore orrore.” (p. 358).
 Se quest’ultima affermazione può sembrare una banale e trita riproposizione di quella tipica mentalità maschilista di un tempo, atta a sgravare l’uomo dai rimorsi per qualunque atteggiamento brutale che egli posa avere nei confronti di qualsivoglia donna, a ben guardare non vi è qui nessun tipo di maschilismo ma anzi una certa profonda conoscenza psicologica dell’anima femminile che neanche Freud, notoriamente poco avvezzo allo studio psicanalitico delle donne e in imbarazzo nella spiegazione del suo cosiddetto “complesso d’Elettra”, era riuscito a cogliere.
 Infatti: “Per capire quelle contraddizioni ingannatrici bisogna rammentarsi dell’immensa influenzabilità e plasmabilità delle donne. […] la donna non sente una deviazione dalla linea del proprio sviluppo una volontà esterna che a lei s’imponga, e non se ne difende, non vi reagisce come contro qualcosa di alieno e di disturbatore introdottosi nella sua vita interiore; non si vergogna di essere ricettiva. Al contrario, anzi, essa è solo felice di esser così; vuole perfino che l’uomo la costringa ad una ricettività anche spirituale (per questo sono sempre le donne le prime ad accettare supinamente la moda, lo shopping, la pubblicità e qualunque tipo di assurdo diktat della società in genere n.d.r.). Essa è pronta a seguire, a conformarsi e soprattutto a ripetere le credenze e i pensieri non soltanto dell’uomo che è il “il suo tipo”, ma anche dei genitori, degli zii, dei fratelli, delle sorelle, dei parenti più prossimi, di un semplice conoscente, ed è lieta se altri forma, crea in lei un’opinione. [...] Cotesta capacità di impregnarsi di idee maschili, cotesto farsi compenetrare della vita psichica femminile da un elemento estraneo, cotesto mentito riconoscimento della moralità, che non può chiamarsi nemmeno simulazione non avendo esso lo scopo di nascondere qualcosa di antimorale, cotesta accettazione ed applicazione di un imperativo per lei completamente eteronomo – tutto ciò di solito ha luogo in modo piano e facile proprio perché la donna stessa non si pone il problema dei valori: e per tal via si crea facilmente l’apparenza ingannevole di una moralità superiore.”(pp.336-337).
 La donna, cioè, può essere tutto proprio perché è nulla; e soprattutto può dare l’impressione di essere casta, proba o santa perché ha fatto propri in maniera assoluta i concetti di castità e di santità che sono esclusivamente tipici dell’uomo. Così, al tempo stesso, può ostentare, oggi, i caratteri più mascolini e beceri dell’uomo e diventare molto più rozza e volgare di esso, sempre per assimilazione.
 Ed è da questo che nascono in lei le nevrosi dell’isteria e dell’ossessione del predominio sul maschio, sia che si presenti secondo le caratteristiche materne ed accomodanti del ‘tipo’ della madre (incline a rifiutare la sua natura prettamente sessuale, che scaturisce comunque sempre in superficie, prima o poi), sia che corrisponda invece al tipo ‘megera’ (o prostituta) che accetta e vive la sua sessualità in modo più aggressivo, volendola naturalmente – ed indebitamente – estendere a tutti gli altri campi del vivere comunitario in primis sul lavoro e soprattutto sulla ragione e sulla logica. Senza contare che è la sua stessa conformazione anatomica, che non le fa vedere l’interno del suo stesso organo sessuale2, a renderla sempre isterica e nevrotica (con il termine ‘isterico’ gli antichi greci designavano, appunto, l’utero).
 Ci sarebbe ancora molto altro da dire sul Weininger, ma anche per non sembrare troppo prolissi, preferiamo rimandare alla lettura del testo; è comunque evidente che, per far comprendere a chi ci legge che questo non è affatto un pamphlet a sua volta nevrotico e allucinatorio contro le donne, lo stesso Weininger ammette che ormai molti uomini, che si lasciano trascinare dalla femminilità presente in loro e cioè dalla sessualità tout court, sono oggettivamente da biasimare e da deplorare, in particolare tutti quegli uomini (e sono oggi tantissimi) che partecipano dell’idea platonica dell’Ebraicità.
Infatti, afferma il Nostro, che: “La nostra epoca non è soltanto la più ebraica, ma anche la più femminile; è l’epoca in cui l’arte non rappresenta più che il sudario dei suoi umori e che ha fatto derivare l’impulso artistico dai giuochi degli animali […] l’epoca in cui l’ideale della verginità è stato soppiantato dal culto della demi-vierge; […] la prima che non solo ha affermato ed esaltato l’amplesso, ma che l’ha quasi elevato a dovere” (p. 418).
 Contro tutto questo il Weininger propone la grandezza dell’uomo solo con la sua moralità, dell’uomo kantiano, capace di bassezze e turpi amoralità, che riesce però a superare grazie alla sua incrollabile volontà che corrisponde perfettamente al dovere, senza bisogno di ricompense o di testimonianze.
 “L’uomo solitario di Kant (al contrario del superuomo di Nietzsche n.d.r.) non ride e non danza, non grida né esulta: non ha bisogno di far rumore, perché, nello spazio dell’universo, profondo è il silenzio. Non l’insignificanza della vita del ‘presso a poco’ è a lui dovere, ma è il suo dovere che per lui è il senso dell’universo. Dire sì a questa solitudine, ecco il ‘dionisismo’ di Kant. E solo ciò è moralità” (p. 213).